Il saggio esamina – in un (necessitato) raffronto con il settore privato – l’attuale disciplina dello smart working nel lavoro pubblico, evidenziando i principali problemi di ordine strutturale, interpretativo e applicativo che conseguono alla legislazione dell’emergenza Covid-19. L’analisi della normativa in argomento e dei relativi arresti giurisprudenziali e negoziali, si articola altresì nell’indagine concernente le peculiarità di singole amministrazioni e nella comparazione cross area con i nuovi modelli organizzativi del lavoro agile elaborati in altri paesi europei. Tutto ciò consente di riflettere, in una prospettiva de jure condendo, sui futuri spazi di operatività di un istituto che risulta sempre meno omologato alle coordinate classiche del rapporto di lavoro.
The essay examines – by doing a necessary comparison with the private sector – the current discipline of smart working within public employment, highlighting the main interpretation and application problems as a result of the emergency legislation triggered by the pandemic of Covid-19. The analysis of the referred legal regulation and of the first case-law and collective bargaining adjustments in this field, has been conducted through the investigation of individual administrations and the cross border comparison with new organisational working models developed by other European countries. All the above-mentioned invites for a reflection on the future operating models of an institution which is increasingly unrelated to the common schemes of the employment relationship.
Keywords: smart working – Covid 19 – public administration – agile working
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Oggi, più che in passato, il luogo della prestazione lavorativa non costituisce un elemento ontologico del rapporto di lavoro subordinato, afferendo piuttosto alle modalità di esecuzione della relativa prestazione. Invero, nel nostro ordinamento non sono ravvisabili specifici criteri definitori di origine legislativa relativi al luogo di lavoro, se non con riferimento a talune disposizioni determinate, prive tuttavia di portata generale [1]. Nondimeno, pur in assenza di una definizione legislativa di «luogo di lavoro», è possibile desumerne indirettamente il significato dal combinato disposto dell’art. 2094 c.c., secondo cui è «prestatore di lavoro subordinato» colui che si obbliga a «collaborare nell’impresa», con l’art. 35, l. n. 300/1970 che contiene l’elencazione delle varie articolazioni imprenditoriali ammesse a costituire un’unità produttiva (sede, stabilimento, filiale, ufficio, reparto autonomo). Il lavoro a domicilio, cioè all’interno di luoghi non di pertinenza dell’azienda dell’imprenditore, è inoltre oggetto di disciplina specifica, circostanza che, unitamente alla precedente, consente di individuare in via di tendenziale approssimazione l’azienda con il luogo di lavoro. I locali dell’azienda assurgono, quindi, a paradigma interpretativo del luogo di lavoro nei rapporti di tipo subordinato, ma l’intrinseca elasticità del concetto ad essa sotteso [2] – che viene in rilievo soprattutto in seno alle vicende circolatorie [3] e modificative del rapporto che possono interessarla (trasferta, trasferimento, distacco), nonché all’atomizzazione delle prestazioni rese nell’ambito delle nuove organizzazioni digitali del lavoro – sembra limitare la possibilità di accogliere una definizione univoca. Tralasciando, quindi, di specificare cosa debba intendersi per «azienda» – la cui «nozione irrimediabilmente relativa» [4] è stata peraltro già ampiamente esplorata in dottrina e in giurisprudenza [5] – giova, in questa sede, soffermarsi su un elemento caratterizzante il rapporto di lavoro subordinato, che emerge già dalla valorizzazione degli indici normativi offerti dai ricordati artt. 2094 c.c. e 35, l. n. 300/1970: l’inserimento del lavoratore [continua ..]
