Il contributo fornisce una sintesi aggiornata dei principali temi del reclutamento del personale nelle pubbliche amministrazioni, partendo dalla fondamentale considerazione costituzionale del concorso pubblico quale principale modalità di accesso. L’Autore descrive le varie tipologie di reclutamento, considerando le principali criticità dell’esperienza del concorso pubblico nel filtro della giurisprudenza amministrativa e del lavoro. Vengono poi sviluppate proposte di auspicabile riforma della materia, sia con riguardo all’utilizzo delle nuove tecnologie digitali, sia con riguardo all’analisi dei fabbisogni di personale delle pubbliche amministrazioni.
The essay provides an updated summary of the main issues relating to the recruitment in public administrations, starting from the fundamental constitutional consideration of the public competition as the main means of access. The Author describes the various types of recruitment, considering the main criticalities of the experience of the public competition in the filter of administrative and employment jurisprudence. Proposals for desirable reform of the matter are then developed, both with regard to the use of new digital technologies and with regard to the analysis of the personnel needs of public administrations.
Keywords: staff recruitment – public administration – recruitment in the public administration – public tender – precariat
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1. Premessa - 2. I fondamenti costituzionali e normativi del concorso pubblico - 3. Le progressioni di carriera e la riserva per gli interni nei concorsi - 4. Il problema dei “precari” e della loro stabilizzazione - 5. Le procedure di mobilità e l’utilizzazione delle graduatorie - 6. Caratteri, criticità e ipotesi di revisione dei sistemi concorsuali - 6.1. I concorsi fra accentramento e decentramento - 6.2. La tipologia dei concorsi - 6.3. La composizione delle commissioni di concorso - 6.4. I requisiti di ammissione ai concorsi - 6.5. Le preselezioni - 6.6. La valutazione dei titoli dei candidati - 6.7. Le prove di esame e l’utilizzazione delle tecnologie digitali - 7. Quali cambiamenti sono auspicabili - NOTE
Non si intende – né appare realisticamente possibile – affrontare qui l’insieme, assai complesso e articolato, delle questioni di ordine giuridico concernenti le modalità di accesso ai pubblici impieghi. Ci si prefigge il più limitato obiettivo di mettere insieme alcuni essenziali elementi conoscitivi sul processo evolutivo e sull’assetto attuale del quadro normativo in tema di reclutamento del personale e dei dirigenti delle pubbliche amministrazioni, di fornire alcuni spunti di riflessione sui relativi profili attuativi e applicativi, di svolgere alcune considerazioni e di formulare alcune ipotesi in ordine ai miglioramenti che potrebbero e dovrebbero essere realizzati – nel sistema regolativo e nelle prassi delle amministrazioni – alla luce dei recenti provvedimenti legislativi e atti di indirizzo, oltre che degli apporti della giurisprudenza (con particolare attenzione a quella costituzionale) e del dibattito dottrinale, e tenendo conto di elementi ricavabili dall’esperienza di altri ordinamenti.
