Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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Il contratto collettivo integrativo nel pubblico impiego tra limiti e poteri (di Anna Bebber, Dottoranda di ricerca in Diritto del lavoro nell'Università degli Studi di Trento)


Il presente contributo analizza criticamente una recente decisione della Corte di Cassazione, che offre l’occasione per riflettere sul rapporto esistente tra contrattazione collettiva nazionale ed integrativa, in particolare in punto di trattamento economico. Tale analisi richiede un esame della normativa di riferimento e dei vari orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, che conduce inevitabilmente a considerare l’ulteriore ma connessa tematica del danno erariale causato dalla contrattazione decentrata illegittima.

The supplementary collective agreement in the public employment between limits and powers

The following contribution critically analyzes a recent judgment of the Highest Court of Appeal in Italy, in order to reflect on the existing relationship between national collective bargaining and supplementary agreements, especially in terms of economic treatment. This analysis requires the study of the present legislation and the examination of various doctrine and jurisprudence orientations. Moreover, the discussion inevitably leads to considering the further but related issue of the damage to State revenues caused by illegitimate supplementary bargaining.

MASSIMA: Nell’impiego pubblico contrattualizzato, la contrattazione integrativa a livello aziendale non può riconoscere ai dipendenti un trattamento economico ulteriore che non sia previsto dalla contrattazione collettiva nazionale, dovendo svolgersi nelle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti da quest’ultima, unica abilitata in materia; ne consegue che le clausole dei contratti collettivi integrativi che riconoscono un trattamento economico di migliore favore rispetto a quello contemplato in materia da un contratto collettivo nazionale sono nulle per violazione dell’art. 1419, comma 2, c.c. PROVVEDIMENTO: (Omissis) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO D.L.B.E., P.S., C.G. e Ch.Ag., dirigenti medici alle dipendenze dell’ASL Potenza hanno proposto distinti ricorsi davanti al Tribunale di Lagonegro chiedendo il riconoscimento del diritto a percepire la voce retributiva denominata “assegno ad personam”, inizialmente loro riconosciuta dalla citata ASL per effetto della norma transitoria contenuta nell’art. 14 del regolamento aziendale di graduazione delle funzioni dirigenziali. I ricorrenti hanno esposto che: – detto emolumento era finalizzato a mantenere inalterato il valore della retribuzione di posizione aziendale dai ricorrenti percepita prima del loro passaggio dalla disciolta ASL di Lagonegro a quella di Potenza; – la ASL Potenza aveva sospeso l’erogazione della somma in questione a decorrere dal mese di luglio 2012, prevedendo la ripetizione di quanto già erogato dal 1 gennaio 2011 a giugno 2012. Essi, premesso che rivendicavano il pagamento anche delle prime cinque mensilità del 2011, hanno pure proposto (con l’eccezione di Ch.Ag.) domanda di riconoscimento del diritto all’adeguamento della c.d. posizione minima unificata con decorrenza dal 2011, come previsto dall’art. 6 CCNL del personale della Dirigenza Medico-Veterinaria del SSN del 6 maggio 2010. Il Tribunale di Lagonegro, riuniti i ricorsi di D.L.B.E., P.S. e C.G., nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 69/2015, ha accolto le domande proposte. Il Tribunale di Lagonegro, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 100/2015, ha accolto, inoltre, il ricorso di Ch.Ag.. L’ASL Potenza ha proposto due appelli contro le citate sentenze che la Corte d’appello di Potenza, riunite le impugnazioni, nel contraddittorio delle parti, ha accolto. La corte territoriale ha fondato la sua decisione sulla ritenuta nullità della clausola perequativa prevista dall’art. 14 del regolamento aziendale per la graduazione degli incarichi ASP per contrasto con norma imperativa, derivando da essa un costo non compatibile con il vincolo di bilancio. D.L.B.E., P.S., C.G. e Ch.Ag. hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. L’ASL Potenza ha resistito con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1) Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la [continua..]
SOMMARIO:

1. Riepilogo dei fatti di causa - 2. La contrattazione collettiva nel pubblico impiego privatizzato - 3. Il contratto di comparto come fulcro del sistema - 4. Il contratto collettivo di secondo livello - 5. La nullità delle clausole difformi: un unicum nel diritto sindacale italiano - 6. Tendenze giurisprudenziali - 7. Il danno da contrattazione integrativa illegittima: note conclusive - NOTE


1. Riepilogo dei fatti di causa

L’ordinanza in commento consente di svolgere una riflessione sul sistema contrattuale del pubblico impiego. In essa viene sancito che la contrattazione integrativa non può prevedere un trattamento economico ulteriore, che non sia riconosciuto dalla contrattazione nazionale [1]. Di conseguenza, le clausole dei contratti decentrati che prevedano un trattamento di miglior favore rispetto a quello contenuto nel c.c.n.l. sono nulle per violazione dell’art. 1419, c. 2, c.c. Il tema centrale inerisce pertanto al rapporto tra contratto nazionale e contratto integrativo, che da sempre rappresenta uno dei «nodi gordiani» della privatizzazione [2]. Il ragionamento della Corte pare irreprensibile alla luce non solo delle finalità perseguite dalla privatizzazione [3], ma anche di tre ulteriori fattori: il quadro normativo, le interpretazioni del formante dottrinale e l’impianto giurisprudenziale. La querelle prende le mosse dai ricorsi presentati al Tribunale di Lagonegro da alcuni dirigenti dell’ASL di Potenza, i quali rivendicavano il diritto a percepire l’emolumento denominato “assegno ad personam”, inizialmente riconosciuto dal­l’am­ministrazione sanitaria in virtù di una norma transitoria del Regolamento aziendale, di graduazione delle funzioni dirigenziali, adottato in concerto con la disciplina collettiva integrativa. Il trattamento economico accessorio, non contemplato nel c.c.n.l., serviva a mantenere invariata la retribuzione di posizione aziendale goduta dai ricorrenti prima del loro passaggio dalla disciolta ASL di Lagonegro a quella di Potenza. Il gravame veniva instaurato in quanto, ad un certo punto, l’Azienda revocava l’erogazione dell’assegno, annullando in autotutela la norma aziendale per presunto contrasto con l’art. 45, c. 2, del d.lgs. n. 165/2001. Vittoriosi in primo grado, i dirigenti soccombono in appello e presentano ricorso in Cassazione, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere la previsione dell’assegno ad personam incompatibile con i vincoli di bilancio del­l’ente. Il motivo viene dichiarato inammissibile e la Corte di Cassazione conferma la nullità della clausola regolamentare. Con quest’ultima, infatti, era stata riconosciuta ai ricorrenti, in sede di rinnovo contrattuale, una maggiorazione retributiva in precedenza non contemplata, che esorbitava il [continua ..]


