Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


La giurisprudenza amministrativa in tema di reclutamento dei professori universitari (di Fiorella Lunardon)


SOMMARIO:

1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - NOTE


1

Come disse Sabino Cassese qualche anno fa, nel commentare la riforma del sistema di reclutamento dei professori universitari introdotta dalla c.d. legge “Gelmini”, v’è il «rischio che la presenza di una valutazione con valore legale costituisca occasione e ragione di un protagonismo del giudice amministrativo a tutto campo» [1]. Questo è precisamente quanto accaduto. La “amministrativizzazione” o meglio “burocratizzazione” della disciplina dei concorsi operata dalla legge 30 dicembre 2010, n. 240 e dai successivi provvedimenti attuativi (il d.P.R. 14 settembre 2011, n. 222 e il D.M. 7 giugno 2012, n. 76) ha suscitato un notevole contenzioso e condotto ad una accentuata giurisdizionalizzazione, mai così spinta, delle procedure concorsuali. Le tensioni fra regolatore pubblico e comunità scientifica, l’ha sottolineato stamane Alessandro Bellavista, non possono che esaltare il ruolo del giudice, così inaugurando una via giudiziaria alla cattedra, tramite una selezione dei giovani studiosi fatta senza o contro il giudizio dei pari, coi giudici a far da supplenti ai professori: “la scelta degli esaminatori, la selezione dei docenti, lo stesso progresso della ricerca saranno decisi non nelle università, ma nei tribunali” [2]. Peraltro, diversamente da quanto avviene in ambito lavoristico, ove i giudici hanno dato prova di saper creare – in supplenza del legislatore – assetti regolativi alternativi sufficientemente stabili, la giurisprudenza amministrativa appare più restìa ai grandi disegni; e da sempre, specie in una materia come il reclutamento dei professori universitari, alterna momenti di esitazione a interventi più audaci.


2

Il background normativo è noto: per reagire al previgente sistema di reclutamento e agli evidenti scompensi e disfunzionalità indotti dalla (criticata) de-lo­calizzazione dei concorsi [3] il legislatore nel 2010 ha introdotto una procedura centralizzata, normativamente pervasiva e ispirata ad una logica di oggettivizzazione che ha operato attraverso una serie di paletti volti a guidare, ma anche limitare e controllare la discrezionalità delle Commissioni giudicatrici per l’attribuzione del­l’abilitazione scientifica nazionale (ASN) [4]. Perno della svolta impressa dal trittico “Gelmini” (legge n. 240/2010; d.P.R. n. 222/2011 e D.M. n. 76/2012) al mondo universitario sono gli indicatori/criteri/pa­rametri quantitativi attraverso cui vengono ora “pesate” conoscenze, competenze ed anche esperienze degli aspiranti accademici. Di un tale approccio quantitativo, nel fitto dibattito che ha accompagnato in tutte le sue diverse fasi la riforma, già si temeva il contrasto con le indicazioni di una risalente ma limpida sentenza della Corte Costituzionale (24 luglio 1972, n. 143) secondo cui «il concorso per cattedre universitarie non si presta alla preventiva determinazione di criteri di massima che autolimitino la discrezionalità della Commissione». Non si dimentichi infatti che, come è stato detto, la misurazione non è la valutazione. Ebbene, dall’analisi degli orientamenti giurisprudenziali più recenti emerge che proprio sui criteri quantitativi si sono consumate le più aspre battaglie tra legislatore e comunità scientifiche e che spesso i Giudici hanno giocato contro il legislatore. Nonostante questo, tuttavia, la guerra è ancora lungi dall’essere vinta, come dimostra la persistenza di notevoli rigidità nell’attuale fisionomia dell’ASN 2.0 [5]. Mi occuperò pertanto dei principali fronti su cui è intervenuta la giurisprudenza amministrativa nell’ultimo triennio, vale a dire: a) le mediane; b) il criterio di maggioranza qualificata (4/5) richiesto per il riconoscimento dell’idoneità; c) il parametro numerico integrativo richiesto – solo nel nostro settore (Jus/07) – per il conseguimento della stessa.


