Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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Jus variandi e danno alla professionalità nel lavoro pubblico (di Antonio Riccio, Professore associato in Diritto del lavoro nell'Università di Cassino e del Lazio Meridionale)


L’A., dopo aver rammentato i principali orientamenti dottrinari sul ruolo che la professionalità assume nel rapporto di lavoro e dopo alcuni cenni sull’attuale configurazione della disciplina dello jus variandi nell’impiego pubblico privatizzato, in particolare, circa la traduzione della regola dell’equivalenza delle mansioni, si sofferma sul concetto di equivalenza formale, indagando il rapporto tra questa e il tema del danno alla professionalità. Infatti, l’A. propone una parziale scissione dei discorsi giuridici riguardanti i due concetti, ritenendo che la disciplina delle mansioni rappresenti solo una parte, benché consistente, della complessiva configurazione giuridica della professionalità. Così, dopo aver indagato la giurisprudenza sul danno alla professionalità, sostiene la necessità di guardare alla professionalità come diritto della personalità del lavoratore con conseguente possibilità per il lavoratore di dimostrare il depauperamento del bagaglio professionale per il tramite dell’art. 2087 e/o delle clausole di correttezza e buona fede, pur in assenza di una violazione della regola dell’equivalenza formale.

Jus variandi and damage to worker's professionalism in privatized public employment

The Author, after recalling the main orientations of doctrine on the role played by professionalism in the employment relationship and after some remarks on the current regulation of the so-called jus variandi (i.e. the power of the employer to change the tasks of the employee unilaterally) in privatized public employment, especially regarding the interpretation of the rule of job equivalence, focuses on the concept of formal equivalence, exploring the relationship between this concept and the issue of damage to professionalism. In fact, the Author proposes a partial separation of the legal discussions concerning the two concepts, considering that the regulation of jus variandi represents only a part, albeit a substantial one, of the overall legal configuration of professionalism. Thus, after examining case law on damage to professionalism, the Author argues the need to view professionalism as a right of the worker's personality, with resulting possibility for the worker to demonstrate the depletion of professional skills by means of Article 2087 and/or by means of the clauses of fairness and good faith, even in the absence of a violation of the rule concerning the formal equivalence of tasks.

SOMMARIO:

1. Premessa: professionalità e rapporto di lavoro - 2. Il danno alla professionalità e la tutela dei danni non patrimoniali: lo stato dell’arte su alcuni profili sostanziali - 3. La disciplina dello jus variandi nell’impiego pubblico privatizzato: in particolare, l’equivalenza delle mansioni - 4. Equivalenza formale e danno alla professionalità, ovvero del rapporto tra mansioni e professionalità - 5. La professionalità presa sul serio. La giurisprudenza sul danno e la professionalità come diritto della personalità del lavoratore - 6. La possibilità di dimostrare il depauperamento del bagaglio professionale e l’art. 2087 (e le clausole di correttezza e buona fede) - 7. Conclusioni - NOTE


1. Premessa: professionalità e rapporto di lavoro

Prima di affrontare la questione del danno alla professionalità del dipendente pubblico e, in particolare, del se e come il ragionamento sul danno possa arricchire di preziosi spunti di riflessione il dibattito si limiti all’esercizio, in generale, dello ius variandi, appare necessario prendere avvio da una serie di questioni preliminari, riguardanti la definizione stessa di professionalità e la sua collocazione sistematica nell’ordinamento giuslavoristico. A tal fine, non può non darsi conto, benché in maniera schematica, del dibattito che da tempo ormai divide la dottrina tra coloro i quali individuano nella professionalità il principale oggetto del contratto di lavoro subordinato – inteso quale “strumento di realizzazione dello scambio di professionalità tra il datore di lavoro che organizza l’impresa e il lavoratore che promette il suo facere valutabile a stregua di diligenza” [1] – e coloro i quali negano che la professionalità possa acquisire alcuna rilevanza nel sinallagma che lega il dipendente al datore di lavoro [2]. Sebbene non si abbia qui l’occasione, per evidenti ragioni di spazio, di tornare nel vivo del dibattito, è tuttavia opportuno sottolineare che, anche a seguito dei profondi mutamenti del mercato del lavoro, risulta, ad avviso di chi scrive, sempre più arduo (se non impossibile) negare in assoluto il rilievo della professionalità posseduta da ciascun lavoratore all’interno della relazione contrattuale che lega le parti. Ormai da tempo, lo studio dell’organizzazione delle risorse umane conferma che l’incontro tra le parti del contratto di lavoro avviene principalmente sul piano della professionalità (ricercata dall’impresa e posseduta dal prestatore) e, sempre più, quella professionalità risulta composta di elementi che vanno ben oltre le semplici conoscenze e capacità tecniche, con un ruolo di primo piano assunto dalle competenze trasversali (c.d. soft skills) – quali ad esempio autonomia, capacità di lavorare in team, problem solving, leadership e così via – nella valutazione della capacità professionali da mettere in campo nelle moderne organizzazioni del lavoro. La professionalità, dunque, risulta tutt’altro che indifferente rispetto alle vicende che si realizzano tanto nel momento della costituzione del [continua ..]