2. La contrattazione collettiva nel pubblico impiego privatizzato

La contrattazione collettiva nel pubblico impiego presenta notevoli discrepanze rispetto al settore privato, che è possibile mettere in luce anche per meglio comprendere il ragionamento sviluppato dalla Corte di Cassazione. La principale differenza è data dal fatto che il riconoscimento della libertà sindacale ex art. 39, c. 1 Cost. dev’essere controbilanciato dai principi di cui all’art. 97, c. 1 e c. 2 [6]. Invero, mentre in ambito privatistico le concessioni economiche dipendono in buona sostanza dall’andamento generale del mercato, le p.a. devono per contro attenersi a determinati vincoli di spesa. Inoltre, il contratto collettivo deve garantire ai dipendenti pubblici condizioni omogenee di trattamento ex art. 45, c. 2, d.lgs. n. 165/2001, le uniche idonee ad assicurare «il buon andamento e l’imparzialità dell’ammini­strazione». Da qui l’esigenza di una minuziosa regolamentazione di tutti gli aspetti dell’attività contrattuale [7], fattore per contro assente nel settore privato. Questa sovrabbondanza di formalizzazione legislativa [8] è giustificata dalla diversità ontologica intercorrente tra i due sistemi di relazioni industriali: la contrattazione pubblica, impegnando denaro collettivo ed incontrando severi vincoli di spesa, non potrà mai caratterizzarsi per quella semplicità ed informalità che contraddistingue il settore privato [9], così come non potrà sfuggire al controllo giurisdizionale della Corte dei conti, attivabile, ex post, in caso di violazione delle norme legislative o contrattuali poste a salvaguardia del corretto impiego delle risorse pubbliche e del contenimento della relativa spesa [10], e rigidamente imposto, ex ante, nella formazione stessa del contratto di comparto. Il ruolo della Corte dei conti è in particolare rinvenibile nell’ultima fase del procedimento, dovendo la stessa certificare l’atten­dibilità dei costi contrattuali quantificati trasmessi dall’ARAN, e la loro compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio (art. 47).


3. Il contratto di comparto come fulcro del sistema

La disciplina legislativa vigente attribuisce al contratto di comparto un ruolo di «regia» dell’intero sistema negoziale [11], sintetizzabile in una «evidente centralità sistemica» e in una più «specifica funzione ordinante» [12]. Concentrando l’attenzione sul primo aspetto, ogni trattamento economico – fondamentale ed accessorio – deve essere previsto dal contratto collettivo (art. 2, c. 3, terzo periodo e art. 45, c. 1) [13]. Inoltre, il datore di lavoro pubblico deve garantire ai propri dipendenti trattamenti economici non inferiori a quelli stabiliti dai rispettivi contratti collettivi, assicurando la parità di trattamento contrattuale, pur senza poter prevedere, nel contratto individuale, alcun trattamento differente o determinato in via unilaterale, neppure in melius, se non contemplato dai contratti collettivi (art. 45, c. 2). La competenza esclusiva della contrattazione collettiva in materia di trattamento economico risulta altresì confermata dall’art. 2, c. 3, quarto periodo, ai sensi del quale le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti collettivi cessano di avere efficacia a decorrere dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale. La riserva è stata avvalorata sia dalla Corte costituzionale [14] sia dalla riforma Brunetta del 2009, che attraverso il rimando agli artt. 40, commi 3 ter e 3 quater, nonché 47 bis, c. 1, ha consentito solamente eccezioni circoscritte. Una simile rigidità sistemica trova la sua ratio nelle peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, da un lato, assoggettato a vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse [15], e, dall’altro, sottoposto ad inequivocabili limiti nella determinazione del trattamento economico spettante al personale, posto che detta voce di spesa deve essere «evidente, certa e prevedibile nella evoluzione» (art. 8), con il risultato che il trattamento economico può essere solamente quello definito dai contratti collettivi (art. 45, c. 1 e 2), la cui stipulazione deve rispettare un’inflessibile procedura di determinazione degli oneri finanziari conseguenti (art. 47) [16].