Va, in via preliminare, ricordato che la disciplina dell’accesso costituisce tuttora uno dei principali elementi che distinguono la regolazione del lavoro dei dipendenti pubblici rispetto a quella del lavoro alle dipendenze dei privati. Con la “privatizzazione” del pubblico impiego (rectius, della parte quantitativamente prevalente dei rapporti di lavoro presso le pubbliche amministrazioni) intervenuta nell’ultimo decennio del secolo scorso si è invertito il principio, fino ad allora indiscusso, in base al quale l’inserimento del lavoratore nella struttura pubblica nasceva per effetto di un atto unilaterale dell’amministrazione, e si è pervenuti ad uno schema negoziale, in cui la costituzione del rapporto avviene in seguito alla stipula di un contratto individuale di lavoro: le differenze con il settore privato, però, permangono per quanto attiene alla fase antecedente rispetto al momento costitutivo, e segnatamente alla fase di individuazione dei soggetti con i quali l’amministrazione provvede ad instaurare la relazione lavorativa [1]. Tali differenze trovano il loro fondamento – e la loro giustificazione, in termini di principio – nella Carta costituzionale: non occorre ricordare che, in base all’art. 97, comma 4 (già comma 3), Cost., agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. Anche se una parte importante della dottrina giuslavoristica nella fase successiva alla riforma in senso privatistico/contrattuale del pubblico impiego aveva ipotizzato che, una volta affermato il principio concorsuale, la sua attuazione potesse essere rimessa alle fonti pattizie e non dovesse assumere necessariamente una veste procedimentale pubblicistica [2], si è presto affermata e consolidata la tesi secondo la quale anche nel nuovo regime la disciplina della materia è demandata alle fonti unilaterali (normative e amministrative), con conseguente affidamento della giurisdizione al giudice amministrativo [3], secondo quanto stabilito dall’art. 63 del d.lgs.30 marzo 2001, n. 165, che detta le norme generali in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni [4]. Come è stato chiaramente spiegato dalla Corte costituzionale, «la disciplina dei concorsi per l’accesso al pubblico impiego – per i suoi contenuti marcatamente pubblicistici e [continua ..]
Alla netta propensione per il metodo concorsuale si ricollega l’esigenza di privilegiare modalità di reclutamento che garantiscano la più ampia partecipazione possibile di esterni alle procedure di accesso agli impieghi nelle amministrazioni, in linea con quanto previsto dall’art. 97 della Carta costituzionale. Che i concorsi servano a selezionare, attraverso una procedura comparativa, i soggetti che dall’esterno aspirano ad entrare nei ruoli delle amministrazioni è un dato chiaro e incontrovertibile. Presenta, invece, una serie di profili problematici – e ha dato luogo ad un lungo e animato confronto di opinioni – l’utilizzazione dello strumento concorsuale quando i soggetti destinati a ricoprire determinate posizioni all’interno delle amministrazioni sono già (a vario titolo e in vario modo) alle dipendenze delle stesse o di organismi ad esse collegati. Le questioni che si sono poste sono diverse: a) è necessario ricorrere allo strumento concorsuale e, quindi, a una procedura selettiva a carattere comparativo, anche per realizzare forme di “promozione”di personale interno e, se sì, in qualicasi?; b) si possono bandire concorsi riservati solo agliinterni?; c) si possono riservare posti agli interni in concorsi aperti all’esterno e, se sì, in qualepercentuale?; d) è necessario – e opportuno – ricorrere allo strumento concorsuale per immettere in pianta stabile nelle amministrazioni soggetti che abbiano con essi rapporti a tempo determinato e per inserire chi provenga da strutture in vario modo dipendenti o strumentali rispetto alle amministrazioni stesse? Sullo sfondo c’è, ovviamente, il già menzionato problema della individuazione dei casi nei quali è ammissibile una deroga rispetto allo schema concorsuale. Il primo quesito, in particolare, riguarda il tema – ampiamente discusso dalla dottrina e assai controverso nella giurisprudenza – relativo alla possibilità di realizzare le c.d. progressioni interne senza utilizzare procedure concorsuali [17]. Nel primo periodo susseguente alla “privatizzazione” era prevalsa la tesi per la quale, trattandosi di vicende interne a rapporti di lavoro già costituiti, non sarebbe stato necessario attivare il meccanismo pubblicistico del concorso: questa posizione, peraltro, non aveva mancato di suscitare [continua ..]