3

La mediana è il minimo comune denominatore che si applica sia per la selezione dei Commissari sia per quella dei candidati. Pacifico ormai che con questo “valore soglia” sia necessario convivere, va sottolineato come le prime decisioni abbiano sostanzialmente evitato di pronunciarsi in ordine alla sua legittimità [6] dichiarando inammissibili i ricorsi perché non risultava che «i ricorrenti avessero ricevuto alcuna comunicazione di esclusione dalla procedura di abilitazione a causa del mancato superamento delle mediane» [7]. È però vero che successivamente la giurisprudenza ha tentato di apportare qualche correttivo all’utilizzo meccanico della mediana, ovvero di renderne meno automatiche le implicazioni, così da avvallarne un uso non sostitutivo ma strumentale alla valutazione. Ad esempio, per il T.A.R. Lazio, sez. III, 16 aprile 2015, n. 5640, i criteri valutativi meramente quantitativi sono da ritenersi inadeguati, essendo invece necessaria una valutazione dettagliata e calibrata: “premesso che trattasi di procedura abilitativa e non concorsuale, dunque con numero di posti non limitato né predefinito, quin­di senza confronto tra un candidato e l’altro (T.A.R. Lazio, sez. III, n. 11500 del 2014) è necessario evidenziare che gli indici correlati alle mediane, essendo a carattere quantitativo, non possono comunque assumere un ruolo decisivo ai fini dell’a­bilitazione, né il mancato superamento delle stesse mediane risultare preclusivo ai suddetti scopi, essendo preminente il giudizio di merito della Commissione sulla maturità scientifica raggiunta dagli abilitati [8]. Per contro, lo stesso T.A.R. ha rilevato come il superamento di due mediane su tre non sia compatibile con una valutazione di insufficienza dell’attività scientifica svolta: un tale giudizio corre il rischio infatti di essere contraddittorio se non sorretto da adeguata motivazione (che nel caso di specie risultava del tutto assente [9]). Resta il valore di deterrente ad excludendum del mancato superamento della me­diana [10], che attualmente ci restituisce la misura esatta dell’espropriazione di discrezionalità patita dalle Commissioni giudicatrici.


4

Se sulle mediane la giurisprudenza, pur tentandone una gestione “ammorbidita”, non è riuscita a smussare il rigido imprinting normativo, essa ha avuto tuttavia partita vinta sul criterio di maggioranza qualificata previsto dall’art. 8, comma 5, del d.P.R. n. 222/2011. La norma è stata infatti “riscritta” per effetto di più interventi del T.A.R. Lazio [11] e di una sentenza del Consiglio di Stato [12], che hanno dichiarato illegittima la disposizione nella parte in cui, ai fini dell’ASN, stabilisce che «la Commissione delibera a maggioranza dei quattro quinti dei componenti», anziché considerare sufficiente la maggioranza semplice dei voti (pari a tre). Siffatta previsione regolamentare, argomentano il T.A.R. e il Consiglio di Stato, “risulta in contrasto con le norme di legge sotto due profili: in primo luogo, in quanto un’innovazione tanto significativa e contrastante con le regole generali di funzionamento degli organi collegiali avrebbe dovuto essere esplicitamente indicata dal legislatore nei dettagliatissimi criteri che ha fornito per l’adozione del regolamento disciplinante la procedura; in secondo luogo e comunque perché la previsione di maggioranze qualificate risulta incompatibile con quella – specificamente indicata dal legislatore tra i criteri direttivi per l’adozione del regolamento (art. 16, comma 3, lettera a della legge n. 240/2010), secondo cui la Commissione deve in ogni caso (cioè sia se il giudizio è positivo sia se è negativo) rendere «un motivato giudizio fondato sulla valutazione dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche». Risulta infatti, all’evidenza, impossibile pervenire ad un congruo e motivato giudizio negativo per una Commissione a maggioranza convinta del contrario”. Secondo la predetta giurisprudenza, la conseguenza della dichiarazione di illegittimità del giudizio negativo raggiunto dalla Commissione non può che essere la diretta abilitazione del candidato, scaturendo tale effetto direttamente dalla norma regolamentare annullata in parte qua, una volta eliminato ex tunc ogni riferimento alla maggioranza dei 4/5. Ed infatti il giudizio finale abilitativo è già insito in quello in concreto deliberato dalla Commissione secondo il quorum deliberativo da considerare, oggi ma [continua ..]


5

Venendo al settore lavoristico (Ius/07), va ricordato l’ormai famoso parametro integrativo introdotto dalla Commissione in base al quale è stato valutato idoneo il (solo) candidato che avesse superato la soglia minima del punteggio di 80 su 100. La Commissione (unica fra tutte) ha certamente voluto essere più realista del re, pur se poi, invece di fornire una “attendibile valutazione analitica dei candidati” ha lasciato inspiegati i criteri concreti (vale a dire i motivi) che l’hanno guidata nel­l’as­segnazione del peso-punteggio a ciascun candidato, scivolando dal purismo dell’og­gettività all’arbitrio della misurazione. Essa avrebbe dovuto comunque collegare i numeri ai giudizi qualitativi (eccellente, buono, accettabile, limitato) indicati dalla normativa; mentre, al contrario, rispetto a tali parametri la fissazione del limite di 80 su 100 è risultata distonica. Ed infatti se la soglia minima è di 80 su 100, ove 80 sancisce il conseguimento di un livello di giudizio “buono”, ne consegue che sono reputati insufficienti il livello di giudizio “accettabile” e “tra l’accettabile e il buono”. Non stupisce perciò che la giurisprudenza abbia dichiarato «arbitraria e manifestamente incongruente la predetta soglia di 80, che ha determinato la incoerenza tra giudizi espressi e punteggi attribuiti» [14].


