Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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La disciplina della incompatibilità nel lavoro pubblico: uno sguardo d'insieme * (di Alberto Tampieri, Professore ordinario di Diritto del lavoro nell’Università di Modena e Reggio Emilia.)


Lo scritto tratta della complessa disciplina delle incompatibilità e del conferimento di incarichi extra-lavorativi nell’ambito del lavoro pubblico privatizzato, muovendo dalla disciplina di carattere generale contenuta nell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 e passando poi all’esame delle discipline specifiche per alcune categorie di dipendenti pubblici.

The paper deals with the complex regulation of incompatibility and outside-work tasks within the discipline of the “privatized” work in the public sector. Moving from the general regulation provided by article no. 53 of the Legislative Decree no. 165/2001, the author analyses the specific disciplines for some categories of public employees.

SOMMARIO:

Parte I – La regolamentazione di carattere generale - 2. Il principio di esclusività del rapporto di lavoro pubblico e le eccezioni - 3. L’assunzione di cariche in società lucrative e in cooperative. Le banche di credito cooperativo e le banche popolari - 4. L’esercizio di attività libero-professionale - 5. Incompatibilità e part-time - 6. Gli incarichi vietati e quelli consentiti al personale a tempo pieno - 7. Segue: gli incarichi consentiti senza autorizzazione - 8. Il procedimento di autorizzazione - 9. Le conseguenze della violazione dell’obbligo di esclusività - 10. Segue: le ricadute sul piano economico e sulla validità dell’incarico extralavorativo - 11. Gli obblighi di comunicazione e la pubblicità degli incarichi extralavorativi - 12. Questioni di giurisdizione - NOTE


Parte I – La regolamentazione di carattere generale

1. L’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 e la disciplina generale delle incompatibilità Il tema delle incompatibilità e del divieto di cumulo di incarichi per i dipendenti pubblici è quanto mai complesso e articolato, ed è caratterizzato da una stratificazione di fonti normative, regolamentari e contrattuali che spesso si sovrappongono e si intersecano tra di loro [1]. A seguito della privatizzazione del pubblico impiego, la norma di riferimento in materia è l’art. 53 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, modificato di recente prima dalla l. 6 novembre 2012, n. 190 – in tema di prevenzione e repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione – poi dal d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75, attuativo della legge “Madia”, e infine dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76 sul­l’in­novazione digitale. L’art. 53, a sua volta, rinvia alla previgente disciplina contenuta nel Testo unico degli impiegati civili dello Stato – d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 – facendo tuttavia salve alcune discipline più specifiche e settoriali, dettate, ad esempio, per il personale della scuola e dei conservatori di musica, per i dipendenti delle fondazioni liriche e delle Agenzie fiscali, per il personale medico del Servizio sanitario nazionale, per i magistrati e gli avvocati dello Stato. Di esse si dirà brevemente in seguito (infra, par. 13 ss.). Accanto ad un regime di carattere generale, applicabile a tutti i dipendenti pubblici [2], è stato dunque mantenuto in vita un quadro normativo parallelo e speciale per alcune categorie di dipendenti, evidentemente dotate – nella visione del legislatore – di caratteristiche tali da giustificare una disciplina settoriale e, in alcuni casi, ampiamente derogatoria o comunque più «flessibile» [3]. Secondo la giurisprudenza, l’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 «attiene alla sussistenza di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità preclusivi della stessa costituzione del rapporto di lavoro, onde i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici viene sottratta alla contrattazione collettiva e riservata alla legge; con la conseguenza che in tema di incompatibilità (…) l’attività datoriale, pur restando regolata dalla specifica disciplina disposta ex lege, non viene più ad esplicarsi [continua ..]


