Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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Ordinamento professionale e mutamento di mansioni nel lavoro pubblico e privato: uno sguardo d'insieme (di Alessandro Riccobono, Professore associato di Diritto del lavoro nell’Università di Palermo)


Il saggio analizza la disciplina del mutamento di mansioni nel lavoro pubblico e privato, con particolare riferimento al rapporto tra lo ius variandi orizzontale e i sistemi di classificazione professionale di fonte contrattual-collettiva. La tesi è che la tecnica del rinvio all’autonomia collettiva, oggi delegata a definire l’area della mobilità orizzontale tanto nel settore pubblico quanto in quello privato, non esclude la sindacabilità delle scelte operate dalle parti sociali, a tutela dei valori costituzionali in cui si invera l’identità professionale del prestatore e contro il rischio di un’eccessiva dilatazione del debito negoziale.

 

Professional organization and change of duties in public and private work: an overview

The essay analyzes the legal framework on the on the employer’s power to change the worker’s duties in public and private work. It pays particular attention to the relationship that exists between the power to modify the worker’s duties and the classification of workers operated by collective agreements. The thesis is that the reference to collective agreements – which are now legally authorized to define the area of ​​horizontal mobility both in the public and in the private sector does not prevent the judicial review about the choices made by the trade unions, in order to protect the professionalism of the workers and to countervail the risk of an excessive expansion of the labor debt.

Keywords: Public and private employment – Duties of the worker – Ius variandi – Professional equivalence – Classification of workers – Renewal of the CCNL central functions.

SOMMARIO:

1. La disciplina del mutamento di mansioni nel lavoro privato e nell’im­piego alle dipendenze della p.a.: dal modello generale al modello speciale e ritorno - 2. Ordinamento professionale e gestione collettiva dello ius variandi orizzontale: il problema dell’ampiezza della delega - 3. Il nuovo art. 2103 c.c. e la progressiva torsione della giurisprudenza nel lavoro privato - 4. L’equivalenza formale quale regola di diritto vivente nel lavoro pubblico contrattualizzato - 5. L’art. 52 del t.u.p.i. e l’equivalenza presa sul serio - 6. Il rinvio all’autonomia collettiva e le aspettative sul piano dell’efficienza organizzativa - 7. Lo stato dell’arte nel settore privato - 8. L’esperienza dei sistemi a fasce larghe e la revisione del modello di classificazione del CCNL Funzioni centrali 2019/2021 - NOTE


1. La disciplina del mutamento di mansioni nel lavoro privato e nell’im­piego alle dipendenze della p.a.: dal modello generale al modello speciale e ritorno

La disciplina del mutamento di mansioni occupa da sempre uno spazio centrale nel pensiero scientifico dei giuslavoristi [1]. La ragione di tale rilevanza è presto detta: la materia si colloca al crocevia delle relazioni fra persona e organizzazione, in un’area in cui l’equilibrio tra i diritti del prestatore e i poteri del datore di lavoro è perennemente instabile. Tale caratteristica ne ha fatto oggetto di una riflessione senza tempo, che rinviene il suo filo conduttore nella tutela della professionalità, quale sintesi dei valori di libertà, dignità e identità sociale implicati nello svolgimento di ogni attività umana [2]. La protezione che l’ordinamento riconosce al bene giuridico professionalità è stata tuttavia affidata, almeno storicamente, a soluzioni normative differenziate a seconda del contesto organizzativo in cui si esplica l’attività lavorativa, mostrandosi altamente sensibile alla natura pubblica o privata del datore di lavoro [3]. Dalla comparazione tra l’art. 2103 c.c. e l’art. 52, d.lgs. n. 165/2001 (da ora anche t.u.p.i.) emerge infatti una profonda divaricazione fra i principi e le tecniche regolative adottate nell’impiego pubblico e quelli operanti nel settore privato [4]. È opinione condivisa che la disciplina del mutamento di mansioni dei dipendenti pubblici sia informata al criterio della specialità, dovendo deve fare i conti, almeno in via mediata, con i vincoli che condizionano l’organizzazione amministrativa ex art. 97 Cost. [5]. Ciò comporta la presenza di numerose deviazioni funzionali rispetto al modello civilistico, che si manifestano in primo luogo nell’area dello ius variandi verticale: nel settore pubblico la mobilità verso l’alto si intreccia con le fonti pubblicistiche che disciplinano gli organici e i connessi vincoli di spesa, impedendo la piena liberalizzazione delle politiche allocative che si registra in ambito privato, dove lo svolgimento in via di fatto di mansioni superiori consente, a determinate condizioni, l’avanzamento automatico nella qualifica superiore. Ancora più radicali sono le differenze che riguardano la mobilità verso il basso: l’art. 52 del t.u.p.i. non regola l’adibizione a mansioni inferiori, ancorché la giurisprudenza abbia individuato alcuni limitati casi in cui sono [continua ..]


