Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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Le competenze digitali per la trasformazione smart del lavoro pubblico (di Massimiliano De Falco, Assegnista di ricerca nell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Collaboratore scientifico nell’Università degli Studi di Udine)


La nota condizione del Medioevo digitale italiano ha conosciuto timidi segnali incoraggianti nel contesto dalla contingenza pandemica. In questo scenario, la necessità di garantire i servizi pubblici ha determinato una rapida accelerazione nella transizione verso nuovi modelli di lavoro, invero più sul piano tecnico, che su quello organizzativo. L’A. indaga il tema delle competenze digitali, quale fattore abilitante per la p.a. 4.0. nella prospettiva di crescita e manutenzione del capitale umano pubblico “oltre l’emergenza”.

Parole chiave: Digitalizzazione – Pubblico impiego – Lavoro agile – Competenze digitali – Fattori abilitanti.

The well-known condition of the Italian digital Middle Ages has known timid encouraging signs in the context of the pandemic contingency. In this scenario, the need to guarantee public services has led to a rapid acceleration in the transition to new working models, indeed more on a technical level, than on an organizational one. The A. investigates the issue of digital skills, as an enabling factor for P.A. 4.0. in the perspective of growth and maintenance of public human capital “beyond the emergency”.

Keywords: Digitization – Public employment – Smart working – Digital skills – Enabling factors.

SOMMARIO:

1. Lavoro e tecnologia nell’impiego pubblico - 2. La reticenza del datore pubblico di fronte ai lavori orientati a «fasi, cicli e obiettivi» - 3. L’ascesa (e la caduta) del lavoro agile nelle pp.aa. - 4. Le competenze digitali, quali fattori abilitanti - 5. Dal Medioevo al Rinascimento digitale - NOTE


1. Lavoro e tecnologia nell’impiego pubblico

Il cambio di paradigma offerto dall’ingresso delle tecnologie nei contesti di lavoro, sia pubblico, sia privato, impone di ripensare la prestazione e le sue modalità di esecuzione [1]. La trasformazione digitale, che avanzava a macchia di leopardo [2] ed era, sovente, percepita quale fattore di potenziale rischio con riguardo alla temuta sostituzione dell’agire umano [3], si sta, invece, mostrando come fondamentale strumento per garantirne la conservazione [4]. La relazione tra le parti del contratto evolve, quindi, dal mero scambio tra presenza e retribuzione, verso una sempre più ampia autonomia realizzativa, in un quadro di flessibilità e responsabilità [5]. Questa innovativa concezione del rapporto ambisce a essere foriera di benessere, sia per le organizzazioni, in termini di maggiore produttività, sia per i prestatori, in ordine alla conciliazione dei tempi di vita personale e professionale, nonché, diffusamente, nell’ottica della sostenibilità [6]. Se non alla vaticinata fine del lavoro [7], la digitalizzazione porta con sé, dunque, cambiamenti epocali, in grado di archiviare le teorie manageriali fondate sul controllo, accogliendo nuovi modelli costruiti su affidabilità e fiducia. Dinanzi a tali mutati scenari, il diritto del lavoro ha, da tempo, avviato un proficuo dialogo con l’economia digitale, nella consapevolezza della crescente difficoltà di bilanciare le istanze di tutela delle persone che lavorano con gli emergenti assetti tecnico-produttivi [8]. In prima battuta, la questione è parsa riguardare esclusivamente le attività d’impresa, ove le parti non hanno potuto sottrarsi al confronto e alle innovazioni, collocate su scala mondiale e in mercati competitivi. Dei vantaggi offerti dal progresso tecnologico avrebbero, però, ben potuto beneficiare anche (e soprattutto) le pp.aa. [9], per le quali il ricorso al digitale potrebbe estendersi dalla dematerializzazione degli atti all’azione amministrativa, traghettandola verso nuovi servizi e nuove forme di esercizio dei propri compiti [10]. Ma la comprensione di come la c.d. Quarta Rivoluzione Industriale, al di là della aggettivazione, avrebbe potuto giungere alle amministrazioni pubbliche è rimasta a lungo sullo sfondo [11]. Invero, si intuiva che la digitalizzazione, in stretta connessione con gli [continua ..]