2. Il principio di esclusività del rapporto di lavoro pubblico e le eccezioni

Come si è anticipato, per effetto del rinvio contenuto nell’art. 53, c. 1, del d.lgs. n. 165/2001 il sistema generale delle incompatibilità per i pubblici dipendenti è ancora quello tracciato negli artt. 60 ss. del d.P.R. 10 giugno 1957, n. 3. Esso è fondato sul principio di esclusività (art. 98, c. 1, Cost.), che consiste nel dovere, per il pubblico dipendente, di dedicare all’ufficio (inteso in senso lato come impiego pubblico) l’intera attività lavorativa, in vista del miglior rendimento a favore del­l’am­ministrazione datrice di lavoro [9]. Se così è, poco comprensibile – non tanto per la ratio della norma, quanto per la sua collocazione sistematica – è l’aggiunta di un c. 1-bis all’art. 53, ad opera del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, secondo il quale non possono essere conferiti «incarichi di direzione di strutture deputate alla gestione del personale» a persone che ricoprano, o abbiano ricoperto negli ultimi due anni, cariche sindacali o politiche ovvero abbiano avuto, sempre negli ultimi due anni, «rapporti continuativi di collaborazione o di consulenza» con le predette organizzazioni sindacali o politiche. La connessione di tale norma con la materia delle incompatibilità è difficilmente rintracciabile, poiché un incarico dirigenziale di tal genere potrebbe essere conferito a un pubblico dipendente solo a determinate condizioni, e in ogni caso non come incarico extra-lavorativo, almeno nel senso in cui lo intende l’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001. Il dipendente, infatti, per poter assumere l’incarico, dovrebbe chiedere l’aspettativa senza assegni ai sensi dell’art. 19, c. 6, d.lgs. n. 165/2001, ovvero ai sensi dell’art. 110 del Testo unico degli enti locali (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) [10]. Pertanto il c. 1-bis avrebbe trovato più idonea collocazione appunto nel contesto dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, in tema di conferimento di incarichi dirigenziali. Le norme del t.u. n. 3/1957 rimaste in vigore prevedono, nel dettaglio, l’in­com­patibilità della posizione di dipendente pubblico con la titolarità di altro impiego pubblico o privato [11]; con l’assunzione di cariche gestionali in società lucrative e con l’esercizio dell’industria e del commercio [12], [continua ..]


3. L’assunzione di cariche in società lucrative e in cooperative. Le banche di credito cooperativo e le banche popolari

Una questione assai dibattuta, che rientra in senso lato nella incompatibilità del pubblico dipendente con l’esercizio dell’industria e del commercio, riguarda l’as­sun­zione di cariche nell’ambito di società, ed in particolare di cooperative che esercitano l’attività bancaria. In linea generale, sulla base del tenore letterale delle norme del Testo unico del 1957 e delle successive interpretazioni ministeriali [20], deve ritenersi compatibile con il rapporto di lavoro pubblico la posizione di semplice socio di società lucrativa, restando invece preclusa al pubblico dipendente l’assegnazione di responsabilità al­l’in­terno della compagine societaria, come ad esempio quelle connesse alla carica di am­mini­stratore unico o delegato, o di presidente del consiglio di amministrazione dell’ente. Il contenzioso giurisprudenziale si è soprattutto concentrato (com’è comprensibile, stante la rilevanza dell’incarico) sulla possibilità o meno che il dipendente pubblico assuma cariche societarie all’interno di banche di credito cooperativo (già casse rurali e artigiane), disciplinate dagli artt. 33 ss. del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385), ovvero nell’ambito delle banche popolari (art. 29 ss. del medesimo testo unico) alle quali pure viene ri­conosciuta natura cooperativa [21]. Un primo orientamento ha rimarcato il fatto che i suddetti istituti di credito, pur in presenza di una struttura cooperativa, svolgano anche attività sostanzialmente lucrativa [22]: da ciò viene fatta derivare una incompatibilità tra la posizione di dipendente pubblico e l’assunzione di cariche sociali all’interno delle casse [23]. Questa opinione si estende agli incarichi nella banca popolare, in quanto società a fini di lucro – al punto che non si potrebbe riconoscere nella medesima una cooperativa in senso proprio – e come tale rientrante nel contesto delle incompatibilità di cui al­l’art. 60 del t.u. n. 3/1957. Conseguentemente è stato ritenuto «assolutamente legittimo» il provvedimento di revoca dell’incarico a suo tempo conferito a un pubblico dipendente presso una banca popolare [24]. Altro orientamento giurisprudenziale più malleabile [continua ..]