4. Il contratto collettivo di secondo livello

Al secondo livello, corrispondente alla singola p.a. o alla singola unità amministrativa, si collocano i contratti decentrati, finalizzati a favorire recuperi di efficienza e di competitività della p.a., avvalorando l’operato delle singole amministrazioni [17]. La contrattazione integrativa si svolge sulle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti dai contratti nazionali, nonché tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono (art. 40, c. 3 bis). Pertanto, è il contratto di comparto, seppur nel rispetto di quanto previsto dalla legge, che conferisce rigidità o flessibilità all’articolazione delle competenze [18], in quanto la «cifra» di decentramento negoziale dipende dalle scelte adottate in sede nazionale [19]. Ciò si spiega nell’esigenza di assicurare un’adeguata uniformità delle funzioni pubbliche esercitate da amministrazioni tra loro autonome e nella necessità di gestire, in maniera centralizzata, la spesa pubblica complessiva [20], il cui controllo «rientra nella funzione di coordinamento finanziario spettante allo Stato per ragioni connesse ad obiettivi nazionali» [21]. Alla contrattazione nazionale spetta altresì il compito di individuare i criteri e i limiti finanziari entro i quali si deve svolgere la contrattazione integrativa (art. 40, c. 3 quinquies, primo periodo). Risulta pertanto evidente sotto plurimi aspetti come la contrattazione decentrata non possa porsi in contrasto con quella di comparto. La preminenza accordata a quest’ultima mira ad evitare alcuni rischi insisti nel decentramento contrattuale, come la creazione di differenziali salariali, tra amministrazioni o aree geografiche, non connessi ad una maggiore produttività nello stesso comparto, e la perdita di controllo delle dinamiche retributive, a detrimento dell’equilibrio della finanza pubblica [22]. In particolare poi, come efficacemente chiarito nella pronuncia in esame, la contrattazione di secondo livello soggiace a tre principali limiti, in quanto deve: rispettare l’art. 7, c. 5 del Testo unico, ai sensi del quale «le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese»; attenersi ai vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di [continua ..]


5. La nullità delle clausole difformi: un unicum nel diritto sindacale italiano

Per contro, un rafforzamento del sistema dei rapporti gerarchici fra c.c.n.l. e Ccdi si evince dagli artt. 40 bis e 40, c. 3 quinquies, da cui si ricava che, qualora dai contratti integrativi derivino costi incompatibili con i vincoli di bilancio delle amministrazioni, nonché in generale nei casi di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalla legge, le relative clausole sono nulle, non possono essere applicate e devono essere sostituite ai sensi degli artt. 1339 e 1419, c. 2, c.c. Da tale regola è possibile percepire un’ulteriore differenza rispetto al settore privato. In quest’ultimo, infatti, da una parte, la nullità è funzionale alla risoluzione del solo contrasto tra disposizioni inderogabili di legge e disposizioni del contratto collettivo, e, dall’altra, il meccanismo di eterointegrazione dell’assetto negoziale di cui all’art. 1339 c.c. scatta unicamente con riferimento alla sostituzione delle clausole difformi introdotte dalle parti sociali, e dunque mediante il loro adattamento alla disciplina minima prevista dalla legge. La normativa in esame, invece, applica la sanzione della nullità alle clausole del contratto di secondo livello connotate da difformità sia in senso migliorativo che peggiorativo [25], facendo discendere da tale vizio la non applicabilità delle stesse [26]. Tali conclusioni appaiono corroborate anche dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte sostenuto che «qualora il datore di lavoro attribuisca al lavoratore un determinato trattamento economico di derivazione contrattuale, l’atto deliberativo non è sufficiente a costituire una posizione giuridica soggettiva in capo al lavoratore medesimo, occorrendo anche la conformità alle previsioni della contrattazione collettiva, in assenza della quale l’atto risulta essere affetto da nullità, con la conseguenza che la Pubblica Amministrazione, anche nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 97 Cost., è tenuta al ripristino della legalità violata» [27]. Infine, il contratto integrativo è assoggettato al controllo sulla compatibilità delle spese sostenute dalle pubbliche amministrazioni per l’erogazione dei trattamenti economici accessori [28]. È quanto si desume dall’art. 40 bis, c. 1, il quale affida al [continua ..]