2. Il danno alla professionalità e la tutela dei danni non patrimoniali: lo stato dell’arte su alcuni profili sostanziali

Il danno alla professionalità, come è noto, rappresenta una figura alquanto eterogenea, utilizzata per garantire il risarcimento non soltanto dei danni patrimoniali causati dalla lesione alle capacità professionali o alle aspettative di carriera del lavoratore, ma anche di ulteriori e differenti pregiudizi, quali il danno alla personalità morale, alla vita di relazione, all’immagine, alla dignità, all’identità personale e alla personalità del lavoratore [20]. Proprio i danni non patrimoniali sono stati al centro di un ampio dibattito che ha coinvolto dottrina e giurisprudenza, anche e soprattutto in conseguenza dell’ine­vitabile intreccio con la disciplina civilistica, la quale è stata soggetta, nel corso degli anni, a notevoli mutamenti interpretativi. In un primo momento, infatti, la giurisprudenza era consolidata nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, escludendo di fatto l’ammissibilità dei danni non patrimoniali da inadempimento. Ancor più nello specifico, la giurisprudenza riconosceva la risarcibilità di tali danni solo in presenza di un reato e individuandone il contenuto nel c.d. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell’ani­mo transeunte. Tale orientamento trovava giustificazione nel fatto che, se da un lato l’art. 2059 c.c. dispone che “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”, dall’altro, all’epoca dell’emanazione del codice civile, l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 del codice penale del 1930 [21]. Nell’intento di superare i limiti imposti dal principio della irrisarcibilità dei danni non patrimoniali da inadempimento, la giurisprudenza lavoristica elaborò una soluzione particolarmente raffinata, in base alla quale si consentiva il cumulo della responsabilità contrattuale con quella aquiliana. Come è altrettanto noto, un radicale cambio di direzione, tuttavia, ebbe inizio nel 2003, quando la Cassazione, con le sentenze nn. 8827 e 8828, riconobbe l’inso­stenibilità di una lettura così restrittiva, affermando che nel vigente assetto dell’or­di­na­mento, nel quale [continua ..]


3. La disciplina dello jus variandi nell’impiego pubblico privatizzato: in particolare, l’equivalenza delle mansioni

Una delle prime questioni su cui pare utile soffermarsi è proprio quella relativa alla relazione tra ius variandi (principalmente sul piano orizzontale) e danno alla professionalità, in relazione alla quale risulta necessario fare alcune precisazioni. Difatti, la visualizzazione della disciplina delle mansioni quale punto focale del discorso potrebbe non comportare particolari problemi ed eccessive conseguenze negative (solo) laddove la regolamentazione legale (come è accaduto nel settore privato, grazie alla formulazione dell’art. 13 dello statuto dei lavoratori) o contrattual-collettiva del potere datoriale di variare le mansioni fosse tale da garantire una compiuta tutela, più o meno ampia, della professionalità. Particolarmente problematica, al contrario, appare la prospettiva della tutela della professionalità in una fase come quella attuale, in cui il legislatore, principalmente per favorire la flessibilità organizzativa necessaria ad affrontare i profondi e continui mutamenti attraversati dal mondo del lavoro (per il settore privato) e in ragione delle peculiarità della P.A. datrice (buon andamento ed efficienza) ha approntato una disciplina delle mansioni che (stando almeno alle ricostruzioni dottrinarie e soprattutto giurisprudenziali maggioritarie), prima per il settore pubblico e a partire dal 2015 anche per quello privato, richiama l’intero livello o area di inquadramento del contratto collettivo per individuare l’insieme delle mansioni alle quali il lavoratore può essere liberamente adibito. Tutto ciò in presenza, poi, di declaratorie contrattual-collettive che continuano a prevedere nella medesima area o livello una molteplicità di mansioni anche profondamente diverse quanto a contenuto professionale. Seppure limitatamente allo ius variandi orizzontale, si è dunque realizzato negli ultimi anni un graduale ravvicinamento della disciplina pubblica e privata, a vantaggio di una nozione di equivalenza “formale” delle mansioni e, parallelamente, a svantaggio della nozione di equivalenza “professionale” o sostanziale. Ravvicinamento, comunque, che non vuol dire equiparazione. Difatti, come correttamente osservato in dottrina, la graduale attenuazione delle tradizionali differenziazioni regolative tra pubblico e privato continua a trovare un limite nel c.d. “tertium comparationis”, che nel settore privato [continua ..]