2. La reticenza del datore pubblico di fronte ai lavori orientati a «fasi, cicli e obiettivi»

La riorganizzazione dei processi della p.a. è, dunque, connaturata alla digitalizzazione: l’una non potrà realizzarsi senza l’altra ed entrambe dovranno essere perseguite quanto più rapidamente possibile, al fine di superare le descritte criticità. L’amministrazione, nella prospettiva digital first, deve accogliere misure di flessibilità organizzativa, che consentano di presidiare l’erogazione dei servizi pubblici, richiesta dall’utenza anytime, anywhere, in un mondo che cambia a una velocità mai sin qui conosciuta. Tra esse, merita di essere approfondita la modalità agile di esecuzione della prestazione lavorativa, che ben si presta a fungere da cartina di tornasole, per valutare l’attuale impatto della digitalizzazione nelle pp.aa. [29]. L’istituto, disciplinato dal Capo II della l. n. 81/2017 e applicabile ai rapporti alle dipendenze della pubblica amministrazione «in quanto compatibili» (ai sensi dell’art. 18, c. 3, l. n. 81/2017), rientra, del resto, tra quegli strumenti di conciliazione adottati nell’impiego pubblico, che, oltre a incrementare il benessere del personale, hanno da sempre avuto l’obiettivo cardine di favorire l’innovazione organizzativa della amministrazione e, pertanto, di incrementarne l’efficienza, riducendo gli oneri per la finanza pubblica [30]. Volgendo l’attenzione, in particolare, al lavoro agile, questo rappresenta una forma di flessibilità idonea a favorire l’adattamento della p.a. all’era digitale, stimolandone la riorganizzazione, in vista di una diversa (e più proficua) gestione delle risorse umane [31]. A favore di questa impostazione depone anche la direttiva n. 3/2017 – contenente «indirizzi per l’attuazione delle disposizioni legali attraverso una fase di sperimentazione» – secondo cui «una delle principali sfide dell’introduzione dello smart working [ [32]] nelle pubbliche amministrazioni è il cambiamento della cultura organizzativa [...]: le nuove tecnologie di produzione di tipo digitale consentono di superare il concetto di “timbratura” del cartellino e della “presenza fisica” in un ufficio». In questi termini, il lavoro agile permette di varcare i tradizionali steccati del luogo (e del tempo) di lavoro, attraverso un orientamento al risultato e non [continua ..]


3. L’ascesa (e la caduta) del lavoro agile nelle pp.aa.

Il dibattito sulla concreta – ma, come detto, per lungo tempo inattuata – possibilità di esportare parte del processo produttivo (latu sensu) all’esterno delle amministrazioni ha assunto sfumature ancor più accese nell’ambito della crisi (sanitaria, economica e sociale [47]) da Covid-19. La pandemia – nella chimica delle relazioni di lavoro – ha agito da catalizzatore, imprimendo una decisiva spinta all’innovazione e accelerando la transizione verso nuovi modelli organizzativi. Se, da un lato, lo stato di calamità ha evidenziato le vulnerabilità del contesto-Paese, dall’altro, infatti, ne ha anche messo in risalto la prontezza nell’attivazione: le pretese di celerità e le esigenze di contenimento del contagio hanno imposto un rapido impulso al lavoro da remoto (rectius, da casa) [48], quale risposta sistemica alla propagazione del virus. Agli effetti inattesi della pandemia, deve essere, quindi, ascritta l’esplosiva diffusione del lavoro in modalità agile, il quale – mutando la propria fisionomia tipica, per adattarla al contesto emergenziale [49] – è risultato fondamentale, affinché l’azione amministrativa proseguisse (o riprendesse), nonostante la situazione anomala. In questo senso, da “istituto di nicchia” [50], lo smart working è rapidamente divenuto “ancora di salvezza” e – pur sacrificando la funzione regolativa attribuita all’autonomia individuale delle parti (ex art. 19, l. n. 81/2017) – si è dimostrato idoneo a salvaguardare diritti costituzionalmente protetti [51]. Certo è, però, che la decretazione alluvionale che ha colpito l’istituto ne ha radicalmente – sebbene in termini condizionati al permanere dello stato di emergenza – mutato i tratti identitari, a partire dalla finalità sottesa alla sua adozione, rendendo la misura prioritariamente tesa a tutelare la salute e la sicurezza dei prestatori. La necessità di limitare la presenza del personale negli uffici ha, per un verso, compromesso la reale percezione delle potenzialità (e delle criticità) dello strumento, ma, per l’altro, ha consegnato la consapevolezza della modalità ibrida di esecuzione della prestazione lavorativa, come strada percorribile anche nel settore pubblico. La pandemia ha, dunque, [continua ..]