6. Tendenze giurisprudenziali

La pronuncia si colloca nel solco di un consolidato orientamento cassazionista, secondo il quale la contrattazione integrativa non è abilitata a riconoscere ai dipendenti pubblici un trattamento economico che non sia previsto dal c.c.n.l. [30]. Emblematico è l’esempio della sentenza della Corte di Cassazione del 26 giugno 2014 [31], concernente un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’Azienda Forestale della Regione Calabria, nella quale si è sostenuta la nullità, per violazione dell’art. 1419, c. 2, c.c., delle clausole dei contratti integrativi regionali, le quali, violando agli artt. 2, 40 e 40-bis del Testo unico, riconoscevano un trattamento economico di miglior favore rispetto a quello contemplato dal contratto collettivo nazionale. Tali clausole determinavano degli oneri integrativi non previsti negli strumenti di programmazione economica annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. La Corte giunge a tale conclusione evidenziando altresì l’intento perseguito dalla norma di cui all’art. 40, c. 3, ossia quello di impedire che categorie di dipendenti pubblici aventi particolare forza contrattuale possano avanzare delle rivendicazioni economiche che, qualora riconosciute, comportino oneri finanziari non programmati e non previsti, con conseguente disapplicazione del precetto di cui all’art. 81 Cost [32]. Ai medesimi arresti erano in realtà già pervenute le Sezioni Unite con la sentenza n. 9146 del 17 aprile 2009, concernente una fattispecie di inapplicabilità del contratto integrativo in relazione alla disciplina dell’istituto della sostituzione dei medici, in quanto regolato diversamente dal contratto nazionale dell’area della dirigenza medica e veterinaria. Le Sezioni Unite hanno concluso che «la contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, restando escluso che le pubbliche amministrazioni possano assumere obbligazioni in contrasto con i vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione, con la conseguenza che le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate» [33]. Per altro verso, ricollegandoci in maniera più specifica al caso oggetto della decisione commentata, la Suprema Corte ha espressamente affermato che nel passaggio da [continua ..]


7. Il danno da contrattazione integrativa illegittima: note conclusive

Nell’ipotesi di stipulazione ed esecuzione di contratti integrativi discordanti rispetto alle statuizioni della contrattazione nazionale viene in rilievo il tema della responsabilità erariale per i danni cagionati alle amministrazioni [35]. Sotto tale profilo, l’art. 40, c. 3 quinquies, quarto periodo, indica tre tipologie di violazioni in cui possono imbattersi le p.a., non potendo queste ultime sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi in contrasto con i vincoli e i limiti risultanti dai contratti di comparto o che disciplinano materie non espressamente delegate a tale livello negoziale ovvero che comportano oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. Tali proibizioni, tuttavia, si scontrano nella prassi con i problemi connessi, da un lato, alla non sempre agevole confrontabilità dei testi dei due livelli contrattuali, e, dall’altro, all’ampiezza che spesso caratterizza le clausole della contrattazione nazionale, che potrebbe rendere dubbia anche l’estensione della delega negoziale conferita agli accordi integrativi [36]. Proprio a causa di tali incertezze, un buon punto di partenza per esaminare il tema della responsabilità amministrativa da contratto integrativo illegittimo è rappresentato da alcuni arresti giurisprudenziali, i quali hanno talora fornito un’interpretazione “armonizzante” rispetto a diverse questioni in materia di danno erariale [37]. La prima di tali questioni attiene alla competenza del giudice contabile a statuire sulla legittimità del contratto integrativo. In seguito ad un primo orientamento che attribuiva unicamente al giudice ordinario il potere di pronunciarsi sulla nullità delle clausole contrattuali [38], la problematica è poi stata risolta in senso opposto dalla sentenza della Corte dei conti, sezione Lombardia, n. 372 del 14 giugno 2006, leading case in materia. In essa si afferma che il sindacato della Corte dei conti sulle previsioni contrattuali «non avviene principaliter, ma incidenter tantum, al solo fine di cogliere, in caso di acclarata macroscopica violazione del dettato normativo o di sovrastanti fonti contrattuali nazionali […], profili di illiceità comportamentale forieri di danno erariale» [39]. In altri termini, il giudice contabile non si sostituisce né si aggiunge agli organi [continua ..]


NOTE