Con la sentenza n. 28928/2019 la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui la competenza del Dirigente della struttura cui appartiene il dipendente o dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari ed i termini da rispettare nell’ambito del procedimento disciplinare a carico del dipendente pubblico contrattualizzato, si definiscono esclusivamente sulla base delle sanzioni edittali massime stabilite per i fatti contestati ovvero della massima sanzione irrogabile, in caso di addebiti non tipizzati, e non sulla base della misura che la P.A. possa prevedere di irrogare, né è ragione di invalidità la circostanza che l’U.P.D. applichi una sanzione inferiore a quella che ha costituito il discrimine di tale competenza, qualora ciò sia conseguenza della necessaria proporzionalità rispetto ai fatti addebitati.
With sentence no. 28928/2019 the Supreme Court reaffirmed the principle according to which the competence of the Manager of the structure to which the employee belongs or of the Office for disciplinary proceedings and the terms to be respected in the disciplinary proceedings of contracted public employees, are defined exclusively on the basis of the maximum legal sanctions established for the disputed facts or the maximum sanction that can be imposed, in the case of non-typed charges, and not based on the measure that the PA may expect to impose. The circumstance that the UPD, in which the procedure is based in the above terms, using the entire edictal margin, applies a penalty lower than that which constituted the distinction of such competence, cannot be grounds for invalidity, if this is a consequence of the necessary proportionality with respect to the alleged facts.
Keywords: public sector – disciplinary sanctions – terms
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1. L’art. 55 bis, d.lgs. n. 165/2001 e le disposizioni in materia di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego - 2. Termini e competenza da determinare in relazione alla sanzione massima astrattamente prevista per il fatto contestato - 3. La natura ordinatoria dei termini cd. endoprocedimentali - 4. L’(in)ammissibilità del “mutamento” dell’incolpazione - 5. Considerazioni conclusive - NOTE
In materia di pubblico impiego, le forme ed i termini del procedimento disciplinare prevedono la c.d. struttura tripartita del procedimento disciplinare. Essi sono infatti disciplinati dall’art. 55 bis, d.lgs. 165/2001 [1] secondo cui, nella precedente formulazione, applicabile, come nel caso di specie, a tutte le procedure avviate prima del 22 giugno 2017, data di entrata in vigore delle modifiche apportate dall’art. 13, co. 1, d.lgs. n. 75/2017, per le infrazioni punibili con sanzioni più gravi rispetto alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni, la competenza del procedimento spetta all’UPD, che contesta l’addebito al dipendente e comunque, non oltre 40 giorni dalla segnalazione, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento entro 120 giorni dalla contestazione dell’addebito. Il c. 4 di tale disposizione prevede il raddoppio dei termini della procedura prevista per le infrazioni di minore gravità, con la precisazione che il termine per la contestazione dell’addebito decorre dalla data in cui l’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari ha ricevuto gli atti ovvero ha altrimenti acquisito notizia dell’infrazione ed il termine per la conclusione del procedimento decorre dalla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora. Uno dei temi sicuramente più ricorrenti in giurisprudenza con riferimento alle controversie in materia disciplinare è quello della tempestività dell’azione disciplinare, del rispetto dei termini e quindi della decadenza o meno della P.A. dall’esercizio dello ius poenitendi [2]. Occorre tuttavia evidenziare che le modifiche da ultimo apportate dalla Riforma c.d. Madia all’art. 55 bis del TUPI hanno espressamente depotenziato, se non proprio azzerato, le possibilità di ottenere una pronuncia di nullità del provvedimento disciplinare nel caso di inosservanza dei termini perentori che lo disciplinano, dal momento che la stessa può essere eccepita negli ormai residuali casi in cui la violazione non solo sia effettivamente sussistente ma abbia irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del lavoratore incolpato, che costituisce un’ipotesi del tutto [continua ..]
La controversia decisa dalla sentenza in commento, che si inserisce nel solco della giurisprudenza di legittimità in materia, è relativa all’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato dalla Commissione di disciplina del segretariato generale della giustizia amministrativa nei confronti di un dirigente incaricato della direzione e segreteria generale al quale era stato contestato di aver speso il nome dell’Amministrazione per finalità estranee ai motivi di servizio, allo scopo di far ottenere al personale dell’Ufficio giudiziario, ma anche a persone esterne, schede SIM sulla base di convenzioni della P.A. con diverse società di telefonia e facilitazioni per l’acquisto dell’apparecchio di telefonia mobile da parte dei singoli utenti, da cui erano derivate richieste di pagamento anche nei riguardi del Tar per costi di gestione o traffici di incerta imputazione. La Corte territoriale dichiarava infondata l’eccezione di decadenza dall’azione disciplinare per tardività della contestazione e della conclusione del procedimento sanzionatorio, ritenendo che la gravità della violazione imponesse l’applicazione dei termini raddoppiati previsto per le sanzioni superiori alla sospensione dal servizio e dalla retribuzione per 10 gg., sicché il procedimento doveva ritenersi tempestivamente condotto ed ultimato. Secondo la prospettazione del lavoratore, diversamente, poiché la sanzione da applicare sarebbe stata pacificamente contenibile nei dieci giorni di sospensione, non poteva trovare applicazione il raddoppio dei termini relativi alla contestazione, anche perché quest’ultima, a suo dire, non faceva alcun riferimento alla “gravità” della sanzione da applicare e, per tale ragione, la P.A. doveva essere dichiarata decaduta dall’esercizio dell’azione disciplinare per violazione dei termini perentori, con conseguente annullamento del licenziamento. Nel caso di specie, cui come detto si applica ratione temporis la previgente formulazione dell’art. 55 bis, d.lgs. n. 165/2001, la S.C. ha ritenuto doversi applicare il disposto di cui al c. 4 dell’art. 55 bis per le infrazioni più gravi della sospensione superiore a 10 gg. avuto riguardo al fatto addebitato, non potendosi ritenere sussistente alcuna violazione di termini perentori, che prevedono un massimo [continua ..]
La decisione in commento, inoltre, si segnala per ribadire anche la natura ordinatoria dei termini endoprocedimentali e, più precisamente, del termine di cui dispone il capo della struttura cui appartiene il dipendente incolpato per trasmettere gli atti all’UPD competente, la cui inosservanza, intesa anche come omissione della relativa comunicazione, non incide sulla legittimità del procedimento disciplinare e quindi non comporta, in capo alla P.A. la decadenza dallo stesso. Nel caso di specie era stata omessa la comunicazione al dipendente della trasmissione degli atti all’U.P.D., pur prevista dalla legge, sicché il lavoratore aveva appreso del procedimento disciplinare solo con l’atto di contestazione dell’addebito. A tal riguardo, innanzitutto va detto che l’art. 55 bis, c. 3, nel testo previgente, prevedeva espressamente che “Il responsabile della struttura, se non ha qualifica dirigenziale ovvero se la sanzione da applicare è più grave di quelle di cui al comma 1, primo periodo, trasmette gli atti, entro cinque giorni dalla notizia del fatto, all’ufficio individuato ai sensi del comma 4, dandone contestuale comunicazione all’interessato. Siffatto onere scompare nel testo attualmente in vigore dove si prevede sic et simpliciter che il responsabile della struttura debba trasmettere gli atti all’UPD entro un termine più lungo (10 giorni), senza quindi notiziare il dipendente. Sul punto la Cassazione con la sentenza in commento, ha ribadito innanzitutto che «i termini “endoprocedimentali” hanno carattere ordinatorio ancorché debbano essere applicati nel rispetto dei principi di tempestività ed immediatezza, sicché l’inosservanza del termine previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 4, per la trasmissione degli atti all’ufficio designato per i procedimenti disciplinari ad opera del capo della struttura di appartenenza del dipendente, che ravvisi fatti non rientranti nella propria competenza (...), non determinano la decadenza dall’azione disciplinare [15]», se non allorquando risulti che ne venga in concreto pregiudicato il diritto di difesa; di poi ha precisato che «alcuna invalidità sussiste anche nel caso in cui sia stata omessa la comunicazione al dipendente della trasmissione degli atti del procedimento disciplinare [continua ..]
Strettamente correlato alla censura da parte del ricorrente in ordine alla sanzione massima irrogabile è quella sulla specificità ed immutabilità della contestazione disciplinare. Invero, il secondo motivo denuncia la violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 della l. n. 300/1970, art. 7 sottolineando il mancato rispetto del divieto di mutamento dell’addebito, a dire del ricorrente realizzatosi per il fatto che la contestazione aveva fatto riferimento ad un comportamento rientrante nel disposto dell’art. 9, c. 8, lett. g), c.c.n.l. 2006-2009, che si riferisce ai comportamenti dai quali sia derivato un grave danno all’Amministrazione o a terzi, sanzionato al massimo con la sospensione per sei mesi, mentre poi era stato irrogato il licenziamento, anche sulla base di ulteriori acquisizioni i cui fatti non erano stati contestati al lavoratore. La S.C. ha ritenuto infondato siffatto motivo sul presupposto che i fatti prima contestati e poi sanzionati (nella specie: reiterata stipula di convenzioni telefoniche per scopi estranei agli interessi d’ufficio) siano rimasti sempre gli stessi, dal momento che la contestazione, così come riportata nel ricorso per cassazione, già conteneva il richiamo alla violazione dei doveri di cui all’art. 7 del c.c.n.l. e manifestava il rilievo che l’Amministrazione restava esposta al pagamento di somme indebite, per cui a parere della Corte tra la contestazione e l’addebito ciò che è mutato, pur in ragione delle acquisizioni istruttorie medio tempore verificatesi «è la valutazione sulla gravità complessiva dell’accaduto, sub specie di una migliore definizione della misura del fenomeno, senza che vi sia stata aggiunta di circostanze concrete realmente diverse che possano avere effettivamente sviato o sorpreso le difese del dipendente». In virtù del principio della immodificabilità o immutabilità della contestazione disciplinare i fatti su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio devono coincidere con quelli contestati. Ciò vuol dire che ai fini del rispetto delle garanzie previste dall’art. 7 St. lav., il contraddittorio sul contenuto dell’addebito mosso al lavoratore può ritenersi violato, con conseguente illegittimità della sanzione, irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione, solo quando vi sia [continua ..]
Conseguenza della stretta correlazione tra l’addebito e la sanzione è che, anche in sede giudiziale, il lavoratore deve potersi difendersi dall’incolpazione disciplinare esattamente in relazione a quanto contestatogli e posto a base del licenziamento perché anche in tale ambito le condotte del lavoratore sulle quali è incentrato l’esame del giudice di merito non devono nella sostanza fattuale differire da quelle poste a fondamento della sanzione espulsiva, pena lo sconfinamento dei poteri del giudice in ambito riservato alla scelta del datore di lavoro [28]. Per meglio dire, è vero che il giudice può procedere ad una conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, incidendo sulla cessazione del rapporto di lavoro con effetto immediato o con preavviso, ma ciò è possibile quando non vengano mutati i motivi posti a base della iniziale contestazione e quando la conversione non importi la necessita di accertare fatti nuovi e diversi da quelli inizialmente addotti dal datore di lavoro a sostegno del recesso. Oltre alla violazione della l. n. 300/1970, art. 7, sotto il profilo processuale il suddetto sconfinamento sarebbe censurabile per vizio di ultra o extra-petizione perché il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, altera gli elementi obiettivi della azione ovvero, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emette un provvedimento diverso da quello richiesto oppure attribuisce o nega un bene della vita diverso da quello conteso. Procedendo, quindi, ad una modifica della contestazione disciplinare, si determinerebbe un’alterazione del thema decidendum, statuendo all’esterno del perimento delimitato dalle parti in causa mediante l’esame di fatti nuovi che non era stato addotto dal datore di lavoro a sostegno del recesso ed incorrendo, pertanto, nel vizio denunciato. Va anzi sottolineato che il Giudice, ferma la preliminare verifica del rispetto dei termini perentori, è tenuto a verificare la proporzionalità del provvedimento disciplinare irrogato al dipendente, in ragione dell’inconfigurabilità nel nostro ordinamento di automatismi nell’irrogazione di sanzioni disciplinari. Come del resto in più occasioni affermato dal Giudice delle leggi, deve condividersi la tesi dell’illegittimità, in via astratta, di [continua ..]