4. L’esercizio di attività libero-professionale

Tra le attività precluse, in linea generale, al dipendente pubblico per effetto delle norme del t.u. n. 3/1957 vi è poi l’esercizio di una libera professione regolamentata. Anche in questo caso vige infatti il principio generale – ma, come si vedrà, ancora una volta non scevro da eccezioni – in base al quale l’impiegato deve dedicare all’ufficio «tutta la propria capacità lavorativa, intellettuale e materiale» [29]. Specularmente, occorre tener conto delle diverse leggi professionali che a loro volta vietano l’iscrizione all’albo del pubblico dipendente. Tali normative di settore dovrebbero, in realtà, essere state superate dalla disciplina generale in materia di part-time pubblico (art. 1, c. 58 ss., della l. n. 662/1996), che come si dirà a breve consentono, a certe condizioni, l’esercizio della libera professione a dipendenti che abbiano ottenuto la riduzione dell’orario settimanale di lavoro; ciò nondimeno, vi sono state notevoli resistenze da parte degli ordini professionali, che in un caso hanno portato all’emanazione di una specifica deroga alla l.n. 662/1996, in tema di iscrizione all’albo degli avvocati; quest’ultima è infatti preclusa anche ai dipendenti a part-time in base alla controversa l. 25 novembre 2003, n. 339, più volte sottoposta all’attenzione della Corte costituzionale, che tuttavia l’ha sempre avallata (v. più ampiamente infra, par. 5) [30]. La incompatibilità tra pubblico impiego e libera professione ha più volte sollecitato la giurisprudenza, che si è pronunciata, ad esempio, con riferimento ai dipendenti delle aziende sanitarie e in relazione – di volta in volta – all’iscrizione all’albo professionale degli ingegneri [31], dei periti industriali [32], dei geometri [33]. In proposito, nel riaffermare l’incompatibilità con lo status di pubblico dipendente a tempo pieno, è stata ritenuta irrilevante la circostanza che la normativa concorsuale per l’accesso nei ruoli dell’amministrazione indichi come specifico requisito di ammissione alle prove di esame l’iscrizione all’albo professionale, essendo comunque chiaramente ricavabile dalla legge l’obbligatorietà della cancellazione dall’albo, una volta perfezionata [continua ..]


5. Incompatibilità e part-time

Come si è anticipato, forse la più consistente e anche interessante fattispecie derogatoria, rispetto al generale divieto di incarichi e attività extralavorative per i pubblici dipendenti, riguarda l’opzione per la prestazione lavorativa a part-time [40]. La disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale del pubblico dipendente è contenuta nella normativa generale di cui al d.lgs. n. 81/2015, il quale tuttavia, all’art. 12, richiama e fa salva la disciplina speciale di settore del pubblico impiego. In questa sede, l’analisi della materia de qua riguarderà solamente il profilo delle incompatibilità, che viene appunto derogato, in alcuni casi, proprio per i dipendenti che abbiano scelto di trasformare il loro rapporto di lavoro da full-time a part-time, ovvero (il che è lo stesso) che siano risultati vincitori di uno specifico concorso per posti a tempo parziale. Il quadro normativo di riferimento per il part-time pubblico è tuttora – nonostante le modifiche legislative di cui si dirà subito – contenuto nell’art. 1, c. 56 ss. della l. n. 662/1996, il quale consente al pubblico dipendente con rapporto di lavoro a tempo parziale, che riduca l’entità della prestazione lavorativa in misura non superiore al 50% dell’orario normale di lavoro, lo svolgimento di una seconda attività di lavoro subordinato o di natura libero-professionale [41]. Tuttavia, alcune sostanziali novità, introdotte dal d.l. n. 112/2008 – poi convertito dalla l. n. 133/2008 – hanno fatto venir meno la regola dell’automatismo che originariamente caratterizzava la trasformazione del rapporto di lavoro a seguito della richiesta del dipendente, con l’unico limite derivante da eventuali clausole collettive di contingentamento [42]. Infatti, l’attuale testo dell’art. 1, c. 58, della l. n. 662/1996 conferisce all’amministrazione un’ampia discrezionalità in materia di accoglimento o meno dell’istanza del dipendente, prevedendo che la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale possa «essere concessa dall’ammini­stra­zione» entro sessanta giorni dalla domanda inoltrata dall’inte­res­­sato. Entro il predetto termine, la trasformazione viene negata dall’ente di appartenenza, in caso di sussistenza di conflitto di [continua ..]