Negli ultimissimi tempi, lo smart working è stato oggetto di una produzione normativa ipertrofica, soprattutto nell’ambito del lavoro pubblico, in cui le regole inizialmente introdotte in materia erano, per converso, piuttosto scarne e per lo più mutuate dal settore del lavoro privato. Giova dunque ripercorrere, seppure sinteticamente, i passaggi normativi salienti che, dapprima, hanno condotto all’inedita apparizione del lavoro agile anche nel pubblico impiego e, successivamente, ne hanno addirittura disposto la tendenziale obbligatorietà in molti dei principali ambiti del lavoro alle dipendenze della p.A. Prima ancora dell’entrata in vigore della l. n. 81 del 2017 – che, oltre a dettare, per la prima volta, una disciplina organica del lavoro autonomo, regola altresì il lavoro agile, dedicandovi interamente la seconda parte [9]– una prima norma di riferimento per il settore privato si rinviene già nell’art. 1, c. 182-188, della Legge di stabilità 2016 (l. n. 208/2015) [10] che, da un lato, riconosce gli incentivi di natura fiscale e contributiva anche ai prestatori di lavoro subordinato che espletano la propria attività da remoto e, dall’altro, riconduce a pieno titolo lo smart working nell’alveo degli incrementi di produttività ed efficienza [11]. Tale aspetto è apparso sin da subito particolarmente rilevante, tanto da essere stato poi trasposto in una norma legale: l’art. 18, c. 4, della ricordata l. n. 81/2017 sancisce, infatti, che «gli incentivi di carattere fiscale e contributivo eventualmente riconosciuti in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del lavoro subordinato sono applicabili anche quando l’attività lavorativa sia prestata in modalità di lavoro agile». Di contro, l’apparizione [12] del lavoro agile nelle aziende pubbliche (oggi anch’esse rientranti nell’ambito di applicazione della l. n. 81/2017 [13]) è apparsa originariamente slegata dalla prospettiva di contribuire all’operatività dei c.d. “premi di produttività”, giustificandosi il ricorso da parte delle Amministrazioni al lavoro a distanza e in modalità smart principalmente sulla base di ragioni di tipo emergenziale quali, in particolare, le «situazioni di grave [continua ..]
La suesposta divaricazione iniziale tra pubblico e privato nella regolazione dello smart working comincia ad assottigliarsi con l’entrata in vigore della normativa comune ad entrambi i settori, la già ricordata l. n. 81/2017, fino poi a praticamente scomparire con l’avvento degli innumerevoli interventi legislativi diretti a fronteggiare l’emergenza Covid-19, segnando l’inizio di un destino necessariamente condiviso. Procedendo con ordine, pur non sottacendo la portata innovativa della l. n. 81/2017, va anzitutto ricordato che essa non ha introdotto una nuova tipologia contrattuale, né per il lavoro pubblico né per quello privato, limitandosi a regolare, in modo uniforme per ambedue i settori, una particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato libero da vincoli di orario e di luogo, e precisando che l’attività lavorativa può riguardare anche forme organizzative per fasi, cicli e obiettivi e può essere prestata attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici forniti dal datore di lavoro, sul quale grava quindi l’onere di assicurarne il buon funzionamento. Tale attività, che scaturisce da un accordo [30] tra le parti e postula che sia svolta all’esterno dell’azienda per una parte del giorno, della settimana o del mese, è però ammissibile soltanto entro i limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero o settimanale derivanti dalla legge o dalla contrattazione collettiva (anche di secondo livello). Fatta questa premessa di ordine generale, nel pubblico, si impone una duplice precisazione. In primo luogo, la disciplina del lavoro agile introdotta dalla l. n. 81/2017 è preconizzata dalla Riforma Madia che, pur non riferendosi espressamente allo smart working, promuove – come si è detto – «nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa» [31], con l’obiettivo di migliorare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti pubblici e di incrementare i livelli di competitività. In secondo luogo, la l. n. 81/2017 estende l’applicazione della disciplina del lavoro agile ai rapporti di lavoro alle dipendenze della P.A., ma solo a seguito di un «triplice filtro: le disposizioni devono essere compatibili con i rapporti di pubblico impiego (vaglio di [continua ..]
Si precisa, preliminarmente, la prospettiva puntuale dalla quale verranno indagati i tratti distintivi del lavoro agile rispetto al telelavoro: in primo luogo, non ci si riferirà al lavoro agile tout court, bensì allo «smart working pandemico», caratterizzato dalle peculiarità a cui si è già fatto cenno; in secondo luogo, si indagherà soltanto l’ambito del lavoro alle dipendenze della p.A. per poter preparare il terreno al campo di ricerca più specifico rappresentato dalle Università, tralasciando pertanto specifici approfondimenti su tutte le questioni già ampiamente esplorate in dottrina (anche prima della pandemia) relative alle analogie e alle differenze tra i due istituti, riscontrate soprattutto con riferimento al settore privato [52]. Fatta questa precisazione, si ricorda che, malgrado il particolare scetticismo che da sempre ha campeggiato sulla possibilità per le Pubbliche Amministrazioni di instaurare rapporti di lavoro a distanza [53], la prima regolamentazione legislativa del telelavoro si è avuta proprio nel settore pubblico con la c.d. «legge Bassanini-ter» del 1998 [54], alla quale aveva fatto da apripista il Protocollo d’intesa del 12 marzo 1997 che, cavalcando l’onda della progressiva osmosi tra pubblico e privato che si stava completando proprio in quegli anni [55], favoriva il consolidarsi di una nuova cultura gestionale improntata al risultato, anche attraverso la sperimentazione del telelavoro. Se, dunque, nel settore privato, il telelavoro è ancora regolato da una norma negoziale [56]; per i dipendenti pubblici, invece, la disciplina dell’istituto è corredata da una serie di disposizioni legislative che offrono anche le definizioni utili di «lavoro a distanza» [57], di «sede di lavoro» [58] e di «telelavoro» [59]. Segnatamente, a norma dell’art. 2, c. 1, lett. b), d.p.r. 8 marzo 1999, n. 70, per «telelavoro» [60] s’intende la prestazione di lavoro eseguita dal dipendente pubblico «in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato al di fuori della sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile, con il prevalente supporto di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che consentano il collegamento con [continua ..]