4. Equivalenza formale e danno alla professionalità, ovvero del rapporto tra mansioni e professionalità

Quella adottata è una nozione formale di equivalenza, dunque, che demanda alla contrattazione collettiva la concretizzazione della tutela della professionalità. Senonché, dato lo scarso attivismo sul punto (per essere eufemistici) delle parti sociali, ancora oggi le classificazioni del personale contenute tanto nei contratti collettivi nazionali che in quelli di comparto ci restituiscono aree e livelli di inquadramento contenenti un insieme di attività anche profondamente diverse tra loro quanto a bagaglio professionale utile al loro svolgimento [41]. A ben vedere, si sono realizzate negli ultimi tempi revisioni che hanno riguardato il sistema degli inquadramenti e dei modelli di classificazione del personale nel settore pubblico, nel quale, ad oggi, sono previste quattro aree funzionali [42], ciascuna corrispondente “a quattro differenti livelli di conoscenze, abilità e competenze professionali” [43]. Tuttavia, come si legge nel contratto collettivo Funzioni Centrali, sebbene a ciascuna area corrispondano “livelli omogenei di competenze, conoscenze e capacità”, questa risulta essere comprensiva di “una vasta e diversificata gamma di attività lavorative”, in relazione alle quali “si ha equivalenza e fungibilità delle mansioni ed esigibilità delle stesse in relazione alle esigenze dell’organiz­zazione del lavoro”. Si aggiunga, peraltro, che lo stesso contratto collettivo fa riferimento a “famiglie professionali”, individuate all’in­terno di ciascuna area, definite quali “ambiti professionali omogenei caratterizzati da competenze similari o da una base professionale e di conoscenze comune” [44], senza tuttavia specificare quale rilevanza assumano queste ai fini del­l’e­ser­cizio dello ius variandi. Nonostante i timidi passi avanti, dunque, la soluzione utilizzata dalla contrattazione collettiva pare ancora molto generica, dimostrando come l’equivalenza formale sia ancora un concetto “indefinito” [45], nell’ambito del quale il datore di lavoro pubblico mantiene un’ampia discrezionalità di manovra. Di tal che, sulla scorta di questa sintetica schematizzazione del panorama attuale del tema, così come accolto nelle opinioni più diffuse, nonché dell’attuale quadro regolatorio offerto dalla [continua ..]


5. La professionalità presa sul serio. La giurisprudenza sul danno e la professionalità come diritto della personalità del lavoratore

Nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, a più riprese si sottolinea, nel riconoscerne una dimensione patrimoniale, che una offesa alla professionalità non solo viola gli specifici limiti in materia di ius variandi, ma si traduce nella lesione di un diritto fondamentale del lavoratore avente ad oggetto la libera esplicazione della sua personalità anche nel luogo del lavoro, garantita dagli artt. 1 e 2 della Cost. [53]. O, ancora, anche con una certa ridondanza, che il danno alla professionalità attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 della Cost., avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro [54]. Si sottolinea, poi, come quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità è di certo un bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro. Ancora, nel riconoscere la configurabilità di un danno anche non patrimoniale, si sottolinea che una lesione della professionalità è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, dichiarando risarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale che determini, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona. Lo stesso giudice di legittimità, in più occasioni, specifica il rilievo attribuito alla dignità personale del lavoratore che, in riferimento agli artt. 2, 4 e 32 Cost., costruisce come diritto inviolabile e descrive quale lesione di tale diritto proprio “i pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa” [55]. Dunque, dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore deriva, sono ancora parole della suprema corte, il diritto fondamentale di questi al pieno ed effettivo dispiegamento del suo professionalizzarsi. Tanto che, si afferma in più occasioni, “in caso di demansionamento [continua ..]