È a questo punto indispensabile accennare ad una diversa ma, in qualche misura, connessa questione, che ha avuto e continua ad avere dei risvolti diretti sulla tematica del reclutamento del personale pubblico. Ci si riferisce all’introduzione nella pubblica amministrazione di rapporti di lavoro “atipici”, utilizzati in misura assai ampia – accanto al modello principale del rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato – per rispondere (almeno nelle intenzioni) all’esigenza di implementare l’efficienza e la flessibilità nella gestione delle risorse umane nel settore amministrativo. In particolare, si è registrata una utilizzazione assai diffusa – soprattutto nel recente passato, per i motivi di cui si dirà, anche se si tratta di un fenomeno presente da tempo nel nostro sistema amministrativo – dello strumento del contratto a tempo determinato, dalla quale è derivata la creazione del c.d. “precariato”, che in genere comporta (e, nei fatti, ha comportato) effetti negativi nettamente prevalenti rispetto ai risultati positivi [42]. Infatti, i rapporti di lavoro a tempo determinato si giustificano solo se legati a particolari situazioni e rispondenti a determinati obiettivi, quale ad esempio la verifica dell’utilità effettiva dell’acquisizione di nuovi profili professionali antecedente alla scelta di procedere ad una assunzione definitiva, oppure se dovuti a condizioni transitorie di carenza di personale [43]. Se, però, la pubblica amministrazione si serve abitudinariamente e/o in misura consistente di lavoratori precari per lo svolgimento delle normali attività di routine che dovrebbero essere evase dal personale dipendente a tempo indeterminato, risultando dunque detta provvista di lavoratori duplicativa o surrogatoria rispetto a quella degli impiegati stabili, tale comportamento non appare né equo né ragionevole [44]. Un rilevante profilo di criticità di tale situazione, che interessa in modo particolare in questa sede, risiede nella circostanza per la quale, dopo aver fatto ricorso al lavoro precario, l’amministrazione periodicamente procede a sanatorie, immettendo nei ruoli soggetti che, in realtà, non sono titolari di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo, ma di una mera aspettativa di assunzione. Si pone, anche qui, il problema di [continua ..]
Si può tornare al punto di partenza, cioè al dato costituzionale: il modo “fisiologico” di coprire le esigenze di personale che si manifestano nelle amministrazioni è costituito dal concorso, inteso come una procedura trasparente e competitiva, aperta al numero più ampio di candidati che siano in possesso dei requisiti richiesti per ricoprire le posizioni oggetto della procedura selettiva. Si è visto, però, come la traduzione in atto del principio di “concorsualità” si scontri con una serie di situazioni di fatto, di scelte normative e di prassi adottate dalle amministrazioni che in vario modo erodono, eludono o interferiscono con il modello concorsuale come immaginato dal Costituente. Prima di passare a verificare quali sono attualmente le principali problematiche attuative del sistema concorsuale, e provare ad individuare alcune possibili risposte ad esse (tenendo conto degli ultimi sviluppi della produzione normativa e traendo spunto anche dal confronto con la realtà di altri ordinamenti), appare necessario richiamare altri due elementi, che condizionano, sul piano della sequenza dei processi decisionali, le determinazioni relative all’attivazione di concorsi, in quanto prospettano modi alternativi rispetto all’utilizzazione di questi ultimi per coprire, in certa misura, i fabbisogni di personale delle pubbliche amministrazioni. Il primo riferimento è alle norme del d.lgs. n. 165/2001 che impongono alle amministrazioni, prima di espletare procedure concorsuali, di attivare gli istituti di mobilità individuale/volontaria e collettiva/obbligatoria di cui agli artt. 30, 34 e 34-bis [54]. La “promozione” della mobilità dei dipendenti fra le amministrazioni, sicuramente, risponde ad esigenze importanti, riguardanti l’ottimizzazione della distribuzione delle risorse umane in vista dell’innalzamento dell’efficienza delle amministrazioni, anche se sembra essere motivata anche da ragioni, più contingenti, di contenimento della spesa (rispetto ai concorsi). In concreto, però, l’obbligo di procedere ad una verifica preventiva della possibilità di ricorrere alle varie forme di mobilità previste dalle norme – che, peraltro, come già accennato, nella realtà sono andate incontro a notevoli difficoltà in sede applicativa, che andrebbero [continua ..]