2. Ordinamento professionale e gestione collettiva dello ius variandi orizzontale: il problema dell’ampiezza della delega

La tecnica della gestione collettiva dello ius variandi orizzontale presenta implicazioni assai complesse, ma il punto nodale riguarda l’ampiezza della delega conferita alle parti sociali. A detta di numerosi commentatori la scelta di politica legislativa sperimentata dapprima nel settore pubblico, e oggi anche in quello privato, sarebbe nel senso dell’integrale devoluzione della materia all’autonomia collettiva, il cui giudizio dovrebbe considerarsi insindacabile [10]. Chi si riconosce in questa posizione vede nel passaggio alla «professionalità contrattata» un mezzo per assicurare certezza dei rapporti giuridici, stabilità delle decisioni e deflazione del contenzioso [11]. Siffatta esigenza è avvertita in special modo nell’ambito dell’impiego pubblico, dove la gestione della mobilità attraverso parametri predeterminati assicura la parità di trattamento ex art. 45, c. 2, del t.u.p.i., mostrandosi sintonica con i principi di imparzialità e buon andamento dell’agere amministrativo. A questa tesi si oppone chi ritiene che i sistemi di inquadramento non possono essere considerati fonti sovrane, perché la contrattazione collettiva potrebbe accorpare mansioni radicalmente diverse, tramutandosi in uno strumento di deresponsabilizzazione delle prerogative datoriali. Sarebbe dunque necessaria l’individuazione un argine al potere unilaterale del datore di lavoro, sia esso pubblico o privato, a tutela dei valori costituzionali in cui si invera l’identità professionale del prestatore e contro il rischio di un’eccessiva dilatazione del debito negoziale [12]. Il che significa non rinunciare alla giustiziabilità in concreto dei provvedimenti che modificano le mansioni, qualunque sia lo strumento giuridico utilizzato a tale scopo. Sul piano metodologico, l’alternativa fra queste posizioni – e la conseguente opzione per una di esse – può essere vagliata attraverso due chiavi di lettura. La prima è quella dell’interpretazione del dato normativo, che va condotta tenendo conto dei percorsi tracciati dalla giurisprudenza, attraverso un confronto tra law in book e law in action. La seconda è quella dell’analisi del complessivo stato di avanzamento del sistema di relazioni sindacali italiano, al quale il legislatore ha affidato il compito di circoscrivere gli ambiti di legittimo [continua ..]


3. Il nuovo art. 2103 c.c. e la progressiva torsione della giurisprudenza nel lavoro privato

L’approdo interpretativo cui pervengono i sostenitori della tesi dell’insindaca­bilità delle tipizzazioni operate dai sistemi di inquadramento può contare sul favore espresso dal formante giurisprudenziale. Nell’ambito dell’impiego privato il mutamento di tecnica normativa che ha interessato l’art. 2103 c.c. ha già inciso in modo significativo sul tradizionale indirizzo interpretativo che individuava nell’«equivalenza professionale» l’architrave della disciplina sullo ius variandi orizzontale. In forza di tale indirizzo, il mutamento di mansioni si considerava legittimo se la nuova posizione attribuita al lavoratore fosse stata compatibile con il corredo di esperienze, conoscenze e capacità da questi acquisite nella fase pregressa del rapporto, nella duplice prospettiva della loro conservazione (c.d. equivalenza statica) [13] o del loro potenziale sviluppo all’interno dell’organizzazione produttiva (c.d. equivalenza dinamica) [14]. Il riferimento alla posizione occupata nel sistema di classificazione professionale «non era dunque sufficiente per determinare la prestazione esigibile e limitare il potere di conformazione del datore di lavoro» [15], e questa impostazione è rimasta salda anche nelle pronunce giurisprudenziali che, pur valorizzando il ruolo della contrattazione collettiva, hanno circondato di limiti le clausole di fungibilità orizzontale [16], o ne hanno direttamente bloccato l’applicazione, laddove conducessero all’indiscriminata fungibilità fra mansioni dal contenuto professionale eterogeneo [17]. La novella dell’art. 2103 c.c. ha radicalmente alterato questo equilibrio. Le prime pronunce di merito successive all’entrata in vigore del Jobs act hanno infatti affermato che «il controllo del giudice sulla legittimità dell’esercizio dello ius variandi è limitato ad accertare, oltre all’uguaglianza retributiva, che le nuove mansioni appartengano al medesimo livello e categoria in cui è inquadrato il lavoratore» [18]. Ne consegue che l’attuale disciplina della mobilità orizzontale si basa su un criterio di eguaglianza formale, che permette di assegnare il lavoratore a tutti i compiti ricompresi dal contratto collettivo in un certo livello di inquadramento, seppure rappresentino lo sbocco di percorsi [continua ..]


4. L’equivalenza formale quale regola di diritto vivente nel lavoro pubblico contrattualizzato

Ciò che nel settore privato costituisce uno stravolgimento delle tradizionali coordinate di sistema appare un dato di comune esperienza nel lavoro pubblico contrattualizzato. Si suole infatti affermare, in modo abbastanza perentorio, che il pubblico impiego «non ha mai conosciuto l’ulteriore limite dell’equivalenza professionale previsto dall’art. 2103 c.c.» [20]. Questa posizione è condivisa dalla Corte di Cassazione, che aderisce da tempo ad una concezione meramente formale della professionalità, attribuendo ai rapporti di equi-ordinazione stabiliti nei sistemi di classificazione dei dipendenti pubblici valenza prescrittiva, dunque sostanzialmente insindacabile [21]. L’argomento più ricorrente per motivare questa tesi è che l’art. 52 del t.u.p.i. assegna rilievo «per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della p.a., alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione alla luce del c.d. bagaglio di competenze acquisite dal lavoratore nella fase pregressa del rapporto» [22]. Il valore della professionalità viene dunque considerato recessivo rispetto agli assetti dell’organizzazione amministrativa, atteso che «tale concetto, necessariamente soggettivo, mal si concilia con le esigenze di certezza e di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico» [23]. In definitiva, non vi è spazio per un accertamento sul contenuto effettivo della prestazione, se non nei casi dell’inattività forzata o dell’integrale svuotamento di mansioni [24]. Ma si tratta vicende patologiche, che nulla hanno a che vedere con la questione dell’equivalenza. È bene precisare che siffatto indirizzo interpretativo è maturato sotto il vigore della formulazione dell’art. 52 antecedente alle modifiche apportate dalla «riforma Brunetta» (art. 62, d.lgs. 150/2009). Prima di tale intervento, la disposizione prevedeva il diritto del dipendente pubblico di essere adibito alle mansioni di assunzione o a quelle «considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi». L’approccio formalistico [continua ..]


5. L’art. 52 del t.u.p.i. e l’equivalenza presa sul serio

Chi scrive ha già avuto modo di esprimere le perplessità che suscita la sistemazione sopra descritta, opponendole una lettura alternativa dell’art. 52, d.lgs. n. 165/2001, maggiormente coerente la sua formulazione e con la sua dinamica evolutiva [27]. E sebbene la giurisprudenza continui a non mostrare segni di tentennamento, numerosi altri commentatori hanno messo in evidenza le fragilità degli argomenti utilizzati per giustificare l’idea di una equivalenza che non frappone alcun limite: né al negoziato sindacale, né alle determinazioni del datore di lavoro che si avvalga dei suoi esiti, quand’anche siano parossistici [28]. Si è detto in particolare che il richiamo all’interesse pubblico preminente non costituisce una valida giustificazione per sancire l’irrilevanza della professionalità soggettivamente acquisita dal lavoratore, giudicando i passaggi delle decisioni citate poco ponderati e per nulla convincenti [29]. È verosimile che il nucleo argomentativo su cui le pronunce citate fanno perno – e cioè lo schematismo che connota il lavoro pubblico, soprattutto sul piano della corrispondenza tra mansioni e posto in organico – risenta di alcune incrostazioni risalenti al sistema pubblicistico. È infatti noto che il rilievo della posizione formalmente ricoperta dal lavoratore all’interno del sistema di classificazione risale alla legge quadro 29 marzo 1983, n. 93, il cui art. 19 stabiliva il principio della piena mobilità dei dipendenti collocati nella medesima qualifica funzionale: questa disposizione sanciva l’equiparazione di tutte le mansioni appartenenti ai diversi profili professionali ricompresi nella medesima qualifica, ponendosi in linea continuità col principio della prevalenza dell’in­quadramento sulle mansioni, tipico del modello burocratico retto su fondamenta autoritative [30]. L’avvento della privatizzazione ha però sancito un rovesciamento di prospettiva: dapprima con il passaggio ai principi della contrattualità delle mansioni e della priorità del facere convenuto per la determinazione della qualifica (1992-1993); successivamente con l’assoggettamento al regime privatistico della micro-organizzazione (1997-1998), perseguito proprio per dinamizzare i processi di mobilità geografica e professionale dei dipendenti [continua ..]


6. Il rinvio all’autonomia collettiva e le aspettative sul piano dell’efficienza organizzativa

Il secondo stress test cui va sottoposta l’attuale disciplina dello ius variandi orizzontale richiede, come già detto, di verificare l’adeguatezza del modello regolativo teorico rispetto ai prodotti negoziali offerti in concreto dall’autonomia collettiva. Una ulteriore sponda alla tesi che sostiene l’insindacabilità della gestione contrattuale della mobilità è legata alle aspettative suscitate da tale tecnica sul piano dell’efficienza organizzativa. Nel settore privato la modifica dell’art. 2103 c.c. viene considerata una risposta all’eccesso di rigidità prodotto dall’indirizzo giurisprudenziale rivolto a tutelare ad oltranza la professionalità acquisita dal lavoratore. Troppo a lungo si è trascurato che le imprese devono poter modificare l’organizzazione del lavoro in base alle dinamiche indotte dal progresso tecnologico, le quali impongono capacità plastiche e attitudine all’adattamento a ruoli nuovi, non necessariamente affini con le competenze individuali già possedute [39]. L’obiezione è rivolta soprattutto alla concezione statica dell’equivalenza, che viene ritenuta svantaggiosa per lo stesso lavoratore, la cui professionalità sarebbe rimasta ingabbiata nelle maglie di ciò che egli «sa fare già», perdendo le opportunità di arricchimento cognitivo e capacitazionale offerte dalla società post-industriale, dove conta soprattutto il «saper come fare» [40]. L’estensione dell’area delle prestazioni esigibili sull’intero arco dell’inquadra­mento avrebbe superato la cennata logica conservativa, rispondendo alla richiesta di flessibilità funzionale avanzata dal mercato dei capitali e rendendo la gestione rapporti di lavoro subordinato «maggiormente coerente con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo» (art. 1, c. 7, l. n. 183/2014). Non diverse sono le finalità sottese all’art. 52 del t.u.p.i.: anche «la pubblica amministrazione ha bisogno, come il settore privato, di un’organizzazione diversa da quella corrispondente agli ordinamenti che esasperano le divisioni funzionali tra corpi professionali, ruoli e mansioni» [41]. E ciò perché l’adattamento proattivo delle persone al mutevole contesto organizzativo rientra tra le [continua ..]


7. Lo stato dell’arte nel settore privato

Affinché la delegificazione funzioni bene, tuttavia, è necessario che l’auto­nomia collettiva raccolga con serietà e coraggio il compito affidatole dal legislatore, facendo buon uso della leva che le consente di estendere o restringere il perimetro delle mansioni esigibili dal lavoratore nell’ambito dell’inquadramento a quest’ultimo attribuito. Il che significa graduare il valore della professionalità anche nella prospettiva dell’esatto adempimento della prestazione lavorativa, perché da tale operazione dipendono l’intensità delle prerogative gestionali del datore di lavoro e l’ampiezza del comportamento solutorio che può essere richiesto al debitore. Su questo punto va detto chiaramente che il problema sollevato dalla regolazione convenzionale dello ius variandi non attiene soltanto alle degenerazioni patologiche che potrebbero scaturire dalla esigibilità di tutte le mansioni collocate nel medesimo raggruppamento professionale: l’esercizio del potere modificativo non può infatti comportare, in alcun caso, l’emarginazione dei dipendenti sgraditi o la loro discriminazione [45]. Il punto controverso riguarda piuttosto la fisiologia delle relazioni collettive, dove il concetto di «professionalità in trasformazione» dovrebbe prendere corpo, arricchendo i contenuti dei sistemi di inquadramento ed aggiornandone le funzioni, finora essenzialmente focalizzate sulla determinazione del valore corrispettivo della prestazione [46]. Simile processo, come detto, stenta a decollare nel settore privato: in gran parte delle categorie merceologiche la classificazione segue la tradizionale impostazione verticale, che presuppone modalità di organizzazione del lavoro e della produzione di tipo gerarchico, ereditando la concezione quantitativa del facere di memoria novecentesca [47]. Non è un mistero che la modifica dell’art. 2103 c.c. sia stata considerata da più parti come una fuga in avanti del Jobs act, rispetto a un panorama contrattuale figlio di tempi diversi e bisognoso di un indispensabile periodo di transizione sul piano culturale, ancor prima che su quello temporale [48]. È vero che vi sono alcune tendenze recenti, soprattutto nella contrattazione decentrata di settori ad alta densità tecnologica, in cui si offre una maggiore considerazione al contenuto [continua ..]


8. L’esperienza dei sistemi a fasce larghe e la revisione del modello di classificazione del CCNL Funzioni centrali 2019/2021

Se si sposta l’attenzione dall’esperienza del sistema di relazioni sindacali del settore privato a quello del settore pubblico l’orizzonte concettuale è straordinariamente simile. In molti hanno sottolineato che la fiducia accordata all’Aran e alle organizzazioni sindacali è stata mal riposta, perché l’approccio della rappresentanza di interessi in tema di ius variandi è stato pavido, con conseguente frustrazione delle istanze di flessibilità organizzativa sottese ai sistemi di classificazione broad banding [52]. In effetti, la traduzione di questo modello nelle pratiche operative reali ha mostrato almeno tre limiti strutturali, che qui si possono solo sintetizzare. Innanzitutto, sul piano della tecnica redazionale, le clausole sulla mobilità orizzontale sono rimaste intenzionalmente ambigue, omettendo di prendere posizione sulla determinazione dei rapporti di equivalenza fra mansioni classificate nella medesima area/categoria, o replicando la formulazione dell’art. 52 del t.u.p.i. con mere variazioni stilistiche. In secondo luogo, l’accorpamento dei profili professionali provenienti dalle ex qualifiche funzionali ereditate dal sistema pubblicistico ha fatto sì che figure e mestieri profondamente diversi venissero collocati nella medesima area o categoria, determinando un allargamento irrazionale del debito lavorativo [53]. Infine, il modello non ha funzionato perché le posizioni economiche collocate all’interno delle diverse aree, teoricamente destinate ad avere funzione meramente stipendiale [54], sono state concepite da taluni accordi come posizioni dal diverso contenuto mansionistico, venendo conseguentemente sovrapposte alla disciplina sulle progressioni verticali [55]. Queste storture si sono esasperate con il passaggio dal precedente sistema di contrattazione, articolato su undici comparti, all’attuale archetipo basato sui quattro macro-comparti previsti dall’art. 40, c. 2, d.lgs. n. 165/2001: l’aggiornamento degli inquadramenti avrebbe dovuto procedere di pari passo con la rimodulazione degli ambiti di negoziazione collettiva, ma le parti sociali non hanno avuto tempo a sufficienza per affrontare una tematica così complessa, finendo col confermare la vigenza dei sistemi di classificazione elaborati in un contesto storico del tutto diverso, i cui effetti sono sopravvissuti sostanzialmente fino ad [continua ..]


NOTE