Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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La forzata inattività lavorativa nel lavoro pubblico (di Antonella Gravinese, Dottoranda di ricerca in Diritti e tutele nei mercati globalizzati nell'Università degli Studi di Bari Aldo Moro)


La decisione in epigrafe si conforma ad un filone giurisprudenziale che distingue la forzata inattività dal demansionamento, identificando gli elementi che qualificano le due fattispecie. Il commento, prendendo spunto dal caso trattato, riflette sulla condotta del datore di lavoro che, attraverso la modifica delle mansioni del dipendente, provoca, di fatto, lo svuotamento dell’attività lavorativa. L’autrice si interroga sul fondamento giuridico del diritto alla prestazione lavorativa, sui limiti all’esercizio dello ius variandi e, da ultimo, sulla tutela del lavoratore per i danni prodotti dalla condotta illecita.

Forced inactivity work in public service

The above-mentioned decision follows a case-law strand that distinguishes the forced inactivity from the demotion, identifying the elements that qualify the two cases. The remark, inspired by the case studied, reflects on the conduct of the employer that, through the change of the employee’s duties, causes, in fact, the emptying of the work activity. The author questions the legal basis of the right to work, the limits to the exercise of jus variandi and, finally, the protection of the worker for damage caused by illegal conduct.

MASSIMA: In materia di pubblico impiego privatizzato, ove si sia concretizzato, con la destinazione del dipendente ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, la vicenda esula dalle problematiche attinenti alla verifica dell’equivalenza formale delle mansioni ex art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, configurandosi non un demansionamento, ma la diversa e più grave figura della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego. PROVVEDIMENTO: RILEVATO che la Corte di Appello di Bologna, per quanto ancora rileva, confermando la sentenza di primo grado, accertato il sostanziale svuotamento delle mansioni operato in danno del lavoratore, A.A., condannava la parte datoriale, Regione Emilia-Roma­gna, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, come liquidati in sentenza, provvedendo ad emendare la pronunzia di prime cure solo con riferimento all’ammontare del danno non patrimoniale, riliquidato senza duplicazioni delle voci. Osservava la Corte di Appello che l’accertato svuotamento delle mansioni, a differenza di quanto sostenuto dal datore appellante, era stato espressamente dedotto nell’atto introduttivo del giudizio, di modo che il Tribunale non aveva in alcun modo violato l’art. 112 c.p.c.; riteneva altresì corretta la valutazione delle risultanze istruttorie operate dal primo giudice, sicché, accertato l’operato svuotamento delle mansioni, confermava altresì la condanna al risarcimento del danno (modificando la pronunzia, come si è anticipato, solo in ordine al quantum del danno non patrimoniale). Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la Regione Emilia-Romagna, affidandolo a tre motivi. Resiste il lavoratore con controricorso. Entrambe le parti depositano memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c. CONSIDERATO che: 1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, in relazione al c.c.n.l. 31 marzo 1999, Allegato A, e la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; si deduce altresì, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa valutazione delle prove riferite all’equivalenza delle mansioni. 1.1. I diversi profili sottoposti all’attenzione della Corte con il primo motivo sono infondati e vanno rigettati. Quanto al primo aspetto, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sul presupposto che la Corte territoriale avrebbe travalicato i limiti della domanda (relativa ad una ipotesi di dedotto demansionamento), ravvisando, invece, uno svuotamento di mansioni. Sul punto, basti brevemente osservare che nella specie non vi è stata alcuna violazione del principio di corrispondenza [continua..]
SOMMARIO:

1. Introduzione. La vicenda - 2. Il diritto a rendere la prestazione lavorativa - 3. Il confine fra demansionamento e forzata inattività lavorativa - 4. Il danno da demansionamento - 5. Brevi riflessioni conclusive - NOTE


