La Corte di Cassazione ha ribadito che, pur rappresentando l’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale una determinazione negoziale di natura privatistica, l’amministrazione – nel conferimento degli incarichi dirigenziali – è tenuta al rispetto di quanto previsto dal c. 1 dell’art. 19 d.lgs. n. 165/2001. In tal modo, il datore di lavoro pubblico è tenuto a procedere applicando le clausole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., oltre che i principi evocati dall’art. 97 Cost. Ciò comporta che la pubblica amministrazione nel conferire l’incarico dirigenziale deve svolgere una valutazione comparativa tra tutti i candidati che non si limiti a dar atto delle qualità del soggetto prescelto, dovendo, invece, indicare le ragioni che hanno ritenuto maggiormente meritevoli le qualità di un candidato invece che quelle degli altri.
he Court of Cassation has reaffirmed that, while representing the act of conferring managerial office a negotiating determination of civil law, the administration – in the assignment of managerial positions – is required to comply with the provisions of paragraph 1 of art. 19 d.lgs. n. 165/2001. In this way, the public employer is obliged to proceed by applying the provisions of fairness and good faith set out in articles 1175 and 1375 of the Italian Civil Code, as well as the principles evoked by art. 97 Cost. This means that the public administration, when appointing a manager, must carry out a comparative assessment of all candidates who do not merely acknowledge the qualities of the person selected. Instead, they should indicate the reasons which they considered most deserving of the qualities of one candidate rather than those of others.
Keywords: Public Manager – Managerial positions – Good faith and fair dealing.
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1. Il caso - 2. La natura dell’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale e relativi riflessi - 3. I criteri di conferimento dell’incarico dirigenziale: le previsioni dell’art. 19, c. 1, d.lgs. n. 165/2001 - 4. L’utilizzo dei principi di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 c.c. quale limite nell’azione di conferimento dell’incarico dirigenziale - 5. L’approccio giusamministrativistico e la critica all’applicazione dei principi di buona fede e correttezza al percorso di conferimento dell’incarico di funzione dirigenziale - 6. La natura privatistica degli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali e i profili funzionalistici della pubblica amministrazione datore di lavoro pubblico “privatizzato” - NOTE
La vicenda in oggetto prende avvio dal ricorso presentato da un dirigente che aspirava alla titolarità di vari incarichi dirigenziali e che aveva, infine, convenuto in giudizio la propria amministrazione di appartenenza al fine ottenere la declaratoria di illegittimità delle (contestate) procedure di relativo conferimento, svoltesi negli anni 2009-2010, con conseguente accertamento del proprio diritto al risarcimento del danno non patrimoniale e del danno da perdita di chance derivante dall’accertamento dell’illegittimità delle stesse. In primo e secondo grado il dirigente ricorrente aveva ottenuto la declaratoria di illegittimità e il conseguente risarcimento del danno da perdita di chances limitatamente alle procedure del 2009, non ottenendo, invece, quanto richiesto con riferimento alle procedure avviate nel 2010 posto che il giudice di merito aveva ritenuto che la p.a. avesse correttamente agito. Per ciò che qui interessa, le procedure non invalidate sono state ritenute legittime dai giudici di merito che, dopo essersi concentrati sulla natura del conferimento dell’incarico dirigenziale (del quale era stata ribadita la natura di atto negoziale adottato dall’amministrazione con i poteri del privato datore di lavoro), hanno ritenuto che – al fine di adempiere al rispetto degli obblighi ricadenti in capo alla p.a. (art. 19, c. 1, d.lgs. n. 165/2001) nella individuazione del dirigente da nominare – è sufficiente che la pubblica amministrazione argomenti sulle qualità del soggetto prescelto dando atto di aver esaminato (in ottica comparativa formale) i curricula di tutti gli altri concorrenti senza alcun onere suppletivo come quello, ad esempio, di indicare le ragioni che hanno spinto a ritenere preferibile un candidato piuttosto che gli altri e, quindi, ad esempio, maggiormente apprezzabili le qualità dell’uno piuttosto che degli altri (in un’ottica comparativa, dunque, di ordine sostanziale). Il dirigente, quindi, vedendosi accolto, solo parzialmente, il ricorso presentato in primo grado e respinto l’appello proposto in secondo grado, ha proposto ricorso in Cassazione contestando, tra i vari motivi la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che, al fine di assolvere le previsioni dell’art. 19, c. 1, d.lgs. n. 165/2001, fosse sufficiente l’attestazione di avere esaminato i curricula degli aspiranti e di avere [continua ..]
