Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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Incarichi dirigenziali e poteri datoriali: le regole del diritto e le torsioni della politica (di Valerio Talamo, Direttore generale dell’Ufficio per le Relazioni Sindacali – Dipartimento della Funzione pubblica, Presidenza del Consiglio dei Ministri)


Nell’assetto della dirigenza pubblica non sono tuttora sciolti i nodi e le ambiguità relative al rapporto intercorrente con la politica. A fronte di un sistema di valutazione sostanzialmente quiescente, quest’ultima continua ad esercitare poteri decisivi in tema di nomina agli incarichi dirigenziali, con cui condiziona indirettamente anche l’amministrazione attiva che, dalla privatizzazione del 1993, dovrebbe essere appannaggio esclusivo della dirigenza. Il dirigente non riesce ad esercitare appieno i poteri del privato datore di lavoro anche in quanto è condizionato da una serie di obblighi di condotta, normativamente imposti, che sono alla base di un neo-legalismo manageriale che è il contrario della responsabilità dirigenziale per i risultati, alla base della riforma attuata nel segno della privatizzazione.

 

Executive positions and employers' powers: the rules of law and the twists of politics

In public management system, the difficulties and ambiguities concerning the relationship with politicians have not been resolved yet. In the face of an essentially ‘dormant’ evaluation system, politicians continue to exercise decisive powers in terms of appointments to management positions, through which they indirectly also condition the power of active administration that, starting from the privatisation of 1993, should be an exclusive prerogative of management. In addition, the manager is not in the position of fully exercise his powers as a ‘private’ employer because he or she is conditioned by a number of obligations of conduct established by law, which are the basis of a managerial ‘neo-legalism’, the opposite of managerial responsibility for results which is the core of the reform implemented as a consequence of the privatisation.

Keywords: Public management – Politics and administration – Powers of the ‘private’ employer – Autonomy, accountability and evaluation.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. La relazione fra politica ed amministrazione. Il modello dell’imparzialità: autonomia, responsabilità e valutazione - 3. La corruzione del modello - 4. Il potere datoriale nel prisma della privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico - 5. Quale futuro per la dirigenza pubblica? - NOTE


1. Premessa

In questa riflessione valuterò l’effettività di due istituti essenziali nella riforma della dirigenza pubblica che ha fatto seguito alla doppia privatizzazione del lavoro pubblico dell’inizio e della fine degli anni ’90: da una parte la relazione tra politica ed amministrazione, tradizionale nodo gordiano negli assetti regolativi della dirigenza pubblica di ogni tempo e, dall’altra, l’esercizio dei poteri datoriali esercitati dal dirigente con i poteri del privato datore di lavoro, anch’esso un precipitato della privatizzazione. A questo fine esaminerò, anche in successione diacronica, gli schemi normativi di riferimento, le loro evoluzioni e le prassi concrete che falsificano fortemente, a mio avviso, gli intenti e gli equilibri ipotizzati dal legislatore della prima privatizzazione [1]. In tale prospettiva cercherò di uscire dal seminato esclusivo degli enti locali e delle loro specificità, per cogliere il senso di una traiettoria trasversale alle varie dirigenze pubbliche; ciò mi permetterà qualche provocazione e qualche conclusione volutamente apodittica che vuole rendere il senso di sofferenza in cui versa questa materia.


2. La relazione fra politica ed amministrazione. Il modello dell’imparzialità: autonomia, responsabilità e valutazione

Prendo le mosse dalla relazione fra politica e amministrazione. Come è noto una sorta di “peccato originale” è nella stessa Costituzione. Questa quando parla di pubblica amministrazione e di burocrazia si destreggia ambiguamente fra due concezioni di pubblica amministrazione e di burocrazia: da un lato, il modello contenuto principalmente negli artt. 97 e 98, quello dell’amministrazione indipendente, imparziale, weberiana oserei dire, al servizio della Nazione e conformata al principio di imparzialità e di legalità, dall’altro lato quello dell’art. 95, che aderisce all’idea di una pubblica amministrazione quale apparato servente dell’esecutivo, in cui gli atti del Ministro coincidono con quelli del dicastero. La Costituzione non sceglie tra questi due modelli, li tiene in bilico ed affida alla legge il compito di determinare soluzioni equilibratici. Queste, in una prima fase, fino alla prima privatizzazione, sono fondate, sia pure con qualche torsione, sulla valorizzazione del modello dell’art. 95 Cost., declinato in una gerarchia funzionale in cui tutte le competenze dell’organo sovraordinato comprendono quelle del soggetto sotto-ordinato. In questo modello la burocrazia, tuttavia, è tendenzialmente inamovibile. In realtà già con il d.P.R. n. 748/1972 per la dirigenza dello Stato si era tentato di individuare sfere distinte di attribuzioni e quindi di responsabilità, ma nell’am­bito di un modello che conservava una serie di elementi che apparivano inequivocabilmente espressione di gerarchia (come l’avocazione o il potere di annullare o modificare gli atti dei dirigenti). Inoltre la responsabilità del dirigente veniva configurata per limite di valore e non per categorie di atti e, a causa dell’inflazione a due cifre del decennio, divenne presto irrisoria. L’incapacità e la cattiva volontà della “politica”, incapace o riottosa a definire le direttive per la gestione ed i connessi sistemi di controllo per la misurazione dell’attività, fecero il resto, condannando l’e­sperimento al fallimento. Con la prima privatizzazione del 1993, invece, il tentativo viene riproposto in modo più coerente e convinto. L’autonomia viene individuata per tutti gli atti inerenti la gestione ed alla gerarchia viene sostituito un circuito di indirizzo e di controllo. Il [continua ..]


3. La corruzione del modello

Quali sono le ragioni alla base dell’abbandono del modello della gerarchia a favore di quello della distinzione funzionale? La riflessione in tema è copiosa e non è il caso di ripercorrerla in questa sede. Non mi pare tuttavia sia stato messo in sufficiente risalto il ruolo del vincolo esterno, sub specie della governance europea che, a partire dagli anni ’90, ha progressivamente reso obiettivamente incompatibile il mantenimento del modello del pubblico impiego: un modello tutto coeso sul proprio centro, ordinato sullo Stato, massima persona giuridica pubblica, che agiva con il suo diritto speciale ed un proprio giudice domestico nell’ambito di un ordinamento del tutto separato dal diritto comune. Al contrario, l’inserimento dell’Italia nel contesto comunitario, con le sue regole giuridiche ed il suo mercato, ha agito favorendo il superamento del “secolo breve del pubblico impiego”, per citare Massimo D’Antona, vale a dire il superamento delle tradizionali protezioni di cui ha tradizionalmente fruito l’impiego pubblico [4]. La burocrazia, in particolare, viene investita dal verbo del new public management e lambisce le dinamiche dell’impresa e di mercato. Un mercato che però non esiste in natura per le pubbliche amministrazioni. La governance europea allora, imponendo implicitamente standard di rendimento e direttamente vincoli di bilancio, opera quasi come succedaneo dell’agognato mercato privatistico. La privatizzazione, quindi, non agisce solamente nei termini puramente giuridico-formali dell’estensione del codice civile e delle altre norme sul lavoro nell’im­presa al lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, ma anche come applicazione del microcosmo aziendalistico, con le sue autonome regole di funzionamento. È implicito che a tali fini l’azione del nuovo manager pubblico si pone su un piano distinto benché complementare rispetto a quello della politica. Come ricordato, l’impalcato teorico del new public management fornisce collante a queste concezioni, predicando la giusta distanza del dirigente pubblico dalla politica e dal sindacato a garanzia di autonomia, responsabilità e valutazione. Il principio di distinzione tra politica ed amministrazione, però, in questi termini dura molto poco. La seconda privatizzazione di fine secolo muta nuovamente la costituzione materiale della dirigenza [continua ..]


4. Il potere datoriale nel prisma della privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico

Nel modello reale e non in quello astratto preconizzato dalle norme, la prassi si incarica di smentire anche il mito dell’esercizio da parte del nuovo manager pubblico “dei poteri del privato datore di lavoro”. Una volta “fatta la privatizzazione”, occorreva “fare il dirigente”, vale a dire costruire giuridicamente la figura di colui che è chiamato a tradurre l’input pubblicistico dell’organizzazione nell’output privatistico del rapporto di lavoro. Anche in questo caso risuona la lezione del new public management che tendeva ad assimilare tout court il datore di lavoro pubblicistico a quello privatistico, ignorando del tutto il “contesto politico” in cui lo stesso opera. Di questa creazione normativa la letteratura giuridica ha avuto ben contezza, allorquando ha scomodato alcune raffigurazioni quasi di carattere mitologico, descrivendo il dirigente pubblico come un Giano bifronte, dalla natura “anfibia” o “bicefala”, metà pubblicistica e metà privatistica, metà politica e metà amministrativa. Il datore di lavoro privato esiste in natura, basta uscire da questa stanza virtuale e siamo pronti ad incontrarlo; il datore di lavoro pubblico, che esercita i propri poteri con la capacità di diritto privato, invece è una costruzione giuridica. Ma soprattutto è una costruzione che non ha retto alla prova dei fatti. Anche da tale versante quindi si conferma l’ineffettività del sistema. Basta spostarsi sul terreno delle relazioni reali per riscontrarlo. Sul versante delle relazioni collettive per esempio. Il dirigente in sede decentrata dovrebbe essere il dominus della contrattazione integrativa, visto che – almeno teoricamente – la politica è stata evacuata dalla contrattazione, nel senso che non può più esercitare in via diretta le competenze quale agente negoziale. Proprio in sede decentrata, tuttavia, si verifica il bassissimo grado di appropriazione del dirigente del tavolo negoziale ed è a livello decentrato che si verificano i più evidenti sfondamenti rispetto al modello legale e negoziale: dall’ac­celerazione della retribuzione di fatto, sconosciuta al settore privato, alle risorse destinate alla produttività che vengono sovente cedute a pioggia, alle progressioni economiche spesso di massa, alla contrattazione nella sfera [continua ..]


5. Quale futuro per la dirigenza pubblica?

C’è la possibilità di uscire da questo labirinto? Seppure con qualche difetto ci aveva provato l’ultima Riforma Madia dell’anno 2017, confluita in un’ipotesi di decreto legislativo affossato implicitamente da una sentenza vagante della Consulta senza precedenti e senza seguiti, che per la prima volta ha applicato il principio di leale collaborazione al procedimento legislativo. Una sentenza che, per i tempi ed i modi in cui venne pronunciata, negò la possibilità stessa della successiva correzione del decreto legislativo per il decorso dei termini entro cui poteva essere esercitata la relativa delega [12]. Quel testo rimane però un documento dal quale qualche indirizzo utile può essere tratto. Il decreto di riforma ricevette all’epoca del suo quasi varo molte critiche, ma forse non quelle giuste. Il decreto, per esempio, non incrementava la curvatura fiduciaria delle nomine, una fiduciarietà che, invece, con le regole attuali rasenta l’arbi­trio. Al contrario, per la prima volta assoggettava per tabulas le nomine a procedure para-concorsuali. Per le cariche apicali, ad esempio, era previsto un vaglio ad opera di commissioni indipendenti, che avevano il compito di definire una rosa di candidati fra i quali effettuare le scelte, temperando (rectius circoscrivendo) la discrezionalità. Inoltre veniva favorita una reale mobilità dei dirigenti fra amministrazioni, superando la logica delle quote. Al piccolo mercato della dirigenza pubblica (confinato nei singoli ruoli dell’amministrazione), si sostituiva un grande mercato, in cui risaltava la figura dirigente della Repubblica e non quello della singola amministrazione. Sicuramente la riforma in alcuni punti appariva complessa nella propria attuazione, ad esempio per l’overdose di compiti che gravava sulle commissioni indipendenti, ed in altri appariva francamente poco condivisibile, come nel regime giuridico dei dirigenti non incaricati, sottoposti ad una rotazione vertiginosa che sfociava in una vera e propria gogna professionale fino al licenziamento e su cui pendeva finanche il dubbio di costituzionalità. Sia pure con i suoi limiti, tuttavia, affondava il bisturi sulle zone di reale sofferenza degli assetti attuali su cui la dirigenza pubblica nei fatti si sta dibattendo praticamente dai primi anni del nuovo secolo. Affossata la riforma non vi è da sperare in un self [continua ..]


NOTE