Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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L'assegnazione a mansioni superiori non può giustificare una diligenza inferiore a quella ordinaria (di Pierluca Baldassarre Pasqualicchio, Dottorando in Lavoro, sviluppo e innovazione nell'università di Modena e Reggio Emilia - Fondazione “Marco Biagi”)


La nota analizza il tema del grave inadempimento quale causa di licenziamento disciplinare focalizzando l'attenzione sul concetto di diligenza esigibile del prestatore di lavoro. Inoltre, affronta la questione del codice di comportamento dei dipendenti pubblici nell'ambito della gerarchia delle fonti.

This note analyzes the matter of the serious breach of contract as a cause of a disciplinary dismissal, focusing the attention on the concept of diligence due by the employee. In addition, it addresses the issue of the code of conduct for civil servants within the hierarchy of sources.

MASSIMA: Lo svolgimento di fatto di mansioni superiori rispetto alla qualifica di inquadramento non giustifica, di per sé, una diligenza inferiore a quella ordinaria, poiché il giudizio sulla diligenza esigibile nel rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione deve tener conto dell’insieme di circostanze del fatto concreto, tra cui la complessiva esperienza maturata dal lavoratore, la formazione ricevuta ed i motivi che hanno determinato l’assegnazione delle mansioni superiori. PROVVEDIMENTO: FATTI DI CAUSA 1. Con sentenza del 16 giugno 2020 la Corte di Appello di Roma, giudice del reclamo L. n. 92 del 2012, ex art. 1, commi 58 e ss., confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede che, al pari del giudice della prima fase, aveva respinto la impugnazione proposta da P.L. avverso il licenziamento disciplinare comunicatogli dall’INPS in data 16 novembre 2017, per plurime irregolarità nella gestione delle pratiche di rilascio del PIN e nell’istruttoria delle domande di NASPI, che avevano determinato la liquidazione di prestazioni NASPI non dovute. 2. La Corte territoriale esponeva che il licenziamento faceva seguito a tre contestazioni di addebito, rispettivamente del 28 aprile, 18 luglio e 21 settembre 2017: – la prima riguardava il rilascio di 43 PIN dispositivi a lavoratori fittizi-che avevano dichiarato di avere domicilio nell’area di competenza della sede di Roma-EUR, in cui operava il P., pur essendo residenti altrove – in carenza di documentazione ed in presenza di anomalie: la grafia dei campi “data richiesta PIN” e “data consegna PIN” era diversa da quella degli altri campi; le buste contenenti i PIN dispositivi non seguivano l’ordine progressivo di numerazione; il PIN era rilasciato in orari in cui la sede INPS non era aperta al pubblico; era acquisita documentazione falsa in assenza dei prescritti controlli. La contestazione riguardava, altresì, la liquidazione della prestazione NASPI a seguito di istruttoria curata dal P., omettendo i controlli prescritti; – la seconda contestazione riguardava la liquidazione della prestazione NASPI a 37 lavoratori fittizi, parimenti non rientranti per residenza nella competenza della sede di Roma-EUR, omettendo i controlli sui flussi UniEmens trasmessi dalle aziende indicate come datori di lavoro, che erano risultati irregolari; – la terza contestazione ineriva alla liquidazione di 56 partiche NASPI senza inserire i dati relativi all’IBAN dei beneficiari nell’applicativo per il controllo dei pagamenti (SCUP). In 25 di queste pratiche erano emerse cause di incompatibilità o esclusione del diritto; in 13 pratiche il richiedente non era residente nell’area della filiale di Roma EUR; su 10 modelli erano riportati 4 IBAN identici; in un caso il modello dell’IBAN era privo del timbro della banca. 3. La Corte territoriale osservava che le [continua..]
SOMMARIO:

1. Premessa: fatti di causa - 2. Il licenziamento disciplinare - 3. La nozione di equivalenza delle mansioni nel rapporto di lavoro privato e pubblico - 4. Inadempimento e diligenza esigibile - 5. Il codice di comportamento - NOTE