6

Proprio l’indicatore integrativo del punteggio, peraltro, ha consentito di far emergere con evidenza l’attribuzione ai lavori monografici di un peso marginale inferiore rispetto a quello delle altre pubblicazioni. Anche su questo (incoerenza nella mancata valutazione di prevalenza dell’opera monografica rispetto alla produzione minore) la giurisprudenza ha avuto modo di prendere una posizione netta.


7

Al di là dei numeri (ma indotto in ogni caso dal loro cattivo uso) sta quello che può considerarsi il motivo assorbente dell’annullamento dei giudizi di diniego dell’abilitazione: «l’evidente incoerenza tra il carattere positivo dei giudizi e la decisione di negare l’abilitazione» ove il carattere positivo dei giudizi deve dedursi dalla valutazione espressa in termini di accettabile. Come rileva il T.A.R. Lazio (in quasi tutte le sentenze che hanno condotto alla rivalutazione dei candidati) «secondo un costante orientamento di questa sezione (la III), il giudizio di “accettabile” non può essere ricondotto alla sfera di un giudizio negativo pieno … A conferma di tale assunto è sufficiente richiamare la classificazione dettata dal D.M. n. 76/2012 (Allegato D), il quale al numero 3 stabilisce che “le pubblicazioni di livello accettabile sono quelle a diffusione internazionale o nazionale che hanno accresciuto in qualche misura il patrimonio delle conoscenze nei settori di pertinenza” per cui si tratta di pubblicazioni comunque degne di essere considerate in modo positivo nell’ambito delle valutazioni dei candidati all’ASN».


8

Imperversa tuttora la querelle sulla classificazione delle riviste. In proposito il panorama giurisprudenziale è diversificato. Da un lato, la giurisprudenza ha ritenuto illegittimo il “criterio aggiuntivo” stabilito dalla Commissione secondo cui “la qualità delle pubblicazioni è più importante rispetto alla collocazione editoriale”. In merito il T.A.R. Lazio (sez. III-bis, 30 giugno 2015, n. 8742) ha osservato che «la suddetta motivazione non appare idonea atteso che, da un lato, si riduce ad una mera petizione di principio e dall’altro finisce per scardinare la logica sulla base della quale è stata impostata la riforma Gelmini nel senso di ancorare per quanto possibile la valutazione sull’abilitazione universitaria a criteri di carattere oggettivo» [15]. D’altro lato, sempre il T.A.R. Lazio, con ordinanza dell’8 febbraio 2013, n. 730, ha richiamato la necessità di una “motivazione adeguata e analitica” dei provvedimenti di valutazione delle Riviste ai fini della loro classificazione, la quale dovrebbe poggiare a sua volta sull’«obbligo dell’Amministrazione di procedere a riesaminare la posizione della Rivista previa partecipazione procedimentale dei rappresentanti dell’interessata, consentendo loro di depositare deduzioni scritte correlate di documentazione ed adottando all’esito nuovo provvedimento adeguatamente motivato sulle ragioni addotte dall’interessato» [16]. Interessanti gli argomenti utilizzati dal Consiglio di Stato [17] il quale ha accolto il ricorso avente ad oggetto la collocazione in classe A di una rivista (Diritto e Processo Amministrativo) che era stata ritenuta dall’ANVUR e dal MIUR “di classe B”. Secondo il Consiglio il parametro «relativo alla presenza delle Riviste oggetto di valutazione nelle maggiori banche dati nazionali e/o internazionali va inteso come riferito disgiuntivamente ai due termini. Ne consegue che il carattere di “eccellenza” di una Rivista scientifica (finalizzato alla sua collocazione in classe A) ben può essere riconosciuto sulla base della sola presenza nelle maggiori banche dati nazionali, non essendo parimenti richiesta l’indefettibile presenza in quelle internazionali; sulla medesima linea, quanto all’abstract in inglese, nessuna previsione di legge ne prevede [continua ..]


NOTE