Seppure contestato da più parti nella sua validità come sistema ottimale di accesso agli impieghi pubblici (a maggior ragione quando se ne fa, come spesso avviene, un uso distorto, inadeguato e a volte contraddittorio rispetto alle finalità che attraverso di esso si vorrebbero e dovrebbero perseguire, trasformandolo, come è stato icasticamente affermato, in una parodia di se stesso [62]), e seppure eluso, condizionato, inciso e disarticolato in dipendenza di tutti i fattori fin qui passati in rassegna, il modello del concorso pubblico rimane, comunque, l’oggetto principale – almeno nel nostro ordinamento – della tematica del reclutamento del personale delle amministrazioni. Appare, pertanto, opportuno andare ad identificare le caratteristiche che esso è venuto assumendo nel tempo, e soprattutto gli aspetti problematici che presenta sia in ordine al suo impianto normativo generale, sia in riferimento alla concreta dimensione attuativa, al fine di verificare quali elementi di novità è possibile cogliere nei provvedimenti introdotti negli ultimi tempi e quali ulteriori interventi è auspicabile vengano adottati per affrontarli e superarli: in tale prospettiva, come già accennato, qualche suggestione può sicuramente venire dalle soluzioni adottate in altri paesi. In via preliminare si segnala la rilevanza acquisita, nel periodo più recente, dalle problematiche che attengono alla efficienza ed efficacia delle procedure concorsuali e, pertanto, mettono in gioco la compatibiltà di dette procedure con il principio di buon andamento: una tendenza, questa, che è andata ad innestarsi su un sistema che tradizionalmente ha attribuito un peso prevalente, se non esclusivo, ai profili riconducibili al principio di imparzialità. Va, infatti, ricordato che per lunghi anni il tema del buon funzionamento dei meccanismi concorsuali e della qualità dei loro risultati è stato largamente trascurato – nonostante la diffusa consapevolezza dei limiti, dei difetti e delle distorsioni che li caratterizzavano (e ancora oggi li affliggono) nella concreta esperienza operativa – a fronte di una attenzione tutta concentrata sulla garanzia della loro correttezza formale [63]: quindi ci si è preoccupati, giustamente, di assicurare il rispetto dell’imparzialità, ma si è lasciato in ombra il [continua ..]
Un primo insieme di questioni riguarda la “dimensione quantitativa” dei concorsi, quella che potremmo definire la loro “taglia” e la loro “numerosità”. La scelta che emerge dall’ultima stagione di riforme è nel senso di intraprendere – o, meglio, proseguire, visto che negli anni precedenti erano già state introdotte novità in tale direzione – la strada dell’”accentramento” e della “unificazione” delle procedure concorsuali. La legge n. 124/2015, all’art. 17, comma 1, lett. c), prescrive, infatti, lo «svolgimento dei concorsi, per tutte le amministrazioni pubbliche, in forma centralizzata o aggregata, con effettuazione delle prove in ambiti territoriali sufficientemente ampi da garantire adeguate partecipazione ed economicità dello svolgimento della procedura concorsuale, e con applicazione di criteri di valutazione uniformi, per assicurare omogeneità qualitativa e professionale in tutto il territorio nazionale per funzioni equivalenti». In tal senso, il d.lgs. n. 75/2017, all’art. 6, comma 1, lett. d) (che modifica l’art. 35, comma 5 del d.lgs. n. 165/20001), innanzitutto richiama e conferma quanto previsto dall’art. 4, comma 3-quinquies del D.L. 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, ai sensi del quale il reclutamento dei dirigenti e delle figure professionali comuni [67] a tutte le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, alle agenzie e agli enti pubblici non economici si svolge mediante “concorsi pubblici unici” organizzati dal Dipartimento della funzione pubblica anche avvalendosi della Commissione per l’attuazione del Progetto di Riqualificazione delle Pubbliche Amministrazioni (RIPAM), previa ricognizione del fabbisogno presso le amministrazioni interessate, nel rispetto dei vincoli finanziari in materia di assunzioni a tempo indeterminato. Il Dipartimento della funzione pubblica, nella verifica del fabbisogno, individua le vacanze riguardanti le sedi delle amministrazioni ricadenti nella medesima regione: ove tali vacanze risultino riferite ad una singola regione, il concorso unico si svolge in ambito [continua ..]