4. Le competenze digitali, quali fattori abilitanti

Le considerazioni sin qui esposte, rispetto al persistente ritardo digitale del nostro Paese, rese così marcatamente evidenti nella contingenza pandemica (poco agilmente affrontata), si legano in modo indissolubile al tema della formazione – e, nello specifico, a quella “formazione che insegni la flessibilità” [72] – divenuta, oggi più che mai, un tassello fondamentale per sopravvivere in un mondo in continua evoluzione [73]. Invero, nel processo di digitalizzazione della p.a. e nel passaggio verso nuove modalità di esecuzione della prestazione lavorativa i dipendenti pubblici dovranno acquisire, oltre alle abilità tecniche, anche altre competenze che consentano loro di adattarsi con fiducia ai cambiamenti in atto [74]. In un contesto in cui le carriere non sono solo più lunghe [75], ma anche maggiormente soggette alle trasformazioni di ruoli, mansioni e professionalità [76], le competenze, specie sul versante digitale, necessitano di essere costruite nel tempo e consolidate con l’aggiornamento costante, lungo tutto l’arco della vita [77]. La questione è di cruciale rilevanza, allorché il sapere digitale rappresenta una delle «otto competenze chiave per l’apprendimento permanente» [78] e presuppone la capacità di utilizzo, in modo sicuro, responsabile e informato, delle tecnologie – oramai indispensabili – in tutti gli ambiti della vita quotidiana (tra cui, ovviamente, quello lavorativo). Non si tratta, semplicemente, di saper interagire con un artefatto informatico, ma di riuscire a ottenerne il massimo rendimento: l’enfasi muove dalle strumentazioni alle persone che lavorano [79], chiamate a comprendere come la transizione digitale possa supportare un’inclusione sociale attiva, soprattutto a favore di coloro che, più di altri, risultano sfavoriti nel (e dal) digital divide [80]. Pur non potendosi trascurare il ruolo ambivalente delle tecnologie nella vita delle persone [81], per non lasciare indietro nessuno [82], la transizione digitale dovrà essere inclusiva e realizzarsi lungo due direttrici convergenti, attraverso investimenti nell’istruzione della forza lavoro “nuova” e nella riqualificazione di quella “vecchia” [83]. La tensione verso politiche formative che tengano conto della gestione delle [continua ..]


5. Dal Medioevo al Rinascimento digitale

All’esito del ragionamento sin qui condotto, pare potersi sostenere che la rivoluzione digitale della p.a. implichi un cambiamento culturale e organizzativo della stessa, che presuppone strategie di gestione del personale, volte a formare, responsabilizzare e valorizzare i dipendenti, attraverso la puntuale definizione di contenuti e modalità di esecuzione della prestazione, anche al fine di misurarne e valutarne la performance [101]. Affinché l’auspicata trasformazione possa realizzarsi pienamente, si afferma la necessità di un’azione sinergica, che veda coinvolto tutto il management pubblico e non solo il «Responsabile per la transizione digitale» (art. 17, d.lgs. n. 82/2005), la cui istituzione è sicuramente da salutare con favore, ma soltanto all’interno di un più ampio ripensamento dei ruoli apicali. I dirigenti, a cui si richiede «di promuovere la realizzazione di nuovi assetti organizzativi, di innescare l’innovazione e l’ap­prendimento organizzativo, di incentivare e responsabilizzare tutti i dipendenti ad adoperarsi per il buon esito dei processi» [102], dovranno essere i primi destinatari delle misure di formazione di cui si è detto sopra, sì da consentire il superamento della “cultura del sospetto”, attraverso la pianificazione di un lavoro per «fasi, cicli e obiettivi». Solo con «l’affermazione di una cultura organizzativa basata sui risultati, capace di generare autonomia e responsabilità nelle persone [e] di apprezzare risultati e merito di ciascuno» [103], già posta alla base del lavoro agile (qui identificato come lo strumento di verifica della tenuta del modello), il processo di innovazione organizzativa e digitale delle pp.aa. potrà trovare, finalmente, compimento. Nell’ottica dell’apprendimento permanente, le attività formative dovranno essere rivolte alla generalità dei civil servants, di modo che il “corpo” possa realizzare quanto pianificato a livello strategico. Di nuovo, dalla disciplina dello smart working può muoversi un ragionamento più generale. L’art. 20, c. 2, l. n. 81/2017 prevede, infatti, che «al lavoratore impiegato in forme di lavoro agili può essere riconosciuto […] il diritto all’apprendimento permanente»; se la p.a. ambisce [continua ..]


NOTE