6. La possibilità di dimostrare il depauperamento del bagaglio professionale e l’art. 2087 (e le clausole di correttezza e buona fede)

Il potere datoriale, d’altra parte, può essere esercitato solo nel rispetto dei più generali limiti posti allo stesso dall’ordinamento, rilevando in tal modo il disposto dell’art. 2087 c.c., ai sensi del quale dev’essere salvaguardata “la personalità morale dei prestatori di lavoro”, e dell’art. 1175 c.c., che postula il dovere di correttezza nell’esecuzione del contratto. Per quanto riguarda la funzione delle clausole di correttezza e buona fede ai fini di controllo della legittimità di esercizio dei poteri datoriali mi limito a sottolineare che, come si è avuto modo di argomentare ampiamente affrontando il tema del potere di scelta [58], non risulta persuasiva la ricostruzione maggioritaria, anche giurisprudenziale, che, nei rapporti di lavoro, ne limita l’utilizzo ai soli casi nei quali siano previsti ulteriori e specifici limiti. Anzi, quanto più il limite all’esercizio del potere datoriale è specifico, tanto più finisce per affievolirsi la reale utilità delle clausole generali, le quali, al contrario, paiono destinate a espandere il proprio campo di applicazione proprio in assenza di limiti specificamente imposti. In altri termini, la dignità professionale, intesa come l’insieme delle caratteristiche ontologiche “delle competenze che definiscono l’attività esercitata, servendo a identificare il lavoratore come appartenente ad un dato gruppo nell’ambiente lavorativo” [59], in quanto categoria inglobata nel più ampio concetto di dignità, rientra, ad avviso di chi scrive, tra i diritti costituzionalmente protetti, veicolati nel contratto di lavoro, per di più, dal dovere di protezione di cui all’art. 2087 c.c. Seguendo questa strada, i nodi irrisolti e le criticità dei raggruppamenti anacronistici di mansioni della contrattazione collettiva nella descrizione dei livelli di inquadramento e delle aree potrebbero rilanciare il ruolo del giudice, specie con la tipica tecnica del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco, per valorizzare e rinforzare le garanzie di tutela della professionalità della persona che lavora. Nel perimetro largo della mobilità orizzontale, come è stato in maniera condivisibile già osservato in dottrina, “a presidio del lavoratore – oltre all’azione di controllo [continua ..]


7. Conclusioni

Non c’è dubbio che la disciplina delle mansioni e della mobilità orizzontale, articolata intorno alla regola dell’equivalenza legale, abbia determinato l’emergere di una interpretazione giudiziale per più aspetti problematica. È difficilmente negabile che gli orientamenti invalsi in giurisprudenza abbiano finito per irrigidire oltremodo l’organizzazione del fattore umano nelle imprese e tale assetto appare forse poco compatibile con un mercato del lavoro che richiede alle imprese, al contrario e sempre più, flessibilità organizzativa. Allo stesso modo, dal punto di vista più strettamente tecnico-giuridico, l’equi­valenza legale a precetto generico, affidata alla gestione esclusiva e ampiamente discrezionale del giudice, ha comportato l’emergere di posizioni che hanno finito per alimentare conflitto e incertezza piuttosto che garantire approdi sicuri. Così come non si può non condividere l’assunto per cui il tema degli inquadramenti e delle mansioni siano terreno elettivo dell’autonomia collettiva. Chi scrive è fermamente convinto che la certezza del diritto sia sempre un valore cui tendere e non si ritiene affatto, dunque, un nostalgico dell’incertezza. Allo stesso tempo, tuttavia, non persuadono soluzioni per cui, sull’altare della certezza e del buon andamento, venga sacrificato del tutto il bene della dignità professionale del lavoratore.


NOTE