Un secondo aspetto da considerare attiene alla individuazione della tipologia delle procedure concorsuali. Infatti, come si è in precedenza rilevato, i concorsi non hanno una connotazione unitaria e uniforme: possiamo rifarci, ancora una volta, alle “Linee guida” del ministro Madia, secondo le quali «non esiste una procedura o un modello di concorso standard valido per il reclutamento di qualunque professionalità», per cui «nell’ambito degli strumenti previsti dalla legge e dai regolamenti, occorre di volta in volta modulare sia le procedure sia i modelli a cui ricorrere al fine di pervenire alle soluzioni più adatte in relazione alla figura professionale da scegliere». Tenendo conto della normativa vigente, e in particolare del regolamento approvato con il d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, si possono individuare i seguenti tipi di concorso pubblico: a) concorso pubblico per esami; b) concorso pubblico per titoli; c) concorso pubblico per titoli ed esami; d) corso-concorso; e) selezione mediante lo svolgimento di prove dirette all’accertamento della professionalità richiesta. L’esperienza dimostra che all’interno di queste tipologie possono esserci delle varianti anche significative, definite da norme specifiche e/o dai bandi di concorso: ad esempio, la nozione di “esami” può contenere cose diverse (una o più prove scritte, test, colloqui, assessment, ecc.), a volte il concorso vero e proprio è preceduto da sistemi di abilitazione che identificano i soggetti ammessi a partecipare (come avviene da tempo per i docenti delle scuole e, da alcuni anni, anche per quelli delle università), e così via. In generale, comunque, la scelta del modello concorsuale deve tenere conto del livello e dell’ambito di competenza richiesto per la professionalità da reclutare, nonché della necessità di definire procedure efficaci e celeri che possano svolgersi anche con l’ausilio di sistemi automatizzati, diretti, tra l’altro, a realizzare o migliorare quelle forme di preselezione che sono ormai presenti in larga parte dei concorsi, e sulle quali ci si soffermerà tra breve. Vale la pena di aggiungere alcune riflessioni sul modello del corso-concorso, guardando soprattutto all’esperienza ormai ultraventennale – anche se segnata da una cadenza temporale irregolare, che [continua ..]
Per comprendere la rilevanza del tema delle commissioni di concorso bisogna partire da una considerazione: perché il metodo selettivo sia realmente imparziale, come richiesto in primo luogo dalla Costituzione, è necessario che tale imparzialità si rinvenga in primo luogo nella composizione degli organi chiamati a giudicare i candidati. Le commissioni, ai sensi dell’art. 35, comma 3, lett. e), decreto n. 165/2001, devono essere formate esclusivamente da esperti di comprovata competenza nelle materie oggetto di esame, individuati tra funzionari amministrativi, docenti ed estranei alle amministrazioni, che non ricoprano cariche politiche e non siano rappresentanti sindacali, e che non siano neppure designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali. Questa previsione costituisce il punto di approdo di un processo di revisione della precedente normativa – che trae origine dai principi definiti dalla giurisprudenza costituzionale [75], e vede un passaggio fondamentale nell’art. 3, comma 21 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 – diretto a superare le storture e le patologie derivanti da una struttura delle commissioni preposte alle selezioni concorsuali condizionata e inquinata dalla presenza di soggetti portatori di interessi parziali e settoriali, se non clientelari. La Corte costituzionale, del resto, aveva avuto modo di puntualizzare che il principio di imparzialità assume a questo proposito un duplice significato: sotto un profilo “negativo”, esso assicura che «l’esame del merito sia indipendente da ogni considerazione connessa a orientamenti politici o a particolari condizioni personali e sociali»; sotto un profilo “positivo”, invece, esso comporta «l’adozione di un metodo, di cautele e di regole attinenti alla formazione delle commissioni giudicatrici tali da assicurare il perseguimento del solo interesse connesso alla scelta delle persone più meritevoli e più idonee all’esercizio della funzione pubblica considerate» [76]. Le amministrazioni che si accingono a costituire le commissioni di concorso, in questo contesto, non devono limitarsi a rispettare i principi di ordine generale in materia di incompatibilità dei membri, quali fissati dal d.P.R. n. 487/1994, ma, al fine di garantire il trasparente esercizio delle funzioni pubbliche, devono anche assicurare [continua ..]
