Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
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Diritto alla riservatezza e trasparenza: la Corte costituzionale e il 'test di proporzionalità' (Corte costituzionale, 21 febbraio 2019, n. 20) (di Andrea Sitzia - Professore associato di Diritto del lavoro nell’Università di Padova, Enrico Fameli - Dottore di ricerca nell’Università di Padova.)


Analizzata la sentenza della Corte costituzionale sul tema del bilanciamento fra i valori costituzionali della riservatezza e della trasparenza, si affronta il tema della necessità di conciliare l’esigenza di trasparenza e informazione con quella della riservatezza del personale pubblico. Il tema è del massimo rilievo se solo si considera che la disciplina legata all’accesso ai dati, informazioni e documenti detenuti dalle amministrazioni svolge una funzione essenziale anche sul piano dell’anticorruzione.

Having analyzed the judgment of the Constitutional Court on the issue of balancing the constitutional values of confidentiality and transparency, the issue of the need to reconcile the need for transparency and information with that of the confidentiality of public staff is addressed. The topic is of the utmost importance if only it is considered that the discipline related to access to data, information and documents held by administrations also plays an essential function in terms of anti-corruption.

    CORTE COSTITUZIONALE, 21 FEBBRAIO 2019, N. 20 (Pres. LATTANZI, Red. ZANON) È costituzionalmente illegittimo l’art. 14, comma 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lett. f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Premesso che nel bilanciamento tra il diritto alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati ed alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni, il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative va svolto alla luce del cosiddetto test di proporzionalità, che «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi», nella specie, la disciplina censurata, la quale estende alla totalità della dirigenza amministrativa gli obblighi di pubblicazione dei documenti previsti dall’art. 2 l. n. 441 del 1982 (e cioè, una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società e l’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società, nonché la copia dell’ultima dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche, con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi abbiano consentito e salva la necessità di dare evidenza al mancato consenso), non risponde alle due condizioni richieste dal test di proporzionalità, in quanto l’onere di pubblicazione imposto risulta, in primo luogo, sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione e la misura scelta non risulta quella meno restrittiva dei diritti fondamentali in potenziale tensione. Tuttavia, posto che una declaratoria d’illegit­timità costituzionale che si limiti all’ablazione, nella disposizione censurata, del riferimento ai dati indicati nell’art. 14, comma 1, lett. f), lascerebbe del tutto privi di considerazione [continua..]
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. La questione giuridica - 3. La Corte costituzionale e il 'test di proporzionalità' nella prospettiva privacy - NOTE


1. Il caso

La sentenza della Corte Costituzionale n. 20 del febbraio 2019 prende posizione sul tema del bilanciamento fra i valori costituzionali della riservatezza e della trasparenza. La sentenza è della massima importanza in quanto interviene in relazione a due istituti giuridici rilevantissimi, entrambi con forte aggancio comunitario, che vengono bilanciati tramite l’applicazione del principio di proporzionalità, come ricavato dall’art. 3 Cost. e dall’art. 5 del TUE. L’occasione di pronunciarsi su tale questione è offerta al giudice delle leggi da una controversia circa la pubblicazione, imposta dall’art. 14, c. 1-bis, d.lgs. n. 33/2013, di una serie di informazioni attinenti la posizione reddituale e patrimoniale dei dirigenti del Garante della protezione dei dati personali. Tali informazioni rappresentano, giuridicamente, nella prospettiva del Regolamento europeo 2016/679/UE in materia di protezione dei dati personali, dati personali “particolari”. Il contenzioso è stato instaurato davanti al T.A.R. Lazio dai dirigenti del Garante della privacy per ottenere l’annullamento dei provvedimenti del Segretario generale dell’Autorità che avevano disposto la comunicazione dei predetti dati ai fini della pubblicazione. Il petitum caducatorio è formulato dalla parte ricorrente «previa eventuale disapplicazione dell’art. 14, c. 1-bis, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33», oppure previa rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione europea o alla Corte costituzionale «della questione in ordine alla compatibilità delle disposizioni sopra citate con la normativa europea e costituzionale». Rigettata la domanda di disapplicazione, attesa l’assenza di una normativa europea direttamente applicabile agli obblighi di trasparenza dei dirigenti pubblici, la questione è portata alla cognizione del giudice delle leggi piuttosto che davanti alla Corte di Giustizia [1].


