L’autore commenta la sentenza della Corte cost. n. 61/2020 che ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 55-quater, c. 3-quater, secondo, terzo e ultimo periodo, d.lgs. n. 165/2001, per violazione dell’art. 76 Cost., soffermandosi sulla evoluzione normativa e giurisprudenziale del danno all’immagine della PA derivante dalla falsa attestazione della presenza in servizio del dipendente.
The author comments on the judgment no. 61/2020 of the Constitutional Court, which assessed the constitutional unlawfulness of art. 55-quater, para 3-quater, second, third and last sentence, of the Legislative Decree no. 165/2001, for breach of art. 76 of the Constitution; the A. focuses on the regulatory and jurisprudential evolution of the damage to image of the Public Administration image deriving from the false attestation of the presence of the employee at work.
1. Premessa - 2. Il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione: tra “spinte” della giurisprudenza e interventi del legislatore - 3. Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte dei conti - 4. La pronuncia della Corte costituzionale n. 61/2020 - 5. Brevi considerazioni conclusive - NOTE
La Corte costituzionale, con la sentenza in commento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo, terzo e quarto periodo del c. 3-quater dell’art. 55-quater del d.lgs. n. 165/2001, in tema di azione di responsabilità amministrativa per danno all’immagine della Pubblica Amministrazione (PA) a carico dei dipendenti che attestano falsamente la propria presenza in servizio. La pronuncia del Giudice delle Leggi consente di effettuare una riflessione sul fenomeno, purtroppo assai attuale, dell’assenteismo fraudolento dei pubblici dipendenti, con particolare riferimento agli strumenti adottati dal legislatore per arginarne la diffusione. Fra questi, accanto al licenziamento disciplinare, si annovera l’attribuzione di una responsabilità amministrativa in capo all’impiegato infedele, sia per il danno patrimoniale cagionato alla PA di appartenenza a causa dell’indebita percezione della retribuzione in assenza della corrispettiva prestazione del servizio, sia per il danno non patrimoniale arrecato all’immagine e al prestigio della medesima PA. La crescente insofferenza dell’opinione pubblica verso simili condotte (in qualsiasi modo esse si manifestino: dalla timbratura del cartellino al posto di colleghi all’allontanamento dal servizio senza autorizzazione, solo per citare qualche esempio) ha spinto il legislatore, sin dal 2009, a intervenire pesantemente sul sistema di repressione degli illeciti disciplinari. Si è scelto di costruire un nuovo e più severo modello di repressione delle condotte disciplinarmente rilevanti, ridisegnando l’ambito di operatività del potere disciplinare del datore di lavoro pubblico, attraverso sia una «ipertrofica procedimentalizzazione» [1] del suo esercizio, sia un significativo (e, forse, inopportuno) ridimensionamento degli spazi solitamente riservati in questa materia all’autonomia collettiva [2], arrivando finanche ad individuare e tipizzare alcune infrazioni disciplinari. Non è questa la sede per soffermarsi sui diversi profili relativi all’esercizio del potere disciplinare [3], ma appare necessario, al fine di cogliere la portata della pronuncia che si commenta, dar conto di alcune novità introdotte in materia dal legislatore proprio con riferimento al fenomeno dell’assenteismo fraudolento dei pubblici [continua ..]
