L’autore commenta la prospettata incostituzionalità della previsione dell’art. 55-quater, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 165/2001, relativa al licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza in servizio, se qualificato come automatismo sanzionatorio. La Corte costituzionale, con la decisione n. 123/2020, nel dichiarare la questione inammissibile, finisce comunque per dichiarare implicitamente la coerenza di un “diritto vivente” che ha fornito di quella norma una interpretazione adeguatrice e coerente con i principi costituzionali.
The Author comments on the alleged constitutional breach of the provision of art. 55-quater, para. 1, letter a), of Legislative Decree no. 165/2001, relating to disciplinary dismissal for false attestation of presence in service, if qualified as a sanctioning automatism. The Constitutional Court, with decision no. 123/2020, in declaring the question inadmissible, however, ends up implicitly declaring the coherence of a “living law” which has provided an adequate and consistent interpretation of that provision in line with the constitutional principles.
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1. Il caso e il rinvio incidentale alla Corte costituzionale - 2. Il licenziamento disciplinare ex art. 55-quater, d.lgs. n. 165/2001: evoluzione e problemi interpretativi - 3. Il licenziamento per falsa attestazione della presenza in servizio quale possibile eccezione al principio di proporzionalità - 4. La decisione della Corte costituzionale e il suo significato - NOTE
Sollecitata dal Tribunale di Vibo Valentia, la Corte costituzionale torna ad occuparsi dell’art. 55-quater, d.lgs. n. 165/2001 sul licenziamento disciplinare del pubblico dipendente, a poca distanza dalla sentenza n. 61/2020 [1]. Questa volta, però, è chiamata a sciogliere lo snodo ermeneutico centrale della fattispecie che, come disegnata nell’ultimo decennio dal legislatore, sembra rappresentare un vero e proprio automatismo sanzionatorio per i comportamenti tipizzati ex lege. Di più, oggetto dell’analisi dei giudici costituzionali è proprio la falsa attestazione della presenza in servizio che, nell’ampia e variegata casistica del primo comma dell’art. 55-quater, meglio racconta «dell’illusione circa le virtù taumaturgiche della legislazione» [2] di contrasto all’assenteismo pubblico [3]. Benché la questione si chiuda tecnicamente con un nulla di fatto – la pronuncia di inammissibilità del Giudice delle leggi si basa sulla censura del mancato esame «accurato ed esaustivo» delle ragioni che avrebbero consentito di escludere una interpretazione diversa e costituzionalmente legittima – il non possumus della Corte offre tuttavia più di uno spunto che suggerisce la parvenza di una definitività. Il caso non offre in realtà alcun appiglio per dubitare della sua riconducibilità all’illecito disciplinare di cui all’art. 55-quater, c. 1, lett. a): il licenziamento disciplinare adottato nei confronti di un dipendente civile del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ed in servizio presso la Capitaneria di Vibo Valentia Marina si fonda infatti sulla reiterata falsa attestazione della presenza, realizzata attraverso l’allontanamento (non registrato) dalla sede di servizio e lo smarcamento in uscita solo dopo diverse ore; il dato oggettivo dell’assenza viene peraltro corroborato da quello soggettivo della intenzionalità fraudolenta, provata dall’anomalo posizionamento dell’autovettura del dipendente al di fuori del comprensorio della Capitaneria, così da sfuggire al controllo del personale preposto. Ciononostante, il Tribunale solleva la questione incidentale di costituzionalità della citata previsione, nella misura in cui la sua formulazione letterale («si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei [continua ..]
L’analisi dell’ordinanza di rinvio e della sentenza costituzionale deve prendere necessariamente le mosse dalla complessiva valutazione della regolazione del potere disciplinare nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni che, rimasta originariamente al margine dell’interesse del legislatore nel percorso di privatizzazione e contrattualizzazione [5], ha conosciuto, a partire dal 2009, una strategica centralità: da un lato, infatti, funge da strumento repressivo di comportamenti giudicati riprovevoli (ivi compreso il fenomeno dei cd. furbetti del cartellino) e stigmatizzati, indipendentemente dalle loro effettive dimensioni, anche in ragione del loro clamore mediatico [6]; dall’altro, è pungolo di una efficienza e produttività degli uffici pubblici, parole d’ordine e magnifica ossessione delle logiche aziendaliste sottese alla riforma [7]. Come è noto, il d.lgs. n. 150/2019 – raccogliendo le deleghe contenute negli artt. 2, c. 1, lett. f) e 7 della l. 4 marzo 2009, n. 15 – ha operato un deciso irrigidimento del sistema sanzionatorio. Nella “esplosione” delle previsioni dedicate all’esercizio del potere disciplinare, il legislatore si è riappropriato della tipizzazione delle fattispecie di illecito più gravi e idonee a condurre al licenziamento [8], affiancando – e, di fatto, ridimensionando [9] – quanto già previsto dalla contrattazione collettiva [10], suggerendo proprio nella formulazione dell’art. 55-quater una ineluttabilità tanto della iniziativa disciplinare quanto della sua conclusione. Che l’esercizio della disciplina nei confronti dei pubblici dipendenti si sia rivelata questione particolarmente sensibile è altresì testimoniato dalla complessa stratificazione regolativa conosciuta dalla previsione in parola, su cui si è appuntata dapprima la l. n. 124/2015 (art. 17, c. 1, lett. s), e poi ben tre interventi delegati. Di questi, in particolare, il primo (d.lgs. n. 116/2016) ha riguardato espressamente l’ipotesi della falsa attestazione della presenza in servizio di cui è stata innanzitutto fornita una interpretazione, se non proprio autentica, quantomeno chiarificatrice [11]. Al contempo, nei casi di accertamento dell’illecito in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione [continua ..]
