Articoli Correlati: Pubblico impiego - Previdenza complementare - D.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 - Riscatto volontario - Imposta sui redditi
1. Il punto di partenza - 2. Le argomentazioni (convincenti) esposte - 3. Le obiezioni (equivoche) respinte - 4. Le conclusioni (deludenti) e il vulnus (presumibilmente) prodotto - 5. Le osservazioni in margine alla sentenza e gli scenari prossimi (e futuri) - NOTE
La decisione della Corte Costituzionale del 3 ottobre 2019, n. 218 è di notevole interesse, sia per quanto riguarda la pur concisa esegesi dell’art. 23, c. 6, d.lgs. n. 252/2005 e dell’art. 52, c. 2, lett. d-ter) d.P.R. n. 917/1986, sia per quanto attiene alla ricostruzione dell’evoluzione normativa della previdenza complementare dei dipendenti pubblici. Il thema decidendum converge su quell’insieme di regole del diritto tributario (e previdenziale) che ricadono in quell’area giuridica che si suole definire “diritto premiale” o, forse meglio, “promozionale” [1]. D’altra parte, è idea comunemente condivisa nel dibattito de iure condendo che alla previdenza complementare debba essere riservato un trattamento fiscale di favore [2]. Giuridicamente, la vicenda oggetto del giudizio si inquadra nella disciplina del regime tributario del riscatto della posizione individuale di un lavoratore pubblico iscritto al Fondo nazionale pensione complementare per i lavoratori della scuola. A parere della Corte è perspicuamente applicabile il più favorevole regime fiscale introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2007, per la stessa prestazione erogata ai lavoratori dipendenti del settore privato dalle forme pensionistiche complementari. In base alle circostanze emerse davanti al giudice a quo, la controversia traeva origine dal rifiuto opposto dall’Agenzia delle Entrate di rimborsare la maggiore imposta sui redditi delle persone fisiche (e delle addizionali comunali e regionali) versata sulle somme erogate, a titolo di riscatto volontario della posizione individuale, dal Fondo Pensione della scuola “Espero” al quale il lavoratore pubblico era risultato iscritto dal 16 dicembre 2009 al 30 giugno 2014. La ratio che aveva condotto il Fondo pensione ad applicare una ritenuta alla fonte sulla somma liquidata [3], ai sensi dell’art. 52 lett. d-ter) d.P.R. n. 917/1986, si basava sull’impossibilità di applicare la tassazione più favorevole, riconosciuta a favore dei lavoratori del settore privato, stante il disposto dell’art. 23 c. 6 d.lgs. n. 252/2005 a mente del quale «[…] ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si applica esclusivamente ed integralmente la [continua ..]
La pronuncia in commento all’invero non si allontana dalle conclusioni cui erano giunti i primi commentatori all’alba dell’emanazione della nuova disciplina. All’indomani del d.lgs. n. 252/2005, infatti, era stato osservato [11] che la scelta adottata dal Legislatore del 2005 si presentava non solo discutibile per evidenti ragioni di parificazione nel grado di copertura pensionistica, ma anche incomprensibile ove fosse stata raffrontata con le esigenze di parità di trattamento connesse alle nuove regole introdotte. Nella specie, si osservava che le conseguenti diversità di discipline avrebbero determinato situazioni di disparità di trattamento rilevanti ai sensi degli artt. 3 e 53 Cost., nonché avrebbero rappresentato la prova di come il Legislatore non avesse tenuto conto della direzione diametralmente opposta seguita fin dalla metà degli anni Novanta nel campo della previdenza obbligatoria. D’altra parte, si rilevava che era proprio il principio di uguaglianza a vietare che la legge realizzasse una disciplina che, direttamente o indirettamente, dava vita ad una non giustificata disparità di trattamento delle situazioni giuridiche, indipendentemente dalla natura e dalla qualificazione dei soggetti ai quali queste venivano imputate (cfr. Corte cost. n. 25/1966) [12]. La sentenza n. 218/2019, condividendo il presupposto interpretativo dell’ordinanza di promovimento, accoglie analiticamente i dubbi di costituzionalità da essa proposti. Segnatamente la censura di violazione del principio di eguaglianza, sollevata per la disparità di trattamento operata dalla norma impugnata, è accolta dalla Corte con un ragionamento che si muove tra diversi passaggi. Il primo si concreta nell’affermazione secondo cui il regime tributario del riscatto volontario previsto dal d.lgs. n. 252/2005 si inquadra «nell’ambito delle agevolazioni tributarie non strutturali dirette in questo caso, a incentivare lo sviluppo della previdenza complementare». Il Giudice delle Leggi richiama sul punto «il noto collegamento funzionale tra previdenza complementare e obbligatoria» che legittima la scelta legislativa di introdurre un regime fiscale incentivante, in considerazione della sua connessione con l’attuazione del sistema di cui all’art. 38 Cost. [13]. Il pur conciso richiamo al predetto collegamento funzionale [continua ..]