1. Premessa: fatti di causa

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha deciso la controversia avente ad oggetto il licenziamento disciplinare di un dipendente dell’Inps al quale erano stati contestati vari episodi, ripetuti nel tempo, di gravissime irregolarità commesse nell’istruzione di diverse pratiche relative all’indennità Naspi, poi liquidata, senza il necessario controllo, a favore di lavoratori risultati non esistenti a seguito di successivi accertamenti, e nella gestione delle pratiche di rilascio del pin. I fatti oggetto delle specifiche contestazioni disciplinari sono ben rappresentati nella premessa descrittiva della decisione in commento, alla quale si fa rinvio. In questa sede occorre precisare che la Corte di Appello di Roma riteneva che le irregolarità accertate integrassero una gravissima ed inescusabile negligenza: in particolare, la predetta Corte territoriale affermava che tali violazioni configurassero illeciti disciplinari di eccezionale rilevanza; precisava che analoghi comportamenti se episodici ed occasionali erano stati talvolta tollerati dall’istituto. La Corte di Cassazione, innanzitutto, ha ritenuto che i giudici di appello hanno individuato chiaramente nella fattispecie esaminata le gravissime irregolarità commesse sistematicamente, nonostante il punto motivazionale dedotto dal lavoratore ricorrente nella censura di “irrisolvibile contraddittorietà tra la affermazione della sentenza secondo cui le singole condotte erano in sé lecite e la statuizione secondo cui quelle stesse condotte, se considerate nel loro complesso, costituivano giusta causa di licenziamento”. In seguito, la Corte si è soffermata sulla ricostruzione degli illeciti disciplinari nei corretti termini delle gravissime irregolarità riscontrate, anche se le stesse non erano state considerate dalla Corte territoriale come truffa ai danni dell’Inps. L’equivoco che aveva dato origine a uno dei motivi di impugnazione in Cassazione, nasceva dal fatto che la Corte d’Appello, ad abundantiam, aveva affermato che la gravità dei comportamenti assunti dal lavoratore lasciava “far quasi presumere la sussistenza di una vera e propria coscienza e volontà del dipendente di alterare i presupposti per consentire la concessione del beneficio a chi non ne aveva diritto”. Di fondamentale rilevanza è la motivazione della sentenza in commento nella parte [continua ..]


2. Il licenziamento disciplinare

La decisione rileva in particolare per quanto concerne il licenziamento disciplinare. La nozione di quest’ultimo si rinviene nella legge e segnatamente nell’art. 1 l. n. 604/1966, che definisce il licenziamento individuale per giusta causa rinviando, per la relativa nozione, all’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo, derivante da condotta che discenda da “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti l’attività produttiva all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3, l. n. 604/1966). Il licenziamento disciplinare inerisce alla modalità con cui il lavoratore ha reso la sua prestazione dovuta, così escludendo tutte le circostanze oggettive che inducono al licenziamento come ad esempio l’inabilità sopravvenuta, il ritiro di abilitazioni o permessi necessari allo svolgimento dell’attività lavorativa. Pertanto l’ambito del licenziamento disciplinare concerne l’inadempimento del lavoratore nel caso in cui sia solo notevole, come sancito dall’art. 3, l. n. 604/1966, ovvero sia talmente grave da non consentire “la prosecuzione anche provvisoria del rapporto”, come previsto dall’art. 2119 c.c.: nella prima ipotesi, il datore di lavoro sarà tenuto al preavviso, rimanendo nella sua discrezionalità se consentire al lavoratore di prestare la propria attività in azienda ovvero se corrispondergli l’indennità sostitutiva; nella seconda ipotesi il datore di lavoro potrà recedere immediatamente senza essere tenuto al preavviso. Dunque, in base alle previsioni di legge tuttora vigenti, può affermarsi che a fondamento del licenziamento disciplinare sussiste un notevole o notevolissimo ina­dempimento del lavoratore alle proprie obbligazioni come stabilite dagli artt. 2104 e 2105 c.c. Occorre tuttavia ricordare, come evidenziato da autorevole dottrina [1], che in epoca corporativa, la violazione delle previsioni in tema di diligenza e obbligo di fedeltà avrebbero comportato esclusivamente l’erogazione di sanzioni disciplinari conservative, “secondo la gravità dell’infrazione” commesse dal lavoratore (art. 2106 c.c.); il licenziamento, invece, restava al di fuori delle sanzioni disciplinari, perché l’art. 2118 c.c., disciplinava il recesso ad nutum salva la [continua ..]


3. La nozione di equivalenza delle mansioni nel rapporto di lavoro privato e pubblico

La decisione in commento prende posizione anche sul motivo di ricorso relativo al tema dello svolgimento di fatto da parte del prestatore di lavoro di mansioni superiori riconducibili ai profili impiegatizi dell’area B o, in subordine, dell’area C, nella parte in cui assume che la diligenza esigibile avrebbe dovuto essere rapportata al suo grado di preparazione e cultura; il lavoratore così allega la violazione di norme contrattuali del Codice di comportamento dei dipendenti delle P.A., di cui al d.P.R. n. 62/2013 e di quello dell’INPS nell’avergli attribuito la responsabilità della corretta istruttoria e liquidazione delle pratiche Naspi; denuncia inoltre la mancata considerazione dell’inesistenza di formazione specifica nonché l’assenza di controllo da parte del responsabile di servizio. Si osserva che secondo il principio di contrattualità delle mansioni il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto; le stesse vengono individuate nel momento iniziale della prestazione lavorativa, sia per quanto riguarda la qualifica che l’inquadramento professionale [6]. In ragione delle mutevoli esigenze dell’organizzazione dell’impresa, nel corso del rapporto è attribuito al datore di lavoro non solo il potere di dettagliare, tempo per tempo, i compiti concretamente assegnati al lavoratore, ma anche di mutare le mansioni. L’esercizio di tale potere conformativo della prestazione – riflesso del potere direttivo dell’imprenditore rispetto al quale il dipendente versa in situazione di soggezione – è regolato, nel rapporto di lavoro privato, dall’art. 2103 c.c. [7], nel testo novellato dal d.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015 [8]. In tema di mansioni [9], la norma citata non è direttamente applicabile al pubblico impiego privatizzato, poiché la relativa disciplina è contenuta in due disposizioni speciali e, in particolare, quanto alla dirigenza pubblica nell’ultimo comma dell’art. 19 d.lgs. n. 165/2001 e quanto al restante personale, nel successivo art. 52, intitolato proprio “Disciplina delle mansioni”. Nel pubblico impiego “privatizzato”, secondo la consolidata giurisprudenza, formatasi sin dalla prima stagione di riforme, “il testo dell’art. 56, d.lgs. n. 29 del 3 febbraio 1993 (poi divenuto art. 52, d.lgs. n. 165/2001) [continua ..]