Se questo è il quadro complessivo, non si può nascondere come l’ipotesi del licenziamento legato alla «falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente» (art. 55-quater, c. 1, lett. a) possa rivelarsi alquanto problematica: la norma-manifesto della lotta ai fannulloni rischia di diventare, nella sua categoricità, la “notte in cui tutte le vacche sono nere” [32]. Alcune delle perplessità stanno nella stessa costruzione della condotta, su cui, come ricordato, è intervenuto il d.lgs. n. 116/2016, aggiungendo all’art. 55-quater il c. 1-bis. In ogni caso, anche dopo l’introduzione della definizione di «falsa attestazione della presenza in servizio», la fattispecie dell’illecito disciplinare che qui si osserva resta strutturalmente aperta e teleologicamente determinata [33], caratterizzata dall’elemento “soggettivo” di una «qualunque» [34] modalità fraudolenta (posta in essere anche con l’ausilio di terzi [35]) finalizzata a indurre in inganno l’Amministrazione e dalla “oggettiva” attestazione di un orario di lavoro non sussistente, o comunque non corrispondente tra quanto registrato e quanto concretamente accertato [36]. Probabilmente eccessiva [37], o addirittura «superflua» secondo alcuni [38], l’aggiunta del comma 1-bis ha comunque evidenziato una chiara distanza dalla giurisprudenza che sino a qual momento aveva fornito della nozione di falsa attestazione una lettura piuttosto ampia e poco attenta al rilievo dell’elemento soggettivo, sulla base dell’assunto per cui, ad esempio, una condotta che si compendia nell’allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare, mediante timbratura o altro sistema, i periodi di assenza sarebbe oggettivamente idonea ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza [39]. Le difficoltà nelle aule giudiziarie permangono comunque, ma quantomeno i giudici sembrano indirizzarsi verso una sorta di inversione dell’onere della prova, valutando cioè se in capo al dipendente ricorrano elementi che assurgono a “scriminante” della condotta tali da configurare una situazione di inesigibilità della [continua ..]
Come già anticipato, i giudici costituzionali hanno dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità sollevata dal giudice a quo per non avere questi tenuto conto, in termini esaustivi, dell’interpretazione adeguatrice resa dal diritto vivente. Invero, la Consulta ha rilevato come il Tribunale rimettente, pur mostrando di conoscerla, si è limitato ad affermare che l’interpretazione adeguatrice seguita dalla dottrina e dalla giurisprudenza, specialmente di legittimità, sia semplicemente antiletterale. Ed invece, l’enfasi posta sull’avverbio «comunque» come spia di un licenziamento disciplinare automatico avrebbe dovuto essere messa a confronto con un quadro normativo in cui permane, anche dopo la riforma del 2009, il testuale richiamo all’art. 2106 c.c., ossia un rinvio diretto al canone generale di proporzionalità delle sanzioni disciplinari; né è stato sufficientemente preso in considerazione l’orientamento di legittimità che legge la tipizzazione delle ipotesi di licenziamento di cui all’art. 55-quater come un dispositivo di inversione dell’onere della prova a carico del dipendente autore materiale del fatto tipico, tenuto a fornire elementi fattuali di carattere attenuante o esimente rispetto alla gravità della condotta. E benché la Corte sia consapevole che l’effettiva sostenibilità della interpretazione adeguatrice attenga al merito e non alla ammissibilità della questione di costituzionalità, è proprio l’assenza di un esame esaustivo da parte del remittente delle potenzialità di tale interpretazione ad impedire che il giudizio di costituzionalità si instauri compiutamente. Si tratta di una conclusione che può lasciare scontento chi auspicava che il giudice costituzionale potesse finalmente offrire una solida base costituzionale allo sviluppo di un diritto del lavoro pubblico “vivente”, che ammette una certa obbligatorietà dell’azione disciplinare, ma che ne ripudia ogni automatismo sanzionatorio. E tuttavia, anche se non si tratta di una decisione di merito, la sentenza n. 123/2020 è comunque una decisione sul merito del licenziamento disciplinare ex art. 55-quater. Ne è spia in primo luogo la lunga riflessione – che costituisce una buona metà del considerato in diritto della [continua ..]