6. Gli incarichi vietati e quelli consentiti al personale a tempo pieno

Tornando alla norma generale sull’incompatibilità contenuta nel d.lgs. n. 165/2001, deve rilevarsi in primo luogo come l’art. 53, c. 2, preveda, quale principio di carattere generale, che le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati. Al comma in questione si ricollega espressamente il successivo c. 3-bis del medesimo art. 53, introdotto dalla l. n. 190/2012; esso demanda, “ai fini previsti dal comma 2”, ad appositi decreti interministeriali l’indi­vi­duazione degli incarichi vietati ai dipendenti pubblici, secondo criteri differenziati in rapporto alle diverse qualifiche e ruoli professionali. Vi è però un’ipotesi specifica, legislativamente prevista, di divieto di assunzione di incarichi, ed è quella prevista dal c. 16-ter dell’art. 53 del decreto n. 165/2001. Esso vieta al pubblico dipendente, che negli ultimi tre anni di servizio abbia esercitato poteri autoritativi o negoziali nei confronti di soggetti privati, di svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di impiego, attività lavorativa o professionale presso i medesimi soggetti. I relativi contratti o incarichi, stipulati in violazione del divieto, sono nulli e comportano il divieto, per i soggetti privati contraenti o conferenti l’incarico, di contrattare con la pubblica amministrazione per i successivi tre anni; i compensi eventualmente percepiti e accertati, riferiti ai suddetti contratti. Il comma in esame, nella prospettiva della legge “anticorruzione” che l’ha introdotto (la citata l. n. 190/2012), non tende, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, ad evitare conflitti di interessi, posto che esso si riferisce ad un periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro; nemmeno la ratio può essere quella di evitare lo svolgimento di attività di tipo concorrenziale da parte del pubblico funzionario, sul modello (pattizio) del divieto “postumo” di concorrenza di cui all’art. 2125 c.c. Anzi, l’art. 53, c. 16-ter non è nemmeno, in senso proprio, una previsione sull’incompatibilità e il cumulo di incarichi: si tratta in realtà di una norma di prevenzione contro possibili illegalità, [continua ..]


7. Segue: gli incarichi consentiti senza autorizzazione

Il c. 6 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, da ultimo modificato dal d.l. n. 76/2020, esclude dal generale divieto di assunzione di incarichi extra-lavorativi retribuiti i compensi (e le relative prestazioni) derivanti al dipendente pubblico, sia pure a tempo pieno, dall’esercizio di talune attività, considerate a priori consentite senza necessità di previa autorizzazione. Si tratta della collaborazione del dipendente a giornali, riviste, enciclopedie o simili; dell’utilizzazione a fini economici di opere dell’ingegno o di invenzioni industriali da parte dell’autore o inventore; della partecipazione a convegni e seminari; degli incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso di spese documentate; di incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente viene posto in aspettativa, comando o fuori ruolo, ovvero degli incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti distaccati o collocati in aspettativa non retribuita, e infine delle attività formative dirette ai dipendenti della pubblica amministrazione, nonché di docenza e di ricerca scientifica. È altresì escluso l’incarico per il quale sia previsto il solo rimborso delle spese documentate. Del resto, anche in via generale, e nel lavoro privato, il rimborso spese non entra a far parte della nozione di retribuzione, prevista dalla legge a fini specifici (cfr. ad esempio l’art. 2120 c.c.). Il d.l. 31 agosto 2013, n. 101, convertito dalla l. 30 ottobre 2013, n. 125, intervenendo sul c. 6 dell’art. 53, ha specificato che l’eventuale adozione, da parte delle amministrazioni, di atti o provvedimenti “comunque denominati, regolamentari e amministrativi”, in contrasto con le previsioni di cui al predetto c. 6, comporta la nullità degli atti medesimi. L’espressa limitazione della sanzione della nullità, appunto, al contrasto con “il presente comma” (e cioè con il c. 6), significa, a quanto pare, che la violazione potrebbe essere integrata da un eventuale regolamento – o atto amministrativo – che consentisse lo svolgimento di incarichi retribuiti senza preventiva autorizzazione diversi ed ulteriori rispetto a quelli elencati nel c. 6 dell’art. 53. Al di fuori della previsione contenuta nell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, il divieto posto dall’art. 60 del d.P.R. n. 3/1957 è stato ritenuto inapplicabile [continua ..]


8. Il procedimento di autorizzazione

Il divieto, per le amministrazioni, di assegnare ai propri dipendenti a tempo pieno incarichi extralavorativi che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative vale anche per il conferimento di incarichi «esterni», e cioè a dipendenti di altri enti pubblici. Questi ultimi necessitano di specifica e preventiva autorizzazione, pena la nullità dell’incarico [51], l’avvio della responsabilità disciplinare del dirigente e l’incameramento del corrispettivo da parte dell’ammini­stra­zione di appartenenza del dipendente, mediante versamento a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore (art. 53, c. 7 e 8). L’autorizzazione deve essere nuovamente richiesta anche qualora l’amministrazione abbia, in precedenza, autorizzato incarichi similari, per i quali il dipendente abbia regolarmente comunicato l’importo degli emolumenti percepiti [52]. L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente “indebito percettore” configura un’ipotesi legalmente prevista di responsabilità per danno erariale, come tale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti (così l’art. 53, c. 7-bis, introdotto dalla l. n. 190/2012: in argomento si v. anche il successivo par. 12) [53]. La legge, quasi per prevenire il sospetto di possibili favoritismi o disparità di trattamento, si premura di precisare che il conferimento dell’incarico da parte dell’amministrazione di appartenenza, ovvero l’autorizzazione allo svolgimento di incarichi provenienti da soggetti diversi, devono avvenire, a cura degli organi competenti, secondo «criteri oggettivi e predeterminati», che tengano conto della specifica professionalità dell’interessato, e che, al contempo, evitino il realizzarsi di situazioni di incompatibilità o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, tali da pregiudicare l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente incaricato (art. 53, c. 5, come modificato dalla l. n. 190/2012). La finalità dichiarata è quindi quella di evitare incompatibilità «sia di diritto che di fatto» nell’interesse del buon andamento dell’amministrazione (art. 53, c. 5). Il procedimento di richiesta di autorizzazione dello svolgimento dell’incarico, come delineato nell’art. [continua ..]


9. Le conseguenze della violazione dell’obbligo di esclusività

Ai sensi dell’art. 63, c. 1, del t.u. n. 3/1957, espressamente richiamato, come si è detto, dall’art. 53, c. 1, del d.lgs. n. 165/2001, in presenza di un’ac­certata incompatibilità il dipendente viene diffidato a far cessare la situazione in questione; l’eventuale ottemperanza alla diffida – ma anche il mancato esercizio del potere di diffida [59] – non impedisce peraltro l’esercizio dell’azione disciplinare (c. 2). Dopo l’inutile decorso di quindici giorni dalla diffida, senza che l’in­com­patibilità sia stata fatta cessare, il dipendente incorre nel provvedimento di decadenza dall’impiego [60]. Il problema che si è posto all’attenzione della giurisprudenza e della dottrina, fin da subito, è evidentemente quello della sopravvivenza dell’istituto, tipicamente pubblicistico, della decadenza a seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico e della conseguente estensione della disciplina dei licenziamenti indivi­du­a­li. In proposito, una parte della giurisprudenza ha ritenuto che l’istituto della decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli artt. 60 ss. del t.u. n. 3/1957, sia tuttora applicabile ai dipendenti pubblici «contrat­tualizzati», in forza dell’espressa previsione contenuta nell’art. 53, c. 1, del decreto n. 165/2001. In particolare, concernendo la materia delle incompatibilità, detto istituto sarebbe estraneo all’ambito della responsabilità disciplinare di cui agli artt. 55 ss. dello stesso decreto (peraltro ampiamente riformulati dal decreto n. 150/2009) [61]. La sostanziale diversità tra i due provvedimenti in gioco (decadenza o licenziamento disciplinare) sarebbe strutturale al punto che, addirittura, secondo una risalente giurisprudenza – peraltro formatasi sull’art. 60 del t.u. del 1957 – non sarebbe neppure necessaria la motivazione per il provvedimento di decadenza dall’impiego [62]. In dottrina è stato osservato che la cessazione del rapporto di impiego «scatu­risce dall’accertamento della perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati ab origine, avrebbero precluso la stessa instaurazione del rapporto» [63]. Ciò non impedisce comunque di notare l’incongru­enza di una [continua ..]


10. Segue: le ricadute sul piano economico e sulla validità dell’incarico extralavorativo

Come si è visto (supra, par. 7), in base alle modifiche introdotte dal d.l. n. 101/2013, l’eventuale adozione, da parte delle amministrazioni, di atti o provvedimenti “comunque denominati, regolamentari e amministrativi”, in contrasto con le previsioni di cui al c. 6 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, comporta la nullità degli atti medesimi. In ogni caso, secondo il successivo c. 8, il conferimento di incarichi in violazione dell’art. 53 costituisce infrazione disciplinare a carico del funzionario o dirigente responsabile del procedimento, mentre, sul piano economico, come pure si è detto, il relativo compenso viene introitato dall’amministrazione di appartenenza [73]. L’autonomo rilievo che la norma assegna alla responsabilità disciplinare ha indotto la giurisprudenza a escludere, giustamente – stante la mancanza di una procedura di contraddittorio – che l’obbligo di versamento del compenso dovuto per le prestazioni svolte in violazione del divieto di legge sia configurabile, di per sé, quale sanzione disciplinare. Non a caso, l’obbligo in questione è imposto prima di tutto al soggetto erogante, estraneo al rapporto di lavoro, e solo in mancanza al dipendente percettore. Si conclude pertanto, coerentemente, che la richiesta di versamento dei compensi illegittimamente corrisposti e percepiti non necessiti di una previa autonoma contestazione disciplinare da parte dell’ente di appartenenza [74]. Nel caso in cui il soggetto che abbia conferito l’incarico in violazione del­l’art. 53 sia un privato o un ente pubblico economico, si applica poi la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 6, c. 1, del d.l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito dalla l. 28 mag­gio 1997, n. 140, consistente nel pagamento del doppio degli emolumenti corrisposti, sotto qualsiasi forma, al pubblico dipendente, ferme restando le eventuali e ulteriori sanzioni per le violazioni fiscali o contributive. All’accerta­men­to delle violazioni e all’irrogazione delle sanzioni si provvede per il tramite della Guardia di finanza (art. 53, c. 9), che tuttavia non ha una competenza esclusiva [75]. Un’importante precisazione giurisprudenziale concerne le ricadute della violazione del dovere di esclusività sul piano della validità dell’incarico conferito al pubblico dipendente. È costante, in [continua ..]


11. Gli obblighi di comunicazione e la pubblicità degli incarichi extralavorativi

L’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 predispone, ai fini della trasparenza ma anche dell’accertamento di eventuali violazioni, un complesso sistema di comunicazioni e informazioni, che deve essere coordinato con le norme sulla pubblicità degli incarichi e segnatamente con quelle contenute nel d.lgs. n. 150/2009 [79]. I soggetti pubblici o privati che hanno conferito incarichi a dipendenti pubblici sono tenuti a comunicare, entro quindici giorni dall’erogazione del compen­so, alle amministrazioni di appartenenza i compensi erogati ai dipendenti pub­blici (art. 53, c. 11). Interessante, in proposito, è la precisazione giurisprudenziale secondo la quale l’infrazione di omessa comunicazione all’ammini­stra­zione di appartenenza, da parte del soggetto privato conferente l’incarico a un pubblico dipendente, dei compensi erogati, deve ritenersi commessa, in conformità a quanto avviene per i reati di omessa comunicazione, nel luogo dove sarebbe dovuta pervenire la comunicazione medesima, e cioè presso la sede del­l’am­mi­ni­stra­zione [80]. L’art. 53, c. 14, del d.lgs. n. 165/2001 prevede poi un onere di trasmissione in via telematica, al Dipartimento della Funzione Pubblica, da parte delle pubbliche amministrazioni interessate, di tutti i dati di cui agli artt. 15 e 18 del d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 (disciplina sugli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle P.A.), relativi agli incarichi conferiti a dipendenti pubblici. [81] Il complesso sistema di trasmissione dei dati, mirato al correlativo controllo ex post, viene dunque affidato al Dipartimento della funzione pubblica, il quale può avvalersi a tal fine dei servizi ispettivi dell’amministrazione delle finanze e della Guardia di finanza [82]. Ai sensi dell’art. 53, c. 12, del d.lgs. n. 165/2001, le amministrazioni sono obbligate a comunicare al Dipartimento della funzione pubblica, in via telematica, entro quindici giorni, l’elenco degli incarichi conferiti o autorizzati, anche a titolo gratuito, ai propri dipendenti, con l’indicazione dell’oggetto e della durata dell’incarico e dell’eventuale compenso lordo. Le amministrazioni devono poi comunicare tempestivamente alla Funzione Pub­blica, per ciascuno dei propri dipendenti, distintamente per ogni incarico conferito o autorizzato [continua ..]


12. Questioni di giurisdizione

In materia di conferimento di incarichi extra-lavorativi sono poi insorte, sebbene marginalmente, alcune questioni di giurisdizione. Ad esempio si è sostenuto – ma ante privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico – che le controversie inerenti alla spettanza del compenso per attività libero-professionali, svolte da un dipendente (non medico) di un’azienda sanitaria in favore dell’amministrazione di appartenenza, siano assoggettate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sulla base dell’art. 60 del t.u. n. 3/1957 [88]. Dopo l’entrata in vigore e il consolidamento del passaggio della giurisdizione del giudice ordinario delle controversie di lavoro dei dipendenti pubblici (art. 63, d.lgs. n. 165/2001) una tale posizione non sarebbe più sostenibile. E infatti si è giustamente detto che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario «la controversia concernente l’autorizzazione all’assunzione di incarichi amministrativi presso enti o cariche sociali in società di diritto privato» da parte del pubblico dipendente [89]. Più dibattuta è la questione relativa alla giurisdizione – ordinaria o contabile – in materia di obblighi di versamento del compenso illegittimamente percepito dal pub­blico dipendente che abbia svolto attività incompatibili. Secondo il più recente o­rien­tamento, appartiene alla cognizione del giudice ordinario la controversia avente a oggetto il pagamento delle somme percepite dal pubblico dipendente nello svolgimento di un incarico non preventivamente autorizzato, e ciò “anche dopo l’in­serimento, nel d.lgs. n. 165/2001, art. 53, del c. 7-bis, attesa la natura sanzionatoria dell’obbligo di versamento previsto dal c. 7 cit., che prescinde dalla sussistenza di specifici profili di danno richiesti per la giurisdizione del giudice contabile” [90]: vi è infatti “assoluta autonomia” tra i giudizi civile e contabile. Ciò vale anche nel caso in cui la pubblica amministrazione abbia chiesto il pagamento di dette somme in via riconvenzionale, nel giudizio promosso dal dipendente di impugnazione del licenziamento disciplinare irrogato per violazione della disciplina della incompatibilità [91]. Infine, quanto al profilo sanzionatorio, si è sostenuto in giurisprudenza che sussista la [continua ..]


NOTE