2. La questione giuridica

È evidente il fulcro problematico oggetto del contenzioso, ovvero la necessità di conciliare l’esigenza di trasformare l’amministrazione in una “casa di vetro” e – contemporaneamente – non compromettere la riservatezza del personale pubblico. Il tema è del massimo rilievo se solo si considera che la disciplina legata al­l’accesso ai dati, informazioni e documenti detenuti dalle amministrazioni svolge una funzione essenziale anche sul piano dell’anticorruzione. Come noto, la l. n. 190/2012 (la c.d. legge Severino), ha dato ampia applicazione agli accordi internazionali, stipulati a Merida nel 2003, nel campo dell’anti­corruzione, riconoscendo la condizione di estrema gravità in cui versava – e versa ancora – l’ordinamento italiano. La “legge Severino” aveva quindi lo scopo di affrontare la maladministration [2] con un approccio non solo strettamente repressivo ma anche preventivo. In tal senso, la legge attribuiva vaste deleghe legislative al Governo al fine di approvare discipline dirette ad implementare gli anticorpi dell’amministrazione, mettendole a disposizione nuovi strumenti di pianificazione, introducendo nuovi codici comportamentali e soprattutto estendendo l’accessibilità ai dati, alle informazioni e ai documenti. Per rispondere a quest’ultima esigenza veniva quindi approvato il d.lgs. n. 33/2013 con il quale si imponevano vasti obblighi di pubblicazione in capo alle amministrazioni, rendendo strutturale e cogente una “trasparenza” intesa in senso proattivo. Entrando nello specifico della fattispecie de qua, l’originale disciplina del d.lgs. n. 33/2013 articolava gli obblighi di pubblicazione distinguendo i soggetti astretti all’Amministrazione da una relazione di tipo impiegatizio-dirigenziale oppure di consulenza (art. 15), da quelli legativi da un rapporto di natura onoraria (art. 14). A questi ultimi il legislatore aveva imposto oneri più gravosi, in ragione della necessità di rendere fruibili al corpo elettorale tutti i dati utili a valutare gli eletti anche nel corso del mandato. In particolare, solo costoro erano chiamati a rendere una piena informazione della propria situazione reddituale e patrimoniale, anche rispetto ai loro stretti congiunti, laddove consenzienti. In quello che si rileverà un eccesso di zelo [continua ..]


3. La Corte costituzionale e il 'test di proporzionalità' nella prospettiva privacy

La sentenza in annotazione gioca un ruolo importante anche nella prospettiva interpretativa del sistema giuridico di protezione dei dati personali. Innanzitutto, la Corte, interviene in ordine ad un nodo interpretativo preliminare di sicura rilevanza, relativamente alla nozione di “dato personale”. La difesa erariale, invero, sul punto, sosteneva la tesi in virtù della quale la pubblicazione dei compensi connessi all’assunzione della carica, degli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici integri un’attività non riconducibile alla categoria del trattamento di dati personali. Questo è un profilo centrale in quanto la sua soluzione attiene, sostanzialmente, alla interpretazione del concetto di “ingerenza nella vita privata” come implicato e disciplinato dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti del­l’Uomo e dall’art. 7 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea. La Corte prende posizione, a questo riguardo, nel punto 3.1 della motivazione, ed in particolare nella parte in cui declina i confini del principio di proporzionalità tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, rilevando come quest’ultima abbia dettato «le regole fondamentali per il trattamento dei dati personali, nozione che include anche la trasmissione, la diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione dei dati». Questo inciso, che evidentemente intende superare il rilievo della difesa dell’Avvocatura generale, deve essere letto in connessione, in particolare, con almeno due fondamentali sentenze della Corte di giustizia, opportunamente citate dalla nostra Corte costituzionale, la sentenza del 20 maggio 2003 (cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, österreichische Rundfunk e altri) e la sentenza del 9 novembre 2010 (cause riunite C-92/09 e 93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert). Queste due sentenze della Corte di Lussemburgo ricostruiscono il concetto giuridico di “trattamento di dati personali” rilevando come la Corte EDU abbia in più occasioni chiarito che l’espressione “dato personale”, inteso come qualsiasi informazione concernente una persona fisica identificata o identificabile, sia connesso alla contigua espressione “vita privata”. Il concetto di “vita privata” non può essere interpretato in [continua ..]


NOTE
Fascicolo 1 - 2020