1. Introduzione. La vicenda

La vicenda in esame trae origine dal progressivo svuotamento delle mansioni subito dal dipendente pubblico ricorrente, inquadrato nella categoria C, con posizione lavorativa di assistente di segreteria, dal 19 novembre 2008. La condizione di sostanziale inoperatività, aggravatasi nel corso del 2010 e ancor più negli anni successivi, sfociava, di fatto, in una sottrazione pressoché totale delle attività da svolgere. Il ricorrente conveniva davanti al Tribunale di Bologna, in funzione di Giudice del lavoro, la Regione Emilia-Romagna, perché fosse accertato che era stato vittima di demansionamento e di esposizione al fumo passivo di una collega, con il sostanziale benestare della Responsabile del servizio al quale era assegnato. Conseguentemente, chiedeva che la convenuta fosse condannata a risarcire: il danno derivante dal pregiudizio subito per effetto del demansionamento e del­l’esposizione al fumo passivo; il danno patrimoniale, da commisurare all’in­dennità di disagio; il danno non patrimoniale e il danno biologico e morale. Con sentenza n. 254/2014, il Tribunale di Bologna, ritenuto che l’istruttoria espletata avesse fornito la prova del sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa del ricorrente – e dell’esposizione del lavoratore al fumo passivo, con la consapevolezza e l’inerzia del datore di lavoro – condannava la Regione Emilia-Romagna a corrispondere il risarcimento per danno biologico, danno morale, danno alla professionalità e danno da lesione all’immagine, derivanti dalla condotta illecita tenuta. Con riferimento all’indennità di disagio rivendicata, ritenuto che fosse collegata all’effettivo espletamento di particolari compiti con assunzione della relativa responsabilità e rilevato che, pacificamente, il dipendente non aveva svolto tali mansioni, respingeva la relativa domanda. Avverso detta decisione la Regione Emilia-Romagna proponeva appello, lamentando violazione e falsa applicazione del disposto di cui all’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, nonché dell’art. 112 c.p.c.; l’erroneità e contraddittorietà della motivazione; l’erronea interpretazione delle risultanze istruttorie quanto all’esposizione al fumo passivo; il carattere eccessivo della liquidazione del danno patrimoniale da demansionamento; la duplicazione delle voci di danno, avendo il [continua ..]


2. Il diritto a rendere la prestazione lavorativa

La disciplina delle mansioni nel lavoro pubblico è contenuta nell’art. 52 d.lgs. n. 165/2001 [3] e, dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 8740/2008, è pacifico che in materia di pubblico impiego non si applichi l’art. 2103 c.c. Nonostante le differenze regolative poste, entrambe le norme, con la medesima formula, prevedono l’obbligo del datore di lavoro di adibire il lavoratore allo svolgimento delle mansioni di assunzione [4]. L’identico inciso iniziale delle due norme consacra, in entrambi i settori, il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto e, a fortiori, il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione [5]. La sussistenza di un vero e proprio diritto al lavoro, inteso come diritto a rendere la prestazione, è affermata da un orientamento consolidato della giurisprudenza della Suprema Corte [6], che, seppur sviluppato con riferimento all’art. 2103 c.c., può essere esteso all’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, in virtù dell’identico incipit da cui deriva, da apprezzarsi nel quadro giuridico della contrattualizzazione e privatizzazione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Il lavoratore, come anche parte della dottrina ha sostenuto [7], non è solo titolare del dovere di rendere la prestazione lavorativa, ma anche del diritto all’esecuzione della stessa [8], per cui grava sul datore di lavoro il correlato obbligo di adibirlo a quelle mansioni [9]. Come recentemente confermato dalla richiamata Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692, la situazione di totale inattività nella quale viene posto il dipendente costituisce non solo un inadempimento contrattuale del datore di lavoro, ma anche una violazione del “fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’im­magine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni per le quali è stato assunto”. Conseguentemente, lo svuotamento delle mansioni comporta, da un lato, la perdita della professionalità, considerata quale insieme di conoscenze teorico-pratiche, anche con riferimento all’inevitabile obsolescenza delle [continua ..]


3. Il confine fra demansionamento e forzata inattività lavorativa

Si legge nell’ordinanza in commento “in materia di pubblico impiego privatizzato, ove si sia concretizzato, con la destinazione del dipendente ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, la vicenda esula dalle problematiche attinenti alla verifica dell’equivalenza formale delle mansioni ex art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, configurandosi non un demansionamento, ma la diversa e più grave figura della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego”. La decisione, inserendosi nel solco di un filone giurisprudenziale consolidato [15], distingue appunto lo svuotamento delle mansioni dal demansionamento in senso stretto. Si configura demansionamento allorquando si verifica un’ingiustificata sottrazione, da parte del datore di lavoro, di alcune delle mansioni originariamente assegnate al lavoratore, c.d. demansionamento quantitativo; rileva altresì una diminuzione delle stesse con riferimento a rilevanza e qualità professionale, ovvero, un’at­tribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte inizialmente, c.d. demansionamento qualitativo [16]. A norma dell’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, nella versione antecedente alle modifiche del 2009, il lavoratore doveva essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che avesse successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure concorsuali o selettive. Condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni fossero equivalenti, secondo la giurisprudenza consolidata, era la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita e dalle mansioni concretamente svolte (c.d. equivalenza formale) [17]. In quest’ottica, il rinvio del legislatore alla contrattazione collettiva manifestava il proposito di riservare solo agli agenti contrattuali il ruolo primario nel determinare e valutare l’equivalenza professionale, con la conseguenza che al giudice spettasse un ruolo meramente ricognitivo, senza il potere di sindacare le modalità di esercizio dello ius variandi [18]. Diversamente, un altro filone [continua ..]