Al margine delle perplessità emerse in ordine alla distinzione tra smart working e telelavoro, è pacifico che il lavoro agile costituisca, in definitiva, una specifica modalità di espletamento dell’attività lavorativa. Esso, come tale, non rientra tra le materie afferenti alla programmazione politico-amministrativa, bensì tra quelle affidate all’attività di gestione del dirigente, realizzata con «le capacità e i poteri del privato datore di lavoro» [73]. Anche qui, dunque, la classe dirigenziale assurge a vero crocevia delle principali questioni, tanto tecnico-giuridiche come politico-istituzionali [74], sorte (o ancora sul punto di sorgere) in seno al funzionamento del lavoro agile sul piano operativo, nonché al suo inserimento nell’apparato organizzativo delle singole amministrazioni [75]. Per queste ragioni, l’approssimazione all’istituto dello smart working nel pubblico impiego non può prescindere da una disamina di come la discrezionalità dirigenziale si sia progressivamente ampliata man mano che sono state introdotte le varie misure di contenimento del Covid-19. La l. n. 81/2017, pur confermando la centralità del ruolo dirigenziale anche nella gestione del lavoro agile, che resta una modalità di lavoro dipendente, lascia ampi margini di discrezionalità all’autonomia dei contraenti. La specifica declinazione di molti aspetti del rapporto di lavoro agile non è demandata all’autonomia dispositiva del dirigente, ma è individuata nello stesso accordo. In tal senso, l’intentio legis è stata verosimilmente quella di garantire il lavoratore pur a fronte del «carattere apparentemente più “affievolito” di subordinazione» [76] dato dalla mancanza di vincoli di orario e di luogo. L’impatto di tale normativa è però risultato quasi paradossale nel settore pubblico se si pone mente come la precedente «riforma Madia» avesse ricondotto espressamente l’adozione di nuove misure organizzative e il raggiungimento degli obiettivi connessi allo svolgimento del lavoro agile all’ambito della misurazione della performance individuale e organizzativa delle pubbliche amministrazioni, vincolando il dirigente al monitoraggio dei relativi risultati, nonché [continua ..]
L’introduzione di nuove modalità di organizzazione del lavoro basate sull’utilizzo della flessibilità lavorativa, sulla valutazione per obiettivi e sulla rilevazione dei bisogni del personale dipendente, varia inevitabilmente a seconda delle politiche assunte da ciascuna amministrazione in merito agli aspetti più disparati come la valorizzazione delle risorse umane, la razionalizzazione delle risorse strumentali disponibili nell’ottica di una maggiore produttività ed efficienza, la responsabilizzazione del personale la riprogettazione dello spazio di lavoro, la promozione e più ampia diffusione dell’utilizzo delle tecnologie digitali, il rafforzamento dei sistemi di misurazione e valutazione delle performance, le agevolazione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; ecc. Nell’ambito di una «galassia di amministrazioni» [90] alla prova non solo del lavoro agile tout court, ma anche dell’ultima deriva dello smart working pandemico, si è scelto – come già anticipato – di incentrare un focus sul settore dell’Istruzione. È la stessa legge che, in tale specifico ambito, rinvia espressamente alla contrattazione collettiva. In particolare, per il comparto “Istruzione e ricerca”, è stabilito che, fino al perdurare dello stato di emergenza dovuto al diffondersi del virus Covid-19, «le modalità e i criteri sulla base dei quali erogare le prestazioni lavorative e gli adempimenti connessi resi dal personale (…) nella modalità a distanza, sono regolati mediante un apposito accordo contrattuale collettivo integrativo stipulato con le associazioni sindacali rappresentative sul piano nazionale» [91]. Alla stregua di tali previsioni, con riferimento al personale del comparto Scuola, non sono tardati ad arrivare i primi accordi siglati tra il Ministero dell’Istruzione e le OO.SS. rappresentative per la regolamentazione della modalità di didattica digitale integrata (c.d. “DDI”) [92], in forma complementare o esclusiva. Tali accordi si sono occupati di regolare gli aspetti più vari, dall’individuazione del “Piano DDI” relativo alle modalità di espletamento della didattica a distanza, fino ai tempi di lavoro e di non lavoro; fermo restando il rispetto di quanto disposto dalle Linee Guida [continua ..]
Le modalità di attuazione all’interno delle Università delle nuove forme spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa di cui all’art. 14, l. n. 124/2015, sono state individuate dai singoli regolamenti di ateneo che, già da qualche anno, hanno dato avvio all’adozione – in via sperimentale – delle misure organizzative necessarie per l’attuazione del lavoro agile, indicando linee guida generali e mettendo a punto anche regolazioni più specifiche, con specifico riguardo al personale tecnico-amministrativo. Questa fase, che chiameremo di “pre-sperimentazione” del lavoro agile nell’Amministrazione Pubblica-Università è stata prodromica all’attuale “sperimentazione” autentica dello smart working, determinata dalla pandemia e dunque, in un certo senso, eterodiretta dai decreti emanati per fronteggiare l’emergenza. Decreti, questi ultimi, ai quali infatti i regolamenti universitari hanno dovuto successivamente allinearsi, dando luogo, anche in questo caso, ad un peculiare e repentino iter evolutivo della disciplina della materia, che è d’uopo ripercorrere brevemente. La pre-sperimentazione ha avuto una durata limitata nel tempo, che è stata individuata in modo diverso a seconda delle esigenze specifiche di ogni amministrazione [95]. È variato anche il numero delle postazioni “smartabili” attivate dalle singole Università, talvolta individuate soltanto in termini percentuali [96]. Al margine di questi e pochi altri profili distonici, i primi regolamenti interni d’ateneo hanno disciplinato l’avvio del progetto pilota per la diffusione del lavoro agile nelle Università attenendosi, in modo pressoché unanime e uniforme, a quanto previsto dalla riforma Madia e dalla dir. 3/2017. Ciò si desume, in primo luogo, dalle finalità esplicitate dai vari regolamenti che, in linea con quanto previsto dal legislatore, sono prioritariamente volte a soddisfare le due “macro-esigenze” sottese all’uso del lavoro agile: la conciliazione vita-lavoro e l’aumento della produttività [97]. Allo stesso modo, i regolamenti forniscono definizioni assonanti di “smart working” [98], “sede di lavoro” [99], “strumenti di lavoro agile” [100] e [continua ..]
Il quadro regolatorio sin qui descritto, proprio per via del carattere sperimentale delle relative disposizioni, oltre che per la natura regolamentare della fonte dalla quale esse sono tratte, non appare, allo stato, decisivo ai fini del futuro riassetto organizzativo della Pubblica Amministrazione-Università. In altri termini, sebbene si sia già rilevato come l’esperienza pandemica possa senz’altro consentire di ripensare la regolazione e la concreta attuazione di nuovi moduli organizzativi per la remotizzazione dell’attività lavorativa anche nelle istituzioni universitarie, è evidente che sino a quando non si individuerà, anche attraverso il dialogo sociale, uno zoccolo duro di norme che presupponga una «regolazione trasversale» del lavoro a distanza, si finirà per ragionare sempre per compartimenti stagni e per ricadere quindi nella consueta confusione concettuale e conseguente stallo operativo tra telelavoro, smart working, home working, lavoro a domicilio e così via. In tal senso, rivolgendo uno sguardo all’Europa – anch’essa naturalmente colpita, come il resto del mondo, dal duro colpo inferto dalla pandemia – notevoli risultati si rinvengono nell’approccio empirico-behaviorista dei recentissimi interventi del legislatore spagnolo in materia. Quest’ultimo, infatti, partendo proprio dalle lacune normative emerse durante il periodo emergenziale e dai principali “deficit di sistema” lamentati dai lavoratori e dai datori di lavoro anche per il tramite delle loro rappresentanze sindacali, ha voluto riordinare e ridefinire le nuove forme di lavoro a distanza complessivamente considerate, astraendosi il più possibile dal richiamo all’“etichetta” dell’uno o dell’altro specifico istituto (telelavoro, smart working, ecc.), rinviando espressamente alla contrattazione collettiva anche per la regolazione di materie non tradizionalmente oggetto di negoziazione e collocando le nuove disposizioni in un contesto organizzativo in cui assume particolare rilievo il processo imperante di digitalizzazione in atto presso le realtà aziendali, private e pubbliche. Precisamente, a seguito di un’intensa concertazione che ha impegnato le parti sociali per un lungo periodo, sono stati approvati due significativi provvedimenti in materia di lavoro [continua ..]
Le osservazioni sin qui svolte sul rafforzamento della contrattazione collettiva in Spagna in materia di lavoro a distanza, inducono ad interrogarsi più da vicino sul ruolo assunto dalle parti sociali nella regolazione dello smart working nel lavoro pubblico italiano. È già emerso il diverso peso attribuito alla fonte negoziale con riferimento alla disciplina del lavoro agile nel raffronto tra settore pubblico e privato che, in generale, risulta più ristretto nel primo caso e più ampio nel secondo, rispetto non solo alla legge ma anche all’accordo individuale ex artt. 18 e 19 della l. n. 81/2017. A ciò si aggiunge, alla luce delle indicazioni contenute nella ricordata dir. n. 3/2017, che tale accordo viene anticipato, nel lavoro pubblico, da un atto amministrativo interno (in genere, un regolamento) a cui è demandata la regolazione dei profili organizzativi del rapporto di lavoro agile connessi alle peculiarità di ogni singola P.A., tra i quali rientrano gli aspetti concernenti il controllo di gestione e il sistema di misurazione e valutazione della performance, l’articolazione territoriale dei nuovi moduli spazio-temporali di esecuzione flessibile della prestazione, i criteri e le procedure per l’erogazione delle risorse di cui al Fondo Unico di amministrazione, nonché l’individuazione dei Comitati Unici di Garanzia (CUG) per le pari opportunità [131]. Questi ultimi, in particolare, insieme agli Organismi Indipendenti di Valutazione (OIV), sono chiamati a collaborare con la P.A. nel monitoraggio del lavoro agile e nell’adozione di tutte le iniziative necessarie all’attuazione della ricordata Direttiva [132]. L’atto unilaterale interno all’amministrazione viene, quindi, configurato quale passaggio necessario e prodromico all’attivazione dello smart working nel lavoro pubblico, limitando, di conseguenza, la sottoscrizione degli accordi collettivi. Infatti – come si è visto anche con riferimento alla fase di “pre-sperimentazione” del lavoro agile nelle Università, anteriore all’entrata in vigore della normativa emergenziale – le procedure di attivazione dello smart working nelle PP. AA. si sono generalmente risolte nell’adozione di un regolamento interno e nella successiva pubblicazione di un bando a cui hanno [continua ..]
Non è il momento per fare un bilancio sul funzionamento dello smart working nel lavoro pubblico, sia perché l’analisi dell’istituto non può non risentire del contesto emergenziale in cui esso è attualmente inserito sia perché la conversione organizzativa delle PP.AA. al lavoro agile è avvenuta in modo estemporaneo e necessitato, inserendo elementi nuovi nelle modalità di svolgimento della prestazione e di gestione del personale che non sono stati ancora pienamente sedimentati nelle singole realtà amministrative. È però il momento di interrogarsi sulla direzione verso la quale ci si sta orientando, al fine di individuare la l’obiettivo che può guidare il regolatore nell’ormai inarrestabile processo di innovazione tecnologica che si è innescato anche nel mondo del lavoro. L’emergenza sanitaria ha acceso i riflettori su uno strumento ancora poco utilizzato (soprattutto nel settore pubblico), ma il lavoro a distanza non è certamente un istituto nuovo, né lo sono i profili di criticità connessi all’assenza di vincoli spazio-temporali in vista del raggiungimento di un risultato [142]. Tuttavia, i vecchi temi relativi al lavoro a distanza (conciliazione vita-lavoro, autonomia organizzativa, incremento della produttività, ecc.) sono costretti a misurarsi con nuove sfide, derivanti non solo dalle contingenze epidemiologiche, ma anche dalla digitalizzazione che pervade oramai ogni ambito del lavoro e della sua organizzazione [143]. Naturalmente la digitalizzazione non si esaurisce nello smart working, che però ne costituisce, allo stato, uno dei principali banchi di prova. Al riguardo, non può sottacersi l’esponenziale sviluppo delle cosiddette “tecnologie intelligenti” con cui il potere pubblico è costretto a confrontarsi «di fronte a nuovi poteri che dominano lo scenario digitale»; in un’ottica di regolazione che spesso risulta non adeguata agli «algoritmi sviluppati dai poteri privati quali le big tech». Ed è questo il maggiore problema dell’odierno trend gnoseologico che ben vero impone profonde riflessioni in ordine al reticolo di fonti che variamente si intersecano, con il risultato di alterare «il presidio democratico con le esigenze di risposte veloci e [continua ..]