Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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Licenziamento e rideterminazione della sanzione disciplinare nel lavoro pubblico privatizzato (di Lorenzo Maria Dentici, Ricercatore e Professore aggregato di Diritto del lavoro nell’Università di Palermo.)


Il contributo, dopo un’analisi della disciplina sanzionatoria del licenziamento invalido nel pubblico impiego, prende in esame il nuovo art. 63, c. 2 bis, del D.lgs. n. 165/2001. La norma, che attribuisce al giudice il potere di rideterminare la sanzione in caso di difetto di proporzionalità, è oggi una peculiarità della disciplina del lavoro pubblico privatizzato. L’Autore ritiene che questa si ponga in controtendenza con le recenti riforme del lavoro in Italia, in quanto recupera importanti spazi alla discrezionalità giudiziale.

The contribution, after the analysis of the sanction of invalid dismissal in the public sector, examines the new art. 63, paragraph 2 bis, of Legislative Decree n. 165/2001. The rule, which gives the judge the power to re-determine the sanction in case of lack of proportionality, is today a peculiarity of the discipline of the public sector. The Author believes that this goes against the trend of recent labor reforms in Italy, recovering important spaces for judicial discretion.

RIBUNALE DI TERMINI IMERESE – ORDINANZA 11 GENNAIO 2019 La valutazione della proporzionalità è coessenziale all’applicazione dell’art. 55 – quater del D.Lgs. 165/2001. Il giudice, ove proceda per tale ragione all’annullamento del licenziamento, può commutarlo nella sanzione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione in virtù del disposto dell’art. 63, comma 2 bis, del D.Lgs. n. 165/2001. Con ricorso depositato in data 29.10.2018, R.A. impugnava il licenziamento intimatogli dal comune di Termini Imerese, con nota dell’08.03.2018, perché privo del requisito della specificità della contestazione, per assenza di giusta causa e, comunque, per difetto di proporzionalità e, per l’effetto, chiedeva la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna del comune datore di lavoro al pagamento di tutte le somme dovute a titolo di risarcimento del danno, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegrazione; chiedeva, inoltre, in via subordinata, l’applicazione di una sanzione conservativa in luogo di quella irrogata, tenuto conto della gravità della condotta contestata e dello specifico interesse pubblico violato. Il comune di Termini Imerese si costituiva in giudizio resistendo alla domanda. * * * Sulla mancanza di specificità della contestazione Il R. A. lamenta, in primo luogo, l’illegittimità del licenziamento intimato sotto il profilo dell’assenza di specificità della contestazione, atteso che la stessa, facendo unicamente riferimento al verbale d’udienza dell’08.02.2018 per la convalida dell’arresto e per il giudizio direttissimo, non avrebbe consentito all’incolpato di individuare con esattezza i fatti contestati. La doglianza non merita accoglimento. Premesso che, nel licenziamento per motivi disciplinari, la regola della specificità della contestazione dell’addebito non richiede necessariamente – ove questo sia riferito a molteplici fatti – l’indicazione anche del giorno e dell’ora in cui gli stessi fatti sono stati commessi – essendo invece sufficiente che il tenore della contestazione sia tale da consentire al lavoratore di individuare nella loro materialità i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ., di comprendere l’accusa rivoltagli e di esercitare il diritto di difesa (cfr. Cass. n. 1681/2013; n. 11933/2003), nella specie, gli atti richiamati nella contestazione individuano con sufficiente specificità le circostanze di tempo e di luogo (cfr. doc. n. 26 e 27 fasc. ric.) dei fatti materiali posti a base del licenziamento, tanto che le giustificazioni rese dal lavoratore sono state puntuali e finalizzate a [continua..]
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Il licenziamento nel lavoro pubblico e le incertezze della giurisprudenza circa l’applicabilità dell’art. 18 della l. n. 300/1970 dopo la riforma Fornero - 3. La riforma Madia e il nuovo art. 63 del d.lgs. n. 165/2001: un regime sanzionatorio unico per il licenziamento illegittimo nel pubblico impiego e la problematica sopravvivenza dell’art. 18 - 4. L’inedito potere giudiziale di rideterminazione della sanzione disciplinare e il giudizio di proporzionalità - NOTE


1. Il caso

Con l’ordinanza in commento il Tribunale di Termini Imerese, in funzione di giudice del lavoro, si è pronunciato – all’esito della fase sommaria del rito speciale in materia di licenziamenti di cui alla legge n. 92/2012 – circa l’illegittimità di un licenziamento irrogato a un dipendente, riconducibile alla previsione di cui all’art. 55-quater del d.lgs. n. 165/2001, ossia quella della «falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente». Il provvedimento è meritevole di interesse in quanto il giudice del lavoro non si limita ad annullare il licenziamento, ma fa applicazione dell’art. 63, c. 2-bis, del d.lgs. n. 165/2001, come novellato dal d.lgs. n. 75/2017 (c.d. riforma Madia). Il giudice provvede ex officio, una volta accertato il difetto di proporzionalità tra infrazione e provvedimento disciplinare, per difetto della gravità del comportamento in concreto, a rideterminare la sanzione applicando la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un periodo pari a tre mesi.


2. Il licenziamento nel lavoro pubblico e le incertezze della giurisprudenza circa l’applicabilità dell’art. 18 della l. n. 300/1970 dopo la riforma Fornero

La decisione presenta profili di interesse, collegati in particolare ai confini del potere di rideterminazione della sanzione disciplinare e alla una ritrovata centralità della discrezionalità del giudice, in controtendenza con le recenti riforme del lavoro privato. Al di là dell’intervento della Corte Costituzionale nella sentenza n. 194/2018, che ha censurato la compressione della discrezionalità del giudice nella determinazione della sanzione risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo nella disciplina delle tutele crescenti [1], gli interventi legislativi hanno comportato una significativa riduzione degli spazi del potere giudiziario. Emblematici sono in proposito l’art. 30 della l. n. 183/2010 sull’insindacabilità delle scelte imprenditoriali e l’ancoraggio del giudizio di proporzionalità, ai fini della concessione della tutela reintegratoria attenuata (ossia con il limite di dodici mensilità) ex art. 18, c. 4, della l. n. 300/1970, come novellato dalla l. n. 92/2012, alle previsioni della contrattazione collettiva. In questo quadro è inedito il potere conferito al giudice dall’art. 21 del d.lgs. n. 75/2017, che ha aggiunto il c. 2-bis all’art. 63 d.lgs. n. 165/2001. Il giudice oggi può correggere l’errato dosaggio del potere disciplinare della pubblica amministrazione. La previsione legale inoltre consente di superare i limiti che operazioni analoghe scontano nell’impiego privato secondo gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità. Il corretto inquadramento della questione non può, comunque, prescindere da una preliminare disamina della tormentata querelle inerente il regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo nel lavoro pubblico; essa ha animato negli ultimi anni il dibattito dottrinale, oltre a determinare contrasti di giurisprudenza, incentrati sull’applicabilità o meno al pubblico impiego dell’articolo 18, l. n. 300/1970, modificato dalla l. n. 92/2012 ovvero del testo previgente della norma statutaria. Il quadro si complica poi con l’entrata in vigore della disciplina del contratto a tutele crescenti (d.lgs. n. 23/2015). Vengono al riguardo in rilievo due sentenze della Corte di Cassazione. La prima, più risalente, è la n. 24157/2015 [2] con cui i giudici di legittimità optano per l’applicazione del nuovo testo dell’art. 18 [continua ..]


3. La riforma Madia e il nuovo art. 63 del d.lgs. n. 165/2001: un regime sanzionatorio unico per il licenziamento illegittimo nel pubblico impiego e la problematica sopravvivenza dell’art. 18

La querelle intorno alla tutela reale nel lavoro pubblico viene consegnata all’archeologia giuridica dalla riforma Madia (d.lgs. n. 75/2017), che ha modificato l’art. 63, c. 2, del d.lgs. n. 165/2001 [7]. Secondo la nuova disposizione, ferma la previsione generale originaria sulla possibilità di adottare i provvedimenti dichiarativi, costitutivi o di condanna richiesti dalla natura dei diritti tutelati, «il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative». Inoltre «il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali». Pur riproducendo in parte la struttura dell’art. 18 della l. n. 300/1970 nella versione vigente prima della novella del 2012, l’art. 63, c. 2, del d.lgs. 165/2001 introduce significativi elementi di discontinuità che delineano un nuovo meccanismo sanzionatorio speciale, destinato ad operare a prescindere dalla natura del vizio del licenziamento (nullità, annullabilità o inefficacia) e delle dimensioni della pubblica amministrazione. Si sono quindi sostenute la definitiva abrogazione del vecchio testo dell’art. 18 della legge n. 300 e l’inapplicabilità al lavoro pubblico del testo novellato dalla riforma Fornero [8]. Il regime sanzionatorio introdotto nel 2017 si presenta come un singolare modello, trattando in maniera unitaria situazioni differenziate che, invece, il legislatore del 2012 aveva considerato attraverso un sistema di tutele di intensità decrescente in ragione del vizio del recesso. È stato così introdotto un regime sanzionatorio ripristinatorio con un limite legale al risarcimento del danno, non individuato – analogamente al lavoro privato – in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, bensì – secondo un [continua ..]


4. L’inedito potere giudiziale di rideterminazione della sanzione disciplinare e il giudizio di proporzionalità

Ad accentuare i profili di separatezza tra lavoro pubblico e lavoro privato è certamente l’innovativa previsione di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 75/2017 che ha aggiunto il c. 2 bis all’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001. La norma, che attribuisce al giudice il potere di rideterminare la sanzione in caso di difetto di proporzionalità  [18], è oggi una peculiarità della disciplina del lavoro pubblico privatizzato. In relazione alla proporzionalità, anche recentemente, la giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato nell’area del lavoro privato che «il potere di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità dell’illecito accertato rientra nel potere di organizzazione dell’impresa quale esercizio della libertà di iniziativa economica di cui all’articolo 41 Cost., onde è riservato esclusivamente al titolare di esso». Da tale premessa i giudici traggono il principio per cui «è precluso al giudice, chiamato a decidere circa la legittimità di una sanzione irrogata, esercitarlo anche solo procedendo ad una rideterminazione della stessa riducendone la misura» [19]. La Suprema Corte individua due sole eccezioni. La prima consiste nel superamento da parte dell’imprenditore del massimo edittale, sicché il giudice non fa altro, in tale ipotesi, che ricondurre il potere imprenditoriale a tale limite. La seconda attiene al caso in cui sia lo stesso datore di lavoro nel giudizio di annullamento della sanzione a chiedere la rimodulazione, fattispecie in cui, con tutta evidenza, non è invasa la sfera di autonomia all’imprenditore e si realizza l’economia di un nuovo ed eventuale giudizio valutativo [20]. La fattispecie in esame va anzitutto tenuta distinta dalla potestà del giudice di convertire il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Sul punto la giurisprudenza è costante nell’affermare che la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’uno con effetto immediato e l’altro con preavviso. Il giudice ha, dunque, il potere di convertire un licenziamento per giusta causa in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo senza che [continua ..]


NOTE