Ricostruendo il quadro normativo della previdenza complementare per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 c. 2 d.lgs. n. 165/2001, la pronuncia in commento si confronta con la posizione sostenuta dall’Avvocatura generale dello Stato tanto in relazione ai profili specifici della previdenza complementare del settore pubblico, che si prestano a non poche difficoltà interpretative, quanto ai plurimi aspetti nei quali si risolve la corretta applicazione della norma censurata e di cui, sia pure in sintesi, è opportuno dar conto. Si è così osservato, in primo luogo, che la stabilità del rapporto di impiego, cui sarebbe caratterizzato il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, non «è carattere indefettibile ed esclusivo del settore pubblico e, comunque, non è tale da giustificare una disomogeneità del trattamento fiscale»; peraltro, «la disciplina tributaria rimane diversa anche nel caso in cui l’aderente sia un dipendente pubblico assunto a tempo determinato». È dunque da escludere che si possa giustificare su tale assunto la presenza di una duplice disciplina del trattamento tributario del riscatto, dal momento che la prestazione sottoposta a tassazione è composta, sia per il lavoratore pubblico sia per quello privato, «da contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro, e dal trattamento di fine rapporto maturato». Semmai, la durata del rapporto di lavoro e le garanzie di stabilità sono aspetti rilevanti non tanto ai fini della disciplina tributaria applicabile, quanto del complessivo funzionamento della previdenza complementare che esige, aldilà della natura del rapporto di lavoro, la continuità di conferimenti e la gestione a capitalizzazione [22]. Non è accolta la posizione secondo cui la previsione di un trattamento tributario più sfavorevole troverebbe fondamento nella corresponsione di un maggiore importo dei trattamenti pensionistici obbligatori erogati ai dipendenti pubblici di circa «il doppio di quello percepiti dai dipendenti privati» [23]. Una conclusione che confonde la natura e la finalità delle differenti prestazioni erogate; che sconta l’assenza di un collegamento tra sistema di calcolo del trattamento pensionistico obbligatorio e computo delle prestazioni di previdenza complementare; che, [continua ..]
La pronuncia rivela una sorta di ambiguità strutturale, nel senso che alla convinta (e convincente) perentorietà delle argomentazioni da cui muove il Giudice delle Leggi e alle precise (e pertinenti) deduzioni alle obiezioni formulate, non corrisponde una perentorietà altrettanto decisa (e decisiva) delle conclusioni. La Corte Costituzionale circoscrive la disparità di trattamento (considerazioni di diritto 4.2.1 e 9) al solo riscatto volontario, non ritenendo invece di estendere la questione di legittimità all’intero elenco delle prestazioni sottoposte alla disciplina tributaria di cui al previgente d.lgs. n. 124/1993 [25]. Ed è questo il punto di arrivo di una pronuncia la quale, disvelate le disparità di trattamento cui soggiace il lavoratore pubblico – i costituzionalisti parlerebbero di “manifesto estetico” – approda ad un risultato, senza dubbio, deludente proprio perché, riferendosi ad una sola prestazione, lascia le altre (ad esempio, il riscatto per cause diverse) da assoggettare alla maggiore imposta per il periodo antecedente al 31 dicembre 2017 [26]. Sicché, pensando di risolvere un caso di disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati, finisce per crearne uno ulteriore, questa volta però, tra prestazioni fruibili dallo stesso dipendente pubblico. Se invece la Corte avesse tratto le conseguenze dai pilastri argomentativi su cui ha fondato la propria pronuncia, l’esito sarebbe stato presumibilmente (e inevitabilmente) diverso.
Il risultato di delimitare la questione di legittimità costituzionale al solo regime fiscale del riscatto volontario e non anche al più generale (e sfavorevole) trattamento tributario cui soggiace il dipendente pubblico [27], ridimensiona gli effetti della pronuncia, ma non anche le argomentazioni alla base della decisione. Ad essa deve comunque riconoscersi il merito di avere esteso alla previdenza complementare dei lavoratori alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche le medesime conclusioni cui la stessa Corte negli anni era giunta con riferimento al sistema di secondo pilastro dei lavoratori privati. Il richiamo al collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e complementare (e del risparmio previdenziale) e alla legittima presenza di disposizioni agevolative anche nella materia della previdenza complementare nel pubblico impiego paiono fugare ogni dubbio sulla natura di una previdenza di secondo pilastro che non si presenta affatto differente rispetto a quella privata sotto il profilo della comune matrice previdenziale. Resta allora da domandarsi se la pronuncia possa costituire terreno fertile per una più matura riflessione ai fini di una ridefinizione del sistema complessivo della previdenza complementare nel pubblico impiego, aldilà dell’omogeneizzazione dei profili tributari delle prestazioni nei quali pur si ravvisano le differenze più rilevanti e sulle quali si era significativamente concentrata l’attenzione del Legislatore delegato, chiamato a ridefinire la disciplina fiscale della previdenza complementare. D’altronde, ancora oggi si riscontrano differenze sul piano della disciplina sostanziale tra lavoratori pubblici e privati (ad esempio, sul regime delle anticipazioni, sul riscatto, sulle prestazioni, sul conferimento tacito del Trattamento di Fine Rapporto) [28], rispetto alle quali il Legislatore per ora gestisce, coltivando progetti e stabilendo criteri di regolamentazione. Così, alle già riferite modifiche sul piano fiscale, ha demandato alle parti istitutive dei fondi di previdenza complementare, fermo restando quanto previsto dall’art. 2, d.P.C.M. 20 dicembre 1999, la regolamentazione inerente alle modalità di espressione della volontà di adesione agli stessi, anche mediante forme di “silenzio-assenso”, e la relativa disciplina di “recesso del lavoratore” nei confronti del personale assunto [continua ..]