Invero, il danno all’immagine della PA, quale particolare categoria di danno erariale, è stato elaborato in primis dal giudice contabile facendo leva sull’art. 97 della Costituzione [13]. Trattasi, difatti, di un danno pubblico in grado di «ledere il buon andamento della PA che perde, per la condotta illecita dei suoi dipendenti, credibilità e affidabilità all’esterno e ingenera la convinzione che i comportamenti patologici posti in essere dai propri appartenenti siano un connotato usuale dell’Ente» [14]. La condotta illecita posta in essere dal pubblico dipendente si traduce, così, «in un’alterazione dell’identità della Pubblica Amministrazione e, più ancora, nell’apparire di una sua immagine negativa, in quanto struttura organizzata confusamente, gestita in maniera inefficiente, non responsabile e non responsabilizzata» [15]. Una siffatta qualificazione del danno d’immagine induce a ritenere il clamor fori, cioè la risonanza mediatica, il clamore che genera la singola vicenda, momento essenziale e strutturale della fattispecie, poiché è solo da esso che può derivare «uno scadimento dell’opinione dei consociati in merito alla correttezza dell’operato della Pubblica Amministrazione» [16]. All’attività creativa della giurisprudenza, avviata già alla fine degli anni novanta, però, non è seguita, nell’immediato, una risposta del legislatore. Il primo tentativo di ‘positivizzazione’ del danno all’immagine della PA è rintracciabile, infatti, molti anni dopo nell’art. 17, c. 3-ter, d.l. n. 78/2009, convertito, con modificazioni, nella l. n. 102/2009, a sua volta corretto, in pari data, dal d.l. n. 103/2009, convertito, con modificazioni, nella l. n. 141/2009. Secondo tale disposizione, nella sua originaria formulazione, le procure delle Corti dei conti potevano esercitare l’azione di responsabilità nei confronti del dipendente pubblico, per il risarcimento del danno all’immagine, nei soli casi in cui vi fosse stata una sentenza penale di condanna passata in giudicato per determinati reati contro la PA. L’operatività limitata alla sussistenza di una pregiudizialità penale, con riferimento a reati tassativamente indicati dal legislatore, è [continua ..]
In questo quadro regolativo si inserisce la vicenda sottesa al decisum della Corte costituzionale qui in commento. La controversia ha avuto ad oggetto la condotta di una dipendente comunale che per quattro giorni ha attestato falsamente la propria presenza in servizio fino alle ore 18:00 anziché fino alle ore 17:00 (orario di effettiva interruzione del servizio). A seguito della denuncia al pubblico ministero e della relativa segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti si è avviato il giudizio di responsabilità amministrativa nei confronti della dipendente. Tale procedimento si è concluso, alla luce dell’alterazione del nesso sinallagmatico fra le prestazioni corrispettive, con la condanna della dipendente al pagamento di euro 64,81 a titolo di danno patrimoniale per aver indebitamente percepito la retribuzione in assenza di prestazione lavorativa e, limitatamente all’an debeatur, al risarcimento del pregiudizio all’immagine. Se la quantificazione del danno patrimoniale non ha destato alcun problema essendo stato sufficiente tener conto del compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali è stata accertata la mancata prestazione (4 ore lavorative nel caso di specie), per la quantificazione del danno all’immagine arrecato alla PA di appartenenza, invece, i giudici contabili – pur condannando la dipendente al relativo risarcimento – si sono riservati di quantificarne l’importo all’esito del giudizio di legittimità costituzionale da loro sollevato proprio con riferimento all’art. 55-quater, c. 3-quater, ultimo periodo, d.lgs. n. 165/2001. La Corte dei conti, infatti, nel rilevare la sussistenza nella fattispecie di tutti gli elementi oggettivi, soggettivi e sociali della posta risarcitoria (avendo avuto la vicenda risonanza nella stampa locale), ha ravvisato, nell’azione di responsabilità contabile delineata dalle norme oggetto di censura, «una evidente torsione sanzionatoria» che, tuttavia, non è sotto questo specifico profilo funzionale che si presenta «costituzionalmente irragionevole in considerazione delle condotte che tende a contrastare» [28], quanto, semmai, con riferimento alla quantificazione del danno. È proprio per quest’ultima ragione che la Corte ha deciso di sollevare la questione di legittimità costituzionale della [continua ..]
Il Giudice delle Leggi ha ritenuto inequivocabile il contrasto delle norme censurate con l’art. 76 della Costituzione [31]. Difatti, valorizzando il dato formale costituito dal perimetro della legge di delegazione, la Corte evidenzia come l’art. 17, c. 1, lett. s), della legge delega n. 124/2015 «prevede unicamente (corsivo mio) l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti, finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare» [32]. Ma vi è di più. Tale particolare disposizione di delega – prosegue la Corte – non era presente, come risulta dagli atti preparatori, nel testo originale del disegno di legge, ma è stata introdotta con un emendamento nel corso dell’esame in Senato. E se si recupera la discussione parlamentare sul punto, emerge con tutta evidenza che la questione della responsabilità amministrativa non risulta essere mai stata oggetto di trattazione. Per tali ragioni, essendo la delega attinente unicamente al procedimento disciplinare, non può ritenersi in essa contenuta l’introduzione di nuove fattispecie sostanziali in materia di responsabilità amministrativa [33]. Né rileva la circostanza per la quale la legge delega fosse sostanzialmente una “delega per il riordino”, finalizzata cioè a dettare norme di semplificazione, ove si consideri che l’art. 16, c. 2, l. n. 124/2015 impone al Governo, nell’esercizio della delega, di adottare «le modifiche strettamente necessarie» o per il coordinamento delle disposizioni o per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa nel suo complesso, in tal modo lasciando al legislatore delegato ridottissimi margini innovativi. A tal proposito, la Corte costituzionale ha più volte affermato che, in quanto delega per il riordino, essa concede al legislatore delegato un limitato margine di discrezionalità per l’introduzione di “soluzioni innovative”, le quali devono comunque attenersi strettamente ai principi e ai criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante [34]. In definitiva, il Giudice delle leggi, pur avendo la Corte dei conti sollevato la questione di costituzionalità con riferimento al solo ultimo periodo [continua ..]
La decisione della Corte costituzionale, largamente condivisibile, consente di effettuare qualche breve riflessione sulle scelte di politica legislativa perseguite nell’ultimo decennio – specie sul piano della loro efficacia – preordinate a contrastare il deplorevole fenomeno dell’assenteismo fraudolento. Tutti gli interventi normativi di cui si è dato conto, andando a modificare significativamente i caratteri identificativi del rapporto di lavoro alle dipendenze di una PA, hanno fondato la propria ragion d’essere in una generale sfiducia sulla capacità dell’intero mondo del lavoro pubblico a reagire alle reali situazioni di malcostume [36]. Una lettura forse un po’ troppo semplicistica delle problematiche del lavoro pubblico che presuppone, per l’appunto, una diagnosi di scarsa funzionalità generale delle amministrazioni pubbliche, con un «evidente cedimento alle mode politiche del momento in cui sembrano prevalere intenti puntivi verso i dipendenti pubblici e marcate tendenze alla disintermediazione» [37]. Non è un caso che, entro queste coordinate, si è assistito ad una forte compressione dello spazio attribuito alla contrattazione collettiva, specie in materia disciplinare, attraverso una vera e propria “legificazione” di determinate infrazioni e una inversione del rapporto tre legge e contrattazione collettiva. E non solo. Molte delle previsioni normative, ivi compresa la norma censurata dalla Corte costituzionale con la sentenza in commento, hanno costituito l’occasione non tanto per evidenziare la necessità di perfezionamenti sul piano tecnico, quanto per enfatizzare (anche solo mediaticamente) la lotta ai “furbetti” o ai “fannulloni” [38]. Si tratta di «previsioni indubbiamente venate di demagogia» [39] che, per l’appunto, rischiano di essere anche poco efficaci, ove si osservi che l’azione organizzativa di contrasto all’assenteismo si risolve, di fatto, tutta nell’azione disciplinare. Il ricorso allo strumento disciplinare in termini così esasperati – concepito quale strumento per migliorare l’efficienza e contrastare la scarsa produttività e l’assenteismo – è, forse, anche una delle ragioni della scarsa efficacia di simili misure rispetto al persistere del problema. È come [continua ..]