4. Inadempimento e diligenza esigibile

A questo punto, occorre chiarire il contenuto della diligenza esigibile dal prestatore di lavoro nell’esecuzione della prestazione. In termini generali, il lavoratore, come ogni altro debitore, è inadempiente se non esegue la prestazione dovuta ovvero se non la esegue esattamente nei modi, nel tempo e nel luogo che gli sono stati prescritti. Più difficile è stabilire quando il lavoratore sia da considerare responsabile per un determinato inadempimento: secondo una prima opinione, l’imputabilità o meno della causa dell’inadempimento dovrebbe essere valutata in rapporto alla diligenza richiesta al debitore. Pertanto, bisognerebbe leggere l’art. 1218 c.c. in stretta correlazione con l’art. 2104 c.c. e desumerne che, qualora non sia possibile muovere al lavoratore alcun rimprovero circa la diligenza con cui ha eseguito la prestazione e nondimeno sia seguito un inadempimento totale o parziale, quest’ultimo è da ascriversi ad una causa a lui non imputabile. Secondo un’altra e più rigorosa opinione, invece, la diligenza richiesta al debitore (e dunque anche al prestatore di lavoro) rileverebbe solo nel caso di adempimento inesatto, allo scopo di verificare se, nell’esecuzione della prestazione, il lavoratore ha utilizzato l’accortezza e la perizia richieste dal suo oggetto, ma non rileverebbe affatto nel caso in cui l’adempimento sia mancato del tutto: in quest’ultimo caso, il debitore non sarebbe da considerarsi responsabile nel caso in cui la prestazione sia diventata inesigibile per impossibilità sopravvenuta dipesa da caso fortuito o forza maggiore con onere probatorio della predetta inesigibilità a carico del prestatore di lavoro [13]. Tuttavia, anche tale tesi va calata nel caso concreto in relazione al contenuto della prestazione richiesta al lavoratore, a seconda che a quest’ultimo venga richiesto lo svolgimento di una determinata attività volta al conseguimento di un determinato risultato o gli venga chiesto di conseguire quel risultato specifico. Nel primo caso, definito dalla dottrina come obbligazione di mezzi, grava sul datore di lavoro il rischio della mancata realizzazione del risultato: per il lavoratore è sufficiente provare di essere stato diligente per liberarsi della responsabilità. Diversamente, se il lavoratore deve conseguire un risultato egli risponderà per inadempimento anche [continua ..]


5. Il codice di comportamento

Infine, con la quarta contestazione «il ricorrente ha dedotto la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 55 e 55 bis d.lgs. n. 165/2001, dei CC.NN.LL. del comparto ENTI PUBBLICI NON ECONOMICI vigenti ratione temporis e del regolamento di disciplina dell’Inps». Si osserva che la Suprema Corte ha richiamato specificamente, nel punto 13 della motivazione relativo alla terza censura, i cc.nn.ll. del 1998/2001, 2002/2005, 2006/2009, nonché il Codice di comportamento dei dipendenti dell’Inps, individuato dalla Determinazione n. 181/2014. In questo motivo di impugnazione si fa riferimento anche all’art. 54, d.lgs. n. 165 del 30 marzo 2001, al d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, e alla l. n. 241 del 7 agosto 1990. Merita una breve riflessione l’art. 54, d.lgs. n. 165/2001, come sostituito dall’art. 1, c. 44, l. 6 novembre 2012, n. 190, che ha introdotto un Codice di comportamento dei dipendenti pubblici [16], al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico. In applicazione di questa norma, è stato emanato il d.P.R. n. 62/2013 [17], che ha adottato il codice di comportamento tipo, con le previsioni dei «doveri minimi di diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta che i pubblici dipendenti sono tenuti ad osservare» (art. 1, c. 1), le quali poi «sono integrate e specificate dai codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni ai sensi dell’artico­lo 54, comma 5, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001 (art. 1, c. 2), con procedura aperta alla partecipazione e previo parere obbligatorio del proprio organismo indipendente di valutazione», ai quali si applica il c. 3 dell’art. 54, d.lgs. n. 165 del 30 marzo 2001 (così testualmente dispone il c. 5 del medesimo art. 54). Occorre riportare testualmente, per chiarezza espositiva, il testo del richiamato c. 3, a completamento del passaggio normativo sopra esposto: «La violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento, compresi quelli relativi all’attua­zione del Piano di prevenzione della corruzione, è fonte di responsabilità disciplinare. La violazione dei doveri è altresì rilevante ai fini della responsabilità [continua ..]


NOTE