Venendo, finalmente, a trattare dei passaggi attraverso i quali si sviluppano le procedure concorsuali, si può partire dalla questione dei requisiti di ammissione dei candidati, che, ricordano le “Linee guida” del 2018, vanno definiti tenendo conto della finalità del concorso, che è quella di “selezionare i candidati migliori”. Naturalmente, tali requisiti vanno calibrati sulla tipologia dei profili professionali oggetto di ciascun concorso; ma va anche tenuto conto – come pure si legge nelle “Linee guida” – del prevedibile numero di potenziali candidati: è evidente che, laddove si richiedano, per profili elevati, particolari competenze e/o esperienze nel settore considerato, è presumibile che vi sia un numero sufficientemente ampio, ma ragionevolmente contenuto, di candidati. Competenze ed esperienze, appunto: questi sono i due elementi da considerare e da equilibrare tra loro nella determinazione dei requisiti di partecipazione. Quanto al profilo delle competenze, assume naturalmente un peso centrale il titolo di studio. In questo ambito, giova segnalare la previsione dell’art. 35, comma 3, lett. e-ter), del decreto n. 165/2001, introdotta dall’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto n. 75/2017 – sulla scorta di una disposizione dell’art. 17, comma 1, lett. f), della legge delega n. 124/2015, nella quale si parla della “valorizzazione del titolo di dottore di ricerca” – che consente di richiedere il possesso del titolo di dottore di ricerca quale requisito di accesso per specifici profili o livelli di inquadramento e comunque di valutarlo, ove pertinente, tra quelli rilevanti ai fini del concorso per titoli o per titoli ed esami: naturalmente, si tratterà di selezioni riguardanti posizioni che richiedono una elevata professionalità e specifiche competenze. Alcuni hanno opportunamente osservato che le disposizioni del decreto del 2017 attuano in termini riduttivi l’indicazione della legge delega, che potenzialmente avrebbe potuto comportare una valorizzazione del dottorato anche in termini cogenti, e non come mera possibilità lasciata alla discrezione delle amministrazioni (nelle quali, tra l’altro, è diffusa la diffidenza verso la formazione accademica di tipo “teorico”, come testimonia l’accoglienza poco calorosa non di rado riservata ai dirigenti reclutati [continua ..]