4. Il danno da demansionamento

Una modifica delle mansioni non conforme alle regole esposte nel paragrafo precedente dà titolo al lavoratore per rivendicare il risarcimento del danno. Que­st’ultimo, c.d. danno da demansionamento, è stato oggetto di una costante elaborazione dottrinale e giurisprudenziale motivata dall’intento di fornire un mezzo di tutela aggiuntivo all’ordine di reintegrazione nelle mansioni antecedentemente svolte o, in ogni caso, in altre di pari valore professionale. Questa elaborazione ha permesso di tutelare diritti attinenti non soltanto alla sfera lavorativa e professionale del lavoratore, ma anche alla sua personalità morale [30]. Da un’illegittima dequalificazione, infatti, possono derivare vari tipi di danno, solitamente ricompresi all’interno della macro-categoria del c.d. danno da demansionamento, cornice unitaria al cui interno possono confluire diversi pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, tutti accomunati dal fatto di derivare da un’illegittima condotta datoriale che, andando a ledere il combinato disposto degli artt. 2103 e 2087 [31] c.c., fa sorgere una responsabilità contrattuale in capo al datore di lavoro per inadempimento di un’obbligazione di non fare (non adibire, appunto, il lavoratore a mansioni inferiori) [32]. La teorizzazione relativa al danno da demansionamento trova applicazione anche nel contesto del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di violazione dei precetti dell’art. 52 d.lgs. n. 165/2001. È pacifico che il lavoratore che intenda ottenere il risarcimento di questo danno debba provare l’effettiva adibizione a mansioni inferiori, l’illegittimità giuridica della stessa, il danno patito [33] e il nesso di causalità fra quest’ultimo e il demansionamento. Il danneggiato è, quindi, tenuto a fornire una prova ulteriore rispetto a quella dimostrativa dell’adibizione a mansioni inferiori. Tuttavia, la giurisprudenza [34] e una parte della dottrina [35] ritengono rientri nella normalità della condotta subita il fatto che da un illegittimo demansionamento scaturiscano conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore, tali da dover essere risarcite, di conseguenza, la prova può ridursi anche a presunzioni, fermo restando che il lavoratore debba in ogni caso allegare e provare fatti indizianti non coincidenti con l’illecito [continua ..]


5. Brevi riflessioni conclusive

Il filone giurisprudenziale nel quale si inseriscono l’ordinanza in commento e la recente pronuncia richiamata riconosce nella condotta del datore di lavoro che impedisce al lavoratore lo svolgimento delle proprie mansioni di assunzione una fattispecie diversa dal demansionamento, che si verifica invece ogni qualvolta vengano assegnate al lavoratore mansioni differenti e non equivalenti rispetto a quelle di assunzione. La difformità consiste nella condizione stessa in cui il lavoratore si trova a fronte delle due condotte: il demansionamento comporta la diminuzione qualitativa o quantitativa delle proprie mansioni di assunzione, invece, la forzata inattività lavorativa causa una condizione per la quale il lavoratore viene di fatto privato delle proprie mansioni di assunzione, trovandosi senza compiti da svolgere oppure investito di attribuzioni meramente formali. Di conseguenza, lo status di inerzia lavorativa non è soltanto idoneo a ledere la professionalità del lavoratore, come il demansionamento, ma anche la sua dignità, tutelata e protetta dal dettato costituzionale. In ragione della gravità della lesione subita dal lavoratore in condizione di forzata inattività lavorativa, un filone giurisprudenziale minoritario, condivisibile ad avviso della scrivente, considera non necessaria la prova del danno subito, perché immanente alla condizione vissuta. L’interpretazione è apprezzabile perché, riconoscendo nella dignità professionale del lavoratore il bene da tutelare, si riconduce al principio secondo cui il lavoro non è solo una fonte di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, affermazione dell’i­dentità nella propria sfera individuale e sociale. Per contrastare la condotta illegittima, quindi, occorre approntare una tutela pienamente conforme ai principi costituzionali, ancor di più nell’ambito di un modello organizzativo delle pubbliche amministrazioni sempre più improntato ad esigenze di flessibilità, in cui la modifica delle mansioni si atteggia ad abbandonare l’eccezionalità per divenire normalità.


NOTE