Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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La legge sul sindacato militare: se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi (di Silvio Bologna, Ricercatore di Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Palermo)


Il saggio analizza la recente legge sul sindacato militare a seguito della sentenza della Corte costituzionale 120/2018, che ha dichiarato l’incostituzionalità del divieto di costituire associazioni sindacali nelle Forze armate e di polizia a ordinamento militare. Alla luce dell’ordinamento multilivello (costituzione, convenzioni Oil, Carta Sociale e Cedu) l’articolo sottolinea l’irragionevole compressione legislativa della libertà sindacale a favore della coesione interna dell’apparato militare. Il filo rosso dei vari divieti e restrizioni risiede nella persistente adesione della politica agli obsoleti modelli teorici degli ordinamenti interni e dei rapporti di supremazia speciale, che non hanno diritto di cittadinanza nelle democrazie costituzionali contemporanee.

Parole chiave: Sindacato militare – libertà sindacale – legge – ordinamento multilivello – supremazia speciale – separatezza.

The essay analyses the recent law on military trade unions after Constitutional Court judgement no. 120/2018, recognising the unconstitutionality of the prohibition of trade unions freedom for the members of the Armed Forces and military police forces. In the light of the multilevel legal framework (constitution, ILO conventions, European Social Charter, European Convention of Human Rights) the article highlights the unreasonable compression of freedom of association on behalf of functionality of the military administration. The fil rouge of prohibitions and restrictions lies in the obsolete theoretical models of internal legal framework and special supremacy embraced by politics, which are in sharp contrast with constitutional democracies principles.

Keywords: Military trade unions – freedom of association – law – multilevel legal framework – special supremacy – separateness.

SOMMARIO:

1. Militari e separatezza dalla società civile: le ragioni storico-ideologiche - 2. Il sindacalismo militare nell’ordinamento multilivello - 3. Forze Armate e sindacato: dal divieto legislativo al riconoscimento giurisprudenziale - 4. Eppur si muove: la legge ‘Corda’ - 5. Un sindacato di mestiere pieno di lacci e lacciuoli - 6. I diritti sindacali e la contrattazione collettiva ‘a scartamento ridotto’ - 7. Gli strumenti di prevenzione del conflitto e di tutela dell’interesse collettivo: divieto di sciopero, arbitrato, art. 28 - 8. La separatezza tra ideologia e attuazione per decreti attuativi - NOTE


1. Militari e separatezza dalla società civile: le ragioni storico-ideologiche

Ancora oggi le Forze Armate, primo modello di amministrazione pubblica in Italia e in Europa, nell’immaginario collettivo vengono considerate come un corpo estraneo all’apparato statale e soggetto a regole a sé stanti vista la funzione svolta: la sicurezza interna ed esterna dello stato giustificherebbe una normazione dell’or­di­namento militare largamente sottratta alle guarentigie costituzionali sul versante dei diritti e della libertà fondamentali. Nel contesto delle relazioni industriali tale modello ha fatto sì che il legislatore italiano vietasse il diritto di associazione sindacale ai militari per lungo tempo, nonostante la libertà sindacale sia riconosciuta in modo incondizionato a tutti i prestatori di lavoro dal dettato costituzionale, ed entro certi limiti dall’ordinamento sovranazionale ai lavoratori del ‘comparto sicurezza’, categoria meramente stipulativa al cui interno ricomprendere le Forze Armate e le forze di polizia a ordinamento militare (Carabinieri e Guardia di Finanza) e civile (Polizia di Stato e penitenziaria). La negazione della libertà sindacale ai militari è figlia di ragioni storico-ideologiche poi tradottesi nelle teorie giuridiche degli ordinamenti interni e dei rapporti di supremazia speciale [1], elaborati dalla giuspubblicistica tedesca del secondo ottocento, quando nell’allora Prussia si formava la casta militare degli Junker e l’esercito si ergeva a strumento di legittimazione del nuovo stato tedesco nel panorama europeo [2]. Tale modello, in progresso di tempo fatto proprio dall’esercito italiano [3], concepisce le forze armate come uno «Stato nello Stato», per riprendere Carl Schmitt [4], sottratto ai principi del liberalismo, poiché diversamente verrebbe compromessa in modo radicale la sopravvivenza della compagine statuale stessa: lo Stato si preoccupa cioè di assegnare soltanto il fine all’ordinamento militare, lasciando che esso si sviluppi autonomamente [5]. E così, l’esercito era sottoposto alle dirette dipendenze del sovrano, e non dell’esecutivo, ed il funzionamento avveniva prevalentemente per via amministrativa con buona pace del principio di legalità [6]. Sul versante lavoristico l’ordinamento interno si traduceva nei rapporti di supremazia speciale: il principio di immedesimazione organica prevaleva [continua ..]


2. Il sindacalismo militare nell’ordinamento multilivello

Se si scorrono le fonti nazionali ed internazionali non vi è nessuna disposizione che legittimi una negazione tout court delle libertà sindacali al cittadino «con le stellette» [16]. Semmai, da un lato il dettato costituzionale apre in modo pieno e incondizionato alla tutela dell’interesse collettivo nelle Forze Armate; dall’altro l’or­dinamento internazionale ed europeo consente al legislatore nazionale di introdurre eventuali limitazioni in ragione dello status militare, e sempre che queste ultime trovino una ragionevole giustificazione, siano proporzionate allo scopo perseguito e non conculchino la libertà sindacale nel suo nucleo essenziale (exception clauses) [17]. Se si legge l’art. 39 della Costituzione, in virtù del quale «L’organizzazione sindacale è libera», emerge chiaramente come alle dinamiche collettive non può essere posto alcun vincolo precostituito ad opera dello Stato, né sul versante endoassociativo (rapporti tra associati e struttura organizzativa) né su quello esoassociativo (dialettica con la controparte datoriale e i pubblici poteri) [18]. La sottrazione del sindacato militare a lacci e lacciuoli è ancor più evidente alla luce di una esegesi sistematica del dettato costituzionale: da un lato l’art. 52, nell’affermare al comma terzo che «L’ordinamento delle Forze Armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», non fa che ribadire l’inviolabilità dei diritti fondamentali nell’ordinamento militare, quale formazione sociale al cui interno si svolge la persona umana specificando il principio di cui all’art. 2 [19]; dal­l’altro l’art. 98, c. 3 consente al legislatore ordinario di limitare la facoltà di iscriversi ai partiti politici per poliziotti, militari, giudici e personale della carriera diplomatica e prefettizia: una lettura estensiva della norma, che assimili il sindacato al partito politico, violerebbe il generale divieto di interpretazione analogica di norme speciali di cui all’art. 14 delle preleggi, soprattutto di quelle che introducono limitazioni al pieno godimento dei diritti civili e politici. Per di più, l’attuale codice del­l’ordinamento militare (c.o.m.) non vieta in alcun modo ai militari di iscriversi ad un partito, né tantomeno di svolgere [continua ..]


3. Forze Armate e sindacato: dal divieto legislativo al riconoscimento giurisprudenziale

In un primo momento la Corte costituzionale si è mostrata restia a riconoscere i diritti collettivi nell’ordinamento militare: con sentenza n. 449/1999 [40] il Giudice delle leggi non ha ritenuto lesivo dell’art. 39 Cost. l’allora normativa di riferimento, poiché a suo dire il divieto di sindacalizzazione era strumentale alla coesione interna e alla neutralità del consorzio militare. In particolare, secondo la Corte le rappresentanze militari “pubblicistiche” erano costituzionalmente legittime, visto che in ogni caso «l’ordinamento deve assicurare forme di salvaguardia dei diritti fondamentali spettanti ai singoli militari quali cittadini, anche per la tutela di interessi collettivi, ma non necessariamente attraverso il riconoscimento di organizzazioni sindacali». Il mutamento di paradigma si è avuto con la recente sentenza 120/2018 [41], in cui la Corte ha abbandonato il precedente indirizzo basato sul binomio ordinamenti interni-supremazia speciale: con un provvedimento manipolativo-additivo ha infatti dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1475, c. 2 del c.o.m., nella parte in cui vieta ai militari di costituire associazioni professionali a carattere sindacale. La pronuncia è costruita sull’ordinamento del Consiglio d’Europa, che integra il parametro di costituzionalità quale norma interposta ex art. 117, c. 1, Cost. [42]: la Corte si basa sul principio generale di libertà associativa di cui all’art. 11 della Cedu e sulla lettura datane dalla Corte di Strasburgo nei casi Adefdromil [43] e Matelly [44], che avevano ad oggetto restrizioni analoghe a quelle italiane imposte dal legislatore francese all’associazionismo sindacale in seno alla Gendarmerie, forza di polizia a ordinamento militare. Secondo la Corte Edu il divieto di costituire sindacati non rappresenta in nessun modo una misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito dai pubblici poteri nazionali, come difesa o sicurezza pubblica: eventuali limitazioni sono giustificabili solo se funzionali alla tutela della sicurezza dello Stato, e mai possono concretizzarsi in proibizioni assolute e generali [45]. Tanto premesso, la Corte costituzionale ha riconosciuto sì ai militari il diritto di formare sindacati, ma con una fortissima serie di limitazioni preordinate al mantenimento della coesione interna, tra cui [continua ..]


4. Eppur si muove: la legge ‘Corda’

Dopo quasi quattro anni dalla sentenza 120/2018 il legislatore ha regolato il fenomeno del sindacalismo militare: la Corte aveva correttamente affermato come la materia necessiti di una regolamentazione legislativa e, per scongiurare un’ecces­siva conflittualità tra i nascenti sindacati e l’amministrazione militare, aveva statuito come la lacuna normativa sia temporaneamente colmata dalle rappresentanze militari pubblicistiche. In particolare, queste ultime continueranno ad operare sino all’adozione della legge, restando escluse dalla loro competenza «le materie concernenti l’ordinamento, l’addestramento, le operazioni, il settore logistico-opera­tivo, il rapporto gerarchico-funzionale e l’impiego del personale» giusto quanto previsto dall’art. 1478, c. 7, c.o.m. Nei quattro anni di silenzio del legislatore l’amministrazione militare ha fatto nuovamente ricorso al modello autoritario degli ordinamenti interni implicitamente richiamato dalla Corte: infatti, sino all’entrata in vigore della l. n. 46/2022 il riconoscimento dei sindacati militari è stato subordinato a un previo assenso da parte del Comando Generale della Difesa (e per i sindacati della Guardia di Finanza da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze). Tale riconoscimento si è basato su circolari amministrative adottate in difetto di legge abilitante [59] e, circostanza ancora più grave, in spregio all’art. 39 della carta fondamentale che non pone limite alcuno alla libertà di costituire associazioni sindacali [60]: quest’ultima degrada quindi ad interesse legittimo alla luce del mantra delle peculiarità dell’ordinamento militare, come di recente confermato dalla giurisprudenza [61], determinando un potere autorizzatorio dell’amministrazione ampiamente discrezionale [62]. L’ordinamento intersindacale militare ha avuto pertanto quale Grundnorm non il reciproco riconoscimento tra le parti [63], come avrebbe voluto un’opzione rispettosa dell’art. 39, ma le fonti amministrative. In ogni caso, restrizioni contra legem a parte, ciò che colpisce è la vitalità del sindacalismo militare, se si considera che prima dell’entrata in vigore della l. 46/2022 il Ministero della difesa ha riconosciuto ben trentasei organizzazioni [64], e quello dell’Economia e delle finanze [continua ..]


5. Un sindacato di mestiere pieno di lacci e lacciuoli

In totale spregio al modello di cui all’art. 39 della Costituzione, la legge ‘Corda’ apre al solo sindacalismo ‘di mestiere’, riservato cioè ai soli militari, sulla falsariga di quanto già previsto per la Polizia di Stato [66]: all’art. 1, c. 1 si stabilisce infatti che i militari possano costituire associazioni professionali a carattere sindacale per singola Forza armata o di polizia o a ordinamento interforze. Già la terminologia usata tradisce il conservatorismo del legislatore, che fa riferimento ad associazioni professionali a carattere sindacale, e non più semplicemente ad associazioni sindacali o sindacati. La politica della separatezza è ancora più evidente se si legge il successivo c. 3, in virtù del quale gli appartenenti a Forze armate e di polizia ad ordinamento militare non possono aderire ad altre associazioni sindacali diverse da quelle militari: la preoccupazione non troppo velata è di non aprire al mondo confederale, e quindi ad una piena integrazione del sindacato militare nella società civile, e ad eventuali rivendicazioni che travalichino la tutela del rapporto di lavoro (ad esempio, i tagli alla scuola, alla ricerca scientifica e alla sanità, o la lotta per i beni comuni come acqua e trasporto pubblico). La ‘Triplice’ (CGIL, CISL e UIL) viene vista con netto sfavore, nonostante la storia dimostri come l’opzione normativa verso la realtà confederale non abbia fatto venire meno i vincoli di lealtà ed obbedienza dei vari corpi di polizia: è il caso della Polizia penitenziaria, la cui legge istitutiva afferma come ai membri del corpo è garantita la pienezza dei diritti civili, politici e sindacali, e dunque la possibilità di iscriversi al sindacato confederale [67]. Un analogo modello era vigente nel disciolto Corpo Forestale dello Stato, dal gennaio 2017 in gran parte transitato per via legislativa nei ranghi dell’Arma dei carabinieri [68]. Si potrebbe controbattere sostenendo che la legge in esame interviene in materia di Forze armate e di polizia a ordinamento militare, dove i vincoli di gerarchia ed obbedienza sono più penetranti, e che anche nella Polizia di Stato vige il modello della separatezza dopo la smilitarizzazione del 1981 [69]: il rilievo può essere facilmente respinto alla luce del principio di libertà [continua ..]


6. I diritti sindacali e la contrattazione collettiva ‘a scartamento ridotto’

Come anticipato, non vengono istituite delle rappresentanze militari nei luoghi di lavoro sulla falsariga delle RSU: la legge si limita in modo pleonastico ad affermare che gli statuti sindacali possono prevedere articolazioni periferiche di livello regionale o territoriale – il che è implicito ex art. 39 Cost. – senza aprire a quel canale unico di rappresentanza proprio del lavoro privato e dell’impiego pubblico privatizzato. Si pone dunque il problema dell’individuazione di un soggetto capace di rappresentare unitariamente le istanze del personale militare a livello locale, soprattutto se si tiene a mente che il legislatore ha abrogato tutte le articolazioni della rappresentanza militare, ivi compresa quella territoriale, i COBAR. Sul punto la normativa, che per l’implementazione rimanda a decreti attuativi del governo, si caratterizza per la forte approssimazione: l’articolazione territoriale si limiterà a consultare ed informare gli iscritti, ad interloquire sul rispetto del contratto di comparto con l’amministrazione centrale (e perché non con quella locale o territoriale?); e, soprattutto, definirà le modalità di consultazione dei sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale circa l’attuazione della normativa a tutela di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro di cui al d.lgs. n. 81/2008. Tale ultima previsione è di indubbia rilevanza, posto che apre a forme di cogestione ‘debole’ [83]: l’amministrazione, preliminarmente alla determina unilaterale, dovrà consultare il soggetto collettivo senza per questo arrivare a forme di codeterminazione in senso stretto [84]. Il senso comune vorrebbe che dall’attribuzione della rappresentatività discendesse il riconoscimento dei diritti collettivi nei luoghi di lavoro. Tuttavia, non si può affermare che la democrazia sindacale entri nelle caserme: al sindacato non viene garantita in alcun modo la concessione di bacheche per l’esercizio delle proprie funzioni da parte dell’amministrazione militare, in antitesi a quanto previsto per la Polizia di Stato. La previsione è ancora una volta del tutto irragionevole, non essendo chiaro quale sia il nocumento provocato da un semplice pannello al regolare funzionamento dei corpi organizzati. Basterebbe stabilire, come nel caso della legge sulla smilitarizzazione della Polizia di [continua ..]


7. Gli strumenti di prevenzione del conflitto e di tutela dell’interesse collettivo: divieto di sciopero, arbitrato, art. 28

Sul versante del conflitto collettivo la legge ripropone il divieto di esercizio del diritto di sciopero: la proibizione è integrale, in quanto si estende alle azioni sostitutive dello stesso, e alla partecipazione a scioperi indetti da sindacati estranei al personale militare. La norma è tra le poche politicamente condivisibili alla luce di una lettura sistematica del dettