La nota analizza il particolare atteggiarsi del principio di parità di trattamento economico nel pubblico impiego privatizzato, secondo il quale le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale ed è fatto divieto di trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale rispetto a quelli previsti dalla contrattazione collettiva, mentre a quest’ultima è consentito operare differenziazioni purché non contrastanti con specifiche previsioni normative. Tale analisi richiede un esame della normativa di riferimento e dei vari orientamenti di dottrina e giurisprudenza che hanno ana-lizzato il bilanciamento tra autonomia collettiva, parità di trattamento e divieto di discriminazione. Un cenno, infine, è stato dedicato al principio del riassorbimento, la cui funzione deve essere necessariamente messa in collegamento con il riconoscimento di assegni ad personam erogati in occasione della mobilità dei dipendenti tra le diverse amministrazioni.
The case-note analyzes how the principle of equal economic treatment works in privatized public employment, according to which public administrations guarantee their employees equal contractual treatment and it is forbidden to improve or deteriorate treatments on an individual basis compared to those provided for in the contract collective, while the latter is allowed to differentiate as long as they do not conflict with specific regulatory provisions. This analysis requires an examination of the reference legislation and of the various opinions of doctrine and jurisprudence which have analyzed the balance between collective autonomy, equal treatment and prohibition of discrimination. Finally, a mention was dedicated to the so called “principle of reabsorption”, whose function must necessarily be linked to the recognition of ad personam checks paid on the occasion of employee mobility between the various administrations.
1. La vicenda giudiziaria - 2. Il principio di parità di trattamento nel pubblico impiego privatizzato - 3. Il principio del riassorbimento automatico - 4. Considerazioni conclusive - NOTE
L’ordinanza in commento si inserisce nel solco tracciato dalle pronunce della Cassazione sul principio di parità di trattamento economico nel pubblico impiego [1]. La vicenda giudiziaria in esame riguarda, infatti, alcuni dipendenti del Ministero dell’Istruzione transitati al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che lamentavano un trattamento economico inferiore, a parità di mansioni e qualifiche, rispetto a quanto percepito dal personale proveniente, invece, dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica. Tale disparità veniva a crearsi a seguito dell’accorpamento dei ministeri ex d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300. Ebbene, i giudici di legittimità hanno deciso di esaminare i nove motivi del ricorso congiuntamente e di aderire ai principi di diritto chiaramente espressi, tra i tanti precedenti, nella sentenza n. 10253/2016 [2]. Secondo quanto affermato in tale pronuncia, il principio di parità di trattamento contrattuale enunciato dall’art. 45 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 opera “nell’ambito del sistema di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva” e, pur vietando trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale, non impedisce che l’autonomia collettiva pratichi delle differenziazioni: in questo senso, dunque, i trattamenti differenziati vietati sono solamente quelli contrastanti con specifiche disposizioni di legge o quelli posti in essere in modo unilaterale dal datore di lavoro. In questo caso, infatti, la disparità di trattamento che ne deriverebbe avrebbe come fondamento scelte unilaterali del datore lesive della dignità dei lavoratori; nel caso, invece, di differenziazioni attuate nell’esercizio dell’autonomia collettiva, in quanto frutto di accordi in cui le parti operano su un piano paritario e istituzionalizzato, il lavoratore sarebbe sufficientemente tutelato tutte le volte in cui non si riscontrino finalità illecite, ma mere valutazioni comparative. A ciò va aggiunto che l’art. 45 su citato non contiene alcun divieto per la contrattazione collettiva di attribuire rilievo alle pregresse vicende del rapporto di lavoro, purché ovviamente non si violino specifici obblighi di non discriminazione: in questo modo, si può dare rilevanza ai diversi percorsi formativi, alle esperienze maturate [continua ..]
Come anticipato, la pronuncia in commento si muove su un terreno in cui lavoro pubblico e privato, anziché mostrare una convergenza di disciplina derivante dal processo di privatizzazione del pubblico impiego [4], si discostano profondamente: è ormai pacifico, infatti, che non si può parlare di parità di trattamento come obbligo in capo al datore di lavoro privato [5], mentre nel pubblico impiego questo principio è addirittura sancito da una norma di legge, l’art. 45 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che impone alle pubbliche amministrazioni di garantire la parità di trattamento contrattuale dei propri dipendenti e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi, limitando di fatto l’autonomia individuale [6]. Il fondamento di tale norma è stato rinvenuto, da una parte, nel divieto generale di trattamenti ingiustificatamente differenziati ex art. 3 Cost. e, dall’altra parte, nel principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione ex art. 97 Cost. [7], con la precisazione che l’imparzialità troverebbe fondamento nell’interesse pubblico, mentre la parità di trattamento avrebbe a che fare con l’interesse dei lavoratori [8]. Inoltre, come già si è rilevato [9], dal principio della parità di trattamento deriva anche il divieto di discriminazione [10], con l’importante distinzione che, mentre il secondo non ammette trattamenti differenziati, il primo consente di regolare in modo diverso due situazioni in presenza di giustificati motivi [11]: in altre parole, la parità di trattamento deve essere intesa come divieto generale per la pubblica amministrazione di operare trattamenti ingiustificatamente differenziati e quindi discriminatori [12]. Ebbene, l’orientamento giurisprudenziale consolidato ha sempre considerato, da un lato, la contrattazione collettiva nel pubblico impiego vincolata al principio di parità di trattamento, con l’aggiunta della possibilità di prevedere trattamenti differenziati debitamente motivati e non contrastanti con specifici divieti normativi; dall’altro lato, ha interpretato il principio di non discriminazione come un divieto corrispondente ad ipotesi tipiche e determinate e non come una clausola aperta idonea a vietare ogni trattamento differenziato. Corollario [continua ..]
Abbiamo accennato come dall’analisi delle disposizioni del Testo Unico in materia di pubblico impiego derivi una riserva di competenza della contrattazione collettiva in tema di trattamento economico. Ebbene, quel quadro è completato da una norma, l’art. 2, c. 3, che configura un vero e proprio “meccanismo di protezione” [18] del necessario intervento dell’autonomia collettiva, costituito dalla previsione per cui gli aumenti retributivi attribuiti da disposizioni di legge, regolamento o atto amministrativo cessano di produrre effetti a seguito dell’entrata in vigore del successivo contratto collettivo e gli incrementi migliorativi già in godimento devono essere riassorbiti, secondo le modalità e le misure previste dallo stesso contratto collettivo. Se la ratio di tale disposizione è, evidentemente, quella di eliminare i trattamenti economici concessi fuori dal controllo della contrattazione collettiva di settore, onde evitare di assecondare anche esigenze clientelari [19], non altrettanto chiara è stata la questione se attribuire un ruolo o meno alla contrattazione collettiva in ordine alla concreta operatività della regola del riassorbimento. Sebbene l’ordinanza in commento contenga solo un richiamo all’art. 2, c. 3, con riferimento alla garanzia della giusta retribuzione ex art. 36 Cost., possiamo ricordare che la giurisprudenza ha sempre interpretato il principio del riassorbimento automatico come immediatamente precettivo e inderogabile [20], con la conseguenza che la sua operatività non sarebbe condizionata all’intervento del contratto collettivo relativo al comparto dell’amministrazione coinvolta: detto in altri termini, la contrattazione collettiva può incidere sul quomodo di applicazione del principio, ma non sull’an dello stesso. A sostegno di tale interpretazione, i giudici di legittimità richiamano altre due disposizioni del T.U. sul pubblico impiego: l’art. 45 relativo, appunto, alla parità di trattamento e l’art. 30 che, riconducendo il passaggio dei dipendenti ad amministrazioni diverse alla cessione del contratto ex art. 1406 c.c., impone l’applicabilità ai dipendenti trasferiti del trattamento giuridico ed economico dell’amministrazione di destinazione [21]. Per completezza di esposizione, tuttavia, [continua ..]
In definitiva, con l’ordinanza che si commenta la Suprema Corte non ha fatto altro che confermare orientamenti ormai consolidati. Ciò, però, non esime dal rilevare le medesime critiche già avanzate in passato contro i principi di diritto utilizzati per dirimere la controversia: stando a quanto appena detto, infatti, non ci sarebbe nessun controllo esterno alle determinazioni della contrattazione collettiva in apparenza contrastanti col principio di parità nel pubblico impiego. Probabilmente la spiegazione più convincente rimane quella di chi, valorizzando il ruolo delle parti sociali nel definire un equilibrio economico all’interno di un mercato di riferimento attraverso il contratto, in modo analogo a quanto avviene nel lavoro privato, ha rimarcato come non abbia senso imporre criteri unici di valutazione delle prestazioni [26], a maggior ragione considerando come il principio del riassorbimento operi in automatico e indipendentemente dall’intervento di quelle stesse parti sociali.