Quello delle preselezioni è un punctum dolens assai rilevante dei meccanismi concorsuali attualmente utilizzati dalle amministrazioni, che per la verità fino all’intervento scaturito dalla “legge Madia” del 2015 non ha suscitato una particolare attenzione da parte del legislatore, non ha prodotto una significativa giurisprudenza e non ha interessato più di tanto il dibattito dottrinale (almeno in ambito giuridico). Ciò non toglie che ci sia nei fatti una diffusa consapevolezza che esso costituisce una delle criticità più evidenti del funzionamento dei concorsi, per gli effetti negativi che produce a carico sia delle amministrazioni che dei concorrenti. Si fa sentire, in effetti, stringente l’esigenza di affrontare in termini nuovi il fenomeno dei cosiddetti concorsi di massa, che comportano costi rilevanti in termini finanziari e di impegno organizzativo e una lunghezza esagerata delle procedure, in primo luogo proprio a causa dello svolgimento di test preselettivi volti ad effettuare una prima “scrematura” dei candidati, laddove il loro numero sia largamente (spesso, anzi, esageratamente) maggiore dei posti messi a concorso: si può sostenere che si tratta di un male forse inevitabile, ma si dovrebbe e potrebbe tentare, quantomeno, di renderlo meno doloroso, limitando nei limiti del possibile la necessità di farvi ricorso ma anche cercando di riqualificarne le modalità di svolgimento. Le preselezioni, per come si sono normalmente svolte finora, da un lato forniscono scarse garanzie ai partecipanti, sottoposti peraltro a prove snervanti sia sul piano emotivo che su quello sostanziale; dall’altro, in ultima istanza, rendono in molti casi impossibile alle amministrazioni identificare l’area dei soggetti realmente più meritevoli di essere ammessi alle successive prove concorsuali [88]. Del problema sembrano, in qualche modo, farsi carico le “Linee guida” del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, che segnalano l’importanza di questa fase, nella quale viene realizzata la parte più grande della selezione, in quanto ne deriva l’esclusione della grande maggioranza dei candidati. La preselezione, si legge nella direttiva del 2018, deve coniugare le esigenze di imparzialità, di rapidità e di efficienza: l’obiettivo non deve essere [continua ..]
Una parte consistente dei concorsi – e, in particolare, di quelli di maggiore livello – contempla, prima e accanto alle prove di esame o, a volte, come unico criterio di selezione, la valutazione dei titoli presentati dai candidati. Ricorrendo, anche qui, alle “Linee guida”, possiamo dire che “occorre assicurare un adeguato bilanciamento tra i titoli di servizio (che premiano coloro che sono già dipendenti pubblici, presso la stessa o altre amministrazioni) e altri titoli”. Attribuire un peso molto consistente ai titoli di servizio, effettivamente, comporta il rischio di penalizzare o di escludere di fatto categorie di potenziali candidati meritevoli (in particolare, quelli più giovani): «per evitare questo rischio, si può stabilire un punteggio massimo a determinati titoli, come l’attività lavorativa svolta». Una valorizzazione eccessiva dei titoli di servizio, in effetti, può produrre effetti discriminatori, riproponendo anche per questa strada forme di privilegio per quanti già sono presenti nelle amministrazioni, e in particolare in quella che bandisce o è direttamente interessata al concorso: di qui, tra l’altro, si trae una ulteriore conferma della positività dei concorsi aggregati, sottratti alla gestione delle singole amministrazioni. In ogni caso, si auspica che i titoli di servizio valutabili non consistano semplicemente nell’aver svolto un’attività lavorativa, ma nell’averla svolta in modo meritevole, sempre che la qualità delle prestazioni fornite dall’interessato possa essere realisticamente accertata, tenendo conto del funzionamento disomogeneo dei sistemi di valutazione delle amministrazioni. Dei risultati del processo di valutazione della performance individuale si può, comunque, tenere conto per il giudizio sui candidati interni, nel caso in cui vi sia una riserva di posti o sia previsto un punteggio aggiuntivo a loro favore [89]. Resta da dire di quelli che si possono definire genericamente come i “titoli culturali”: a parte titoli quali pubblicazioni, partecipazione a ricerche, docenze, attività formative – che in certi concorsi (come, evidentemente, quelli che interessano i settori dell’università e della ricerca, ma non solo questi) possono e, anzi, devono naturalmente avere un peso determinante o, comunque, un valore [continua ..]
Nei concorsi – e sono la maggioranza – che contemplano anche, o esclusivamente, una selezione in base all’esito di “esami”, l’oggetto delle prove deve ragionevolmente corrispondere al profilo messo a concorso e alle competenze dei relativi uffici. Secondo la legge n. 124/2015 (art. 17, comma 1, lett. b)) si devono prevedere «prove concorsuali che privilegino l’accertamento della capacità dei candidati di utilizzare e applicare a problemi specifici e casi concreti nozioni teoriche». Il d.lgs. n. 75/2017 non contiene disposizioni attuative in proposito. Se ne occupano, come di numerosi altri aspetti, le “Linee guida” del 2018, dove si stabilisce che le prove possono avere carattere teorico o pratico, ma in entrambi i casi, comunque, dovrebbero essere costruite su tracce o quesiti di tipo problematico. Infatti, nella direttiva ministeriale si legge che le procedure concorsuali devono essere indirizzate a verificare, come appunto richiesto dalla legge delega, la capacità dei candidati di applicare le conoscenze possedute a specifiche situazioni o oggetti, prevedendo, ad esempio, prove volte alla soluzione di casi concreti o alla predisposizione di documenti quali atti amministrativi, circolari e similari (questi esempi, per la verità, rivelano la perdurante tendenza, anche in documenti volti all’innovazione amministrativa, a considerare solo o prevalentemente la dimensione giuridica). Si afferma, opportunamente, che prove concorsuali eccessivamente scolastiche o nozionistiche non consentono di valutare al meglio le attitudini del candidato: questo vale anche per le procedure volte a selezionare funzionari chiamati a svolgere compiti che richiedono in misura rilevante il possesso, oltre che di conoscenze, anche di capacità applicative. Quindi, le prove teoriche non dovrebbero essere dirette solo ad accertare la preparazione nel settore di competenza, ma anche a verificare la capacità di fare collegamenti tra le conoscenze nelle varie materie, di contestualizzarle, di utilizzare le conoscenze per risolvere problemi. Di conseguenza, la prova teorica non deve necessariamente essere un tema (su un argomento generale o sull’applicazione di una nozione a un settore specifico), ma può consistere, ad esempio, in una relazione o un rapporto elaborato a partire da uno o più documenti forniti al candidato. E, in particolare, la [continua ..]
La recente produzione normativa (con i correlati atti interpretativi e attuativi) presenta sicuramente aspetti di notevole interesse, che possono risultare molto utili per introdurre miglioramenti nelle forme e nelle tecniche di svolgimento dei concorsi; non si sfugge, però, all’impressione che ci si trovi di fronte ad aggiustamenti all’interno di uno schema che rimane, però, quello tradizionale: bando con indicazione dei requisiti di partecipazione, eventuale (ma troppo spesso inevitabile) preselezione, valutazione dei titoli, prove scritte, colloquio. Su ciascuno di questi passaggi, certo, si apportano – o, quantomeno, si prefigurano – delle significative innovazioni: pensiamo, soprattutto, allo sforzo di adeguare ai tempi i contenuti delle prove e alla volontà di utilizzare in misura significativa le nuove tecnologie. Ma basta rivolgere lo sguardo a cosa avviene in tanti ordinamenti stranieri per comprendere che forse sarebbe stato e sarebbe possibile andare oltre. Questa considerazione si può estendere al sistema delle regole che presiedono al reclutamento del personale nelle pubbliche amministrazioni complessivamente considerato. Sicuramente, gli elementi di novità intervenuti degli ultimi anni non vanno sottovalutati, a partire dal quadro di riferimento costituito dal superamento delle rigide dotazioni organiche con i più flessibili piani triennali dei fabbisogni, dal quale dovrebbe derivare una realistica programmazione delle assunzioni e, quindi, una ragionevole distribuzione nel tempo delle procedure di reclutamento: occorre, peraltro, prestare attenzione all’utilizzazione concreta che verrà fatta di tali piani, perché può esserci il fondato timore che l’affidamento alle stesse amministrazioni del compito di individuare i fabbisogni si traduca nella sostanziale conservazione degli organici esistenti, sia in termini quantitativi che qualitativi, a causa del prevalere di logiche conservatrici o “difensive” dei vertici burocratici. E, senza dubbio, è stato importante – come si è detto, nella prospettiva sia dell’imparzialità che del buon andamento – l’affermarsi progressivo della tendenza all’unificazione e alla aggregazione dei percorsi selettivi, senza peraltro trascurare l’esigenza di affiancarli con distinte procedure destinate al reclutamento di figure [continua ..]