Per approfondire i riflessi dell’argomentazione analitica disposta dalla Corte di Cassazione nella pronuncia che si commenta, è opportuno volgere lo sguardo sulla disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziale in base a quanto previsto dal d.lgs. n. 165/2001 e s.m.i. (e prima ancora dal d.lgs. n. 23/1993 e s.m.i.) e, in particolar modo, dai rispettivi articoli 19. Com’è noto, il processo di “privatizzazione” del lavoro pubblico [4], avviato nel 1992, ha avuto uno dei suoi punti di forza nella nuova disciplina della dirigenza. Con particolare riferimento al sistema di affidamento degli incarichi di funzione dirigenziale, l’obiettivo perseguito dal legislatore è stato quello di “costruire una dirigenza a regime contrattuale e ad alto tasso di responsabilità, in grado di svolgere i compiti e gestire gli uffici ed i servizi, ad essa affidati, con caratteristiche di efficienza, efficacia, economicità ed autonomia” [5]. Tra gli intenti della riforma vi era certamente anche quello di consentire un agevole ricambio dei titolari delle posizioni dirigenziali al fine di ricercare una maggiore efficienza dell’azione amministrativa (pur salvaguardando le specialità, comunque, immanenti nella disciplina del lavoro pubblico anche a fronte dell’intervenuto processo di privatizzazione). È proprio su tale punto che la giurisprudenza intervenuta si è dovuta concentrare al fine di individuare i corretti limiti nell’azione organizzativa gestionale del datore di lavoro pubblico nella scelta del soggetto a cui conferire l’incarico dirigenziale. Al fine di delineare il percorso motivazionale adottato con orientamento unanime dalla Corte di Cassazione (del quale la sentenza in commento rappresenta ulteriore tassello) è opportuno, sinteticamente e preventivamente, dar atto dell’impalcatura della fattispecie della costituzione del rapporto dirigenziale e del conferimento degli incarichi dirigenziali. La questione inerente alla natura degli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali è stata una delle questioni più dibattute nel panorama dottrinale e giurisprudenziale, considerato che è proprio nella fattispecie del conferimento dell’incarico dirigenziale che si manifesta con maggior vigore “la connessione tra la pubblicità delle funzioni che l’amministrazione [continua ..]
Nell’assetto del potere organizzativo delle pubbliche amministrazioni, uno dei nodi più delicati è rappresentato dalla disciplina sul conferimento degli incarichi dirigenziali posto che, come detto, in questa fattispecie si incrociano la pubblicità delle funzioni amministrative e il carattere privatistico del rapporto individuale di lavoro conseguente alla c.d. “privatizzazione del pubblico impiego” [13]. Non a caso, proprio la disciplina degli incarichi dirigenziali (art. 19 d.lgs. n. 29/1993, dapprima, e, poi, art. 19 d.lgs. n. 165/2001), e il connesso bisogno di individuare dei criteri formali e sostanziali per il loro conferimento, rappresentano una tematica “chiave” oggetto di plurimi e successivi interventi legislativi di rimaneggiamento. L’art. 19, c. 1, d.lgs. n. 165/2001 nella sua attuale formulazione prevede che “ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell’amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento dell’incarico. Al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’articolo 2103 del codice civile” [14]. A fronte del tenore letterale della norma (in tutte le varie versioni succedutesi dal momento della disposta privatizzazione del pubblico impiego) la giurisprudenza (immediatamente sollecitata a rispondere delle doglianze di tanti dirigenti esclusi dal conferimento di incarichi dirigenziali a cui ambivano) è stata chiamata a interrogarsi sulle regole applicabili al procedimento di selezione del dirigente al fine di elaborare un perimetro di regole d’azione che l’amministrazione è tenuta ad assolvere e, dunque, di limiti applicabili. La giurisprudenza, in particolare, è stata chiamata a valorizzare il regime privatistico proprio degli atti di conferimento dell’incarico con l’esigenza di non soprassedere innanzi ai [continua ..]
È proprio sulla natura dei “limiti” a cui può esser sottoposta la scelta del dirigente incaricato che si è concentrata la giurisprudenza intervenuta a fronte dell’incertezza nella formulazione della norma facendo ricorso all’utilizzo dei criteri “privatistici” di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 c.c. al fine di caratterizzare il diritto privato applicabile al conferimento dell’incarico (si ricordi in tal senso che è la stessa pronuncia commentata a ribadire che anche l’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale rientra tra gli atti assunti dalla pubblica amministrazione con i poteri del datore di lavoro privato) [19]. Già nel tenore della formulazione della norma sul conferimento degli incarichi contenuta nell’art. 19 d.lgs. n. 29/1993, per come riformulata dal d.lgs. n. 80/1998, la giurisprudenza era intervenuta a limitare la discrezionalità nella scelta del dirigente destinatario dell’incarico imponendo all’amministrazione – ai fini dell’affidamento dell’incarico dirigenziale – di operare una valutazione ponderata della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e delle capacità del dirigente in relazione ai risultati conseguiti in precedenza. Così facendo, i giudici ordinari, a fronte della coeva incertezza del tenore normativo anche nel previgente testo unico citato, hanno introdotto “connotati garantistici dello status dirigenziale” [20] in un momento storico nel quale si puntava molto sulla promozione del buon andamento della pubblica amministrazione. Parallelamente, la Corte costituzionale (per altre finalità) aveva sostenuto la necessità che la scelta dei dirigenti a cui conferire gli incarichi dirigenziali fosse ispirata ai principi (di natura pubblicistica) del giusto procedimento e di imparzialità anche mediante il ricorso a criteri e procedure comparative di scelta [21]. Conseguentemente, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che l’amministrazione, per conformare la scelta del dirigente ai principi di buon andamento e imparzialità, innesta regole e principi di caratura pubblicistica tramite le clausole di correttezza e buona fede [22]. In tal modo, il Giudice (ordinario) sottopone a sindacato l’esercizio dei poteri, esercitati [continua ..]
Occorre dar atto, però, che le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza appena citata confliggono con alcune letture interpretative [29] elaborate sia dalla dottrina, ma anche dalla giurisprudenza di merito intervenuta in passato sul tema [30]. Secondo le letture critiche proposte, la conseguenza del su citato complesso percorso interpretativo, compiuto dalla Corte di Cassazione, determina l’applicabilità, almeno per una quota, agli atti negoziali del regime proprio degli atti amministrativi contraddicendo l’autonomia del datore di lavoro privato al quale la riforma della c.d. “privatizzazione” del pubblico impiego (in buona parte) ha voluto assimilare la pubblica amministrazione. Gli argomenti critici sul punto hanno evidenziato che in assenza di una previsione legislativa o negoziale espressa, l’onere di motivazione espressa e di valutazione comparativa della scelta effettuata dall’ente non possa desumersi dai principi di correttezza e buona fede posto che tali principi potrebbero essere invocati solo quando vengono lesi diritti soggettivi già riconosciuti dall’ordinamento giuridico afferendo, infatti, alle modalità di adempimento degli obblighi correlati a tali diritti. Dunque, le regole di correttezza e buona fede non potrebbero configurare obblighi ulteriori rispetto a quelli previsti nel contratto, nell’atto illecito o in ogni altro atto o fatto idonei a produrlo [31]. A sostegno di tale tesi si è rimarcato, esemplificativamente, che la Corte costituzionale, nel lavoro privato, con riferimento alla fattispecie del licenziamento ad nutum [32] ha affermato la necessità della sussistenza di disposizioni legislative o negoziali per applicare limiti e vincoli all’esercizio del potere del datore di lavoro non potendosi rinvenire efficacia precettiva diretta, ad esempio, dai principi costituzionali di uguaglianza sostanziale. Si è, pertanto, ritenuto che il controllo giudiziale potesse svolgersi limitatamente all’adempimento di obbligazione preesistenti (poiché risultanti da fonti legali o negoziali) alle quali non possono sostituirsi, anche solo quale parametro, le clausole generali di correttezza e buona fede che non potrebbero fungere da autonoma fonte di obblighi, bensì da meri criteri valutativi [33]. L’autonomia del datore di lavoro privato trova la sua peculiarità nella [continua ..]
Tale lettura, a parere di chi scrive non pare pienamente condivisibile. La Corte di Cassazione, nuovamente intervenuta sul tema, con la pronuncia in commento, ha ribadito (con ulteriori argomentazioni) il proprio (ormai) consolidato orientamento giurisprudenziale [35]. L’orientamento della Corte di Cassazione si colloca nel solco di un orientamento valorizzato dalla dottrina secondo cui, nei rapporti di lavoro “privatizzati”, il valore precettivo dei principi di buona fede e correttezza viene “arricchito” dai valori di neutralità e di efficienza, di cui sono espressione i principi di imparzialità e di buon andamento [36]. Da ciò ne deriva che il singolo atto di gestione del rapporto di lavoro privatizzato non può essere sindacato sotto il profilo dei motivi (posto che proprio la conservazione della natura negoziale ne assicura la libertà nei fini), ma deve consistere in una scelta ragionevole e coerente con le esigenze di efficienza dell’amministrazione, così “da soddisfare le legittime aspettative dei lavoratori destinatari dei suoi effetti […] senza dover ricorrere a categorie pubblicistiche incompatibili con la natura negoziale degli atti di gestione”, si ricerca “un punto di equilibrio tra le esigenze di flessibilità perseguite con la privatizzazione e quelle di garanzia dei destinatari degli atti negoziali” [37]. Se da un lato non si condivide che l’applicazione della buona fede e correttezza determini una contaminazione giuspubblicistica della fattispecie del conferimento degli incarichi dirigenziali, d’altro lato il “soccorso” di tali principi è figlio di un’interpretazione giurisprudenziale, oltre che di un’elaborazione dottrinaria non avendo solidi approdi normativi. Attraverso il c. 1 dell’art. 19 d.lgs. n. 165/2001, il legislatore si è limitato a pretendere che la scelta del conferimento di un incarico dirigenziale da parte della pubblica amministrazione fosse ancorata a precisi criteri di oggettività e trasparenza e a elementi soggettivi e oggettivi [38]. Da ultimo, vi è stata l’introduzione del c. 1-bis dell’art. 19 d.lgs. n. 165/2001 che ha introdotto l’obbligo dell’amministrazione pubblica di rendere conoscibili, anche mediante pubblicazione di apposito avviso, il numero e la tipologia dei [continua ..]