La sentenza in commento si occupa dei limiti ai diritti politici dei militari di carriera e rappresenta l’occasione per riflettere sullo status di questi lavoratori “in uniforme”. In essa si afferma un importante principio, ovvero che l’obbligo per le Forze Armate di mantenersi al di fuori delle competizioni politiche deve essere limitato a coloro i quali si trovino nelle condizioni tassativamente previste dalla legge, con la conseguenza che il rilievo disciplinare della condotta non può essere esteso a tutti gli appartenenti alle Forze Armate sulla base della loro mera condizione soggettiva.
This case deals with the limits to the political rights of career soldiers and provides an opportunity to reflect on the status of workers in uniform. The Court’s decision affirms an important principle: Armed Forces’duty to abstain from engaging in political campaigns must be limited only to those who are in the conditions strictly prescribed by law. It follows that no disciplinary sanctions can be inflicted on military members solely because of their status.
Keywords: military personnel – armed forces – constitutionally protected rights
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1. Fatti di causa e principio di diritto - 2. Il quadro legale: principi costituzionali e legislazione ordinaria - 3. La decisione del T.A.R. Puglia - 4. Luci e ombre della sentenza: brevi considerazioni a margine - NOTE
La “marcia” per il pieno riconoscimento dei diritti costituzionali dei militari di carriera è da sempre irta di ostacoli, stretta com’è tra i due contrapposti interessi della tutela dei diritti fondamentali di tutti i cittadini (anche quando indossino l’uniforme) e dell’indipendenza delle Forze Armate. E in questo faticoso percorso fatto di piccole-grandi conquiste un ruolo fondamentale è stato svolto dalla giurisprudenza, spesso anticipando interventi legislativi di riforma. È di pochi anni fa, ad esempio, un’importante pronuncia con la quale la Corte costituzionale ha fatto cadere il “tabù” [1] della libertà di associazione sindacale degli appartenenti alle Forze Armate e alle Forze di Polizia a ordinamento militare [2], dichiarando l’illegittimità del divieto assoluto per questi lavoratori di costituire associazioni professionali a carattere sindacale [3]. In questa materia, inoltre, un’altra questione che ha sempre destato grande interesse è quella dei limiti ai diritti politici dei cittadini “con le stellette”, ovvero la loro possibilità di partecipare alla vita politica del Paese [4]. Ed è proprio su questo tema che è intervenuto di recente il T.A.R. Puglia con una sentenza, nella quale si è stabilito che la limitazione dei diritti politici degli appartenenti alle Forze Armate – in virtù del suo carattere “eccezionale” rispetto alla regola generale sancita a livello costituzionale – debba essere disposta a mezzo di “atto normativo chiaro, specifico e univoco”, interpretato in forma restrittiva, senza alcuna possibilità di esegesi estensive o, comunque, non direttamente conseguenti dal dato testuale della disposizione. La sentenza ha preso le mosse dal ricorso presentato da un carabiniere avverso un provvedimento disciplinare comminatogli dal Comando della Compagnia Carabinieri di San Giovanni Rotondo (FG) che gli contestava di aver partecipato – “libero dal servizio ed in abiti civili” – “all’organizzazione e propaganda a favore di una lista civica” nel comune di San Marco in Lamis (FG), “facendosi ritrarre anche in fotografie pubblicate su un social network”, in tal modo “pregiudicando l’estraneità delle forze armate alle [continua ..]
Preminente importanza nella ricostruzione della disciplina in materia è l’art. 49 Cost., secondo cui “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Questa norma costituisce un’esplicitazione del diritto di associazione, di cui all’art. 18 Cost. (a sua volta espressione del principio pluralista, di cui all’art. 2 della Carta costituzionale), e rappresenta, come condivisibilmente sottolineato dal tribunale pugliese, “prerogativa fondante di uno Stato sociale di diritto”. Sennonché, è la stessa Costituzione a prevedere, all’art. 98, c. 3, la possibilità di stabilire con legge “limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici” per una serie di categorie, tra cui proprio quella dei “militari di carriera in servizio attivo”. Per questi soggetti la riserva di legge è stata esercita nel citato d.lgs. n. 66/2010 e, in modo particolare, con la disposizione, secondo la quale “le Forze Armate devono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche” [6], precisando che “ai militari che si trovino nelle condizioni di cui al comma 2 dell’art. 1350, è fatto divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati a elezioni politiche e amministrative” [7]. Tale disposizione, quindi, in ragione del richiamo all’art. 1350 c.o.m., deve essere letta secondo quanto in esso disposto. Quest’ultimo, infatti, se, nella sua prima parte, prevede che “i militari sono tenuti all’osservanza delle norme sulla disciplina militare e sui limiti all’esercizio dei diritti, dal momento della incorporazione a quello della cessazione dal servizio attivo, ferma restando la disciplina dettata per il personale in congedo” [8], subito dopo precisa che le disposizioni sulla disciplina militare si applicano nei confronti di coloro che: “a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l’uniforme; d) si qualificano, in relazione ai compiti di servizio, come militari o non si rivolgono ad altri militari in divisa [continua ..]
È in questo quadro di regole che interviene il tribunale amministrativo della Puglia, secondo il quale “la legittimità della condotta posta in essere dal ricorrente, rispetto ai doveri imposti dall’ordinamento militare, risulta con ogni evidenza già dall’inequivoco dato letterale della norma che fornisce in modo preciso le circostanze alla stregua del quale scrutinare le condotte dei militari in quanto disciplinarmente rilevanti”. L’obbligo di neutralità, secondo il ragionamento del giudicante, deve essere apprezzato nei limiti previsti dall’art. 1350, c. 2, c.o.m., ovvero circoscritto ai soli militari che “si trovino nelle condizioni ivi tassativamente indicate, con la conseguenza che il rilievo disciplinare della condotta non può essere esteso a tutti gli appartenenti alle Forze Armate sulla base della loro mera condizione soggettiva” [14]. Tale decisione si colloca nel solco già tracciato in una precedente pronuncia del Consiglio di Stato [15] secondo cui, alla luce dell’attuale legislazione, vada riconosciuta al singolo militare la possibilità di iscriversi ad un partito politico, nonché di esercitare il suo diritto di elettorato passivo. E con tale sentenza ha ridimensionato il decisum del giudice di prime cure [16], che si era spinto a sostenere l’insussistenza di incompatibilità tra l’appartenenza ad un corpo militare e l’assunzione di cariche all’interno di un partito politico. Il Consiglio di Stato, al contrario, nel tentativo di contemperare i diritti del singolo cittadino e le ragioni di pubblico interesse collegate al suo status, ha sostenuto la necessità di distinguere le due diverse condotte dell’iscrizione a un partito politico e dell’assunzione di cariche direttive al suo interno. De jure condito, infatti, la mera iscrizione costituisce un comportamento lecito, da intendersi come “adesione ideale alle scelte politiche-ideologiche” del singolo cittadino, ancorché appartenente alle Forze Armate. Anche perché il legislatore quando ha voluto escludere il diritto di iscrizione ai partiti politici, lo ha fatto espressamente [17]. L’assunzione di cariche direttive, invece, integra una situazione diversa, che implica per il militare un’esposizione sociale e mediatica molto forte, e [continua ..]
La decisione in oggetto segna un indiscutibile passo in avanti nel lento processo di pieno riconoscimento dei diritti costituzionali in capo al personale militare e contribuisce a rafforzare quello “spirito democratico” su cui la Costituzione, all’art. 52, c. 3, prescrive che si modelli, pur nella sua specialità [19], l’ordinamento delle Forze Armate. Nella sentenza si afferma un principio di diritto di grande importanza: la possibilità di comprimere le libertà politiche dei militari è legittima e prevista dalla stessa Carta costituzionale. Trattandosi, però, di un’eccezione a un principio costitutivo della Repubblica – si legge ancora nella pronuncia – essa deve essere disposta da un atto legislativo “chiaro, specifico ed univoco” soggetto a stretta interpretazione. E proprio l’interpretazione “stringente” delle disposizioni del Codice dell’ordinamento militare ha indotto il giudice ad accogliere il ricorso del lavoratore, considerando la condotta contestata pienamente rispettosa dei limiti contenuti nella legislazione in materia. Nella ben argomentata sentenza del giudice, però, non sfugge una “sbavatura” che, su un piano più generale, potrebbe ridurre la portata dell’importante principio affermato. Si tratta del passaggio in cui si legge che a privare di importanza la condotta del militare “in un’ottica di partecipazione con precipue finalità di raggiungimento di un determinato risultato politico” rileverebbe il fatto che nel caso di specie il sostegno sia stato fornito ad una “lista civica” che non presenterebbe “di per sé quella caratterizzazione politico-ideologica di particolare significatività, tipica invece delle liste elettorali dei partiti nazionali, tale da pregiudicare il principio di estraneità delle forze armate alle competizioni elettorali e da ledere quindi la ratio sottesa alle norme dell’ordinamento militare che limitano il coinvolgimento e la partecipazione dei militari alla vita politica”. Così motivando, è come se il giudice avesse voluto operare una “differenziazione” tra liste civiche e liste partitiche, legittimando implicitamente il sostegno alle prime e censurando quello alle seconde. Una tale disparità sarebbe irragionevole per almeno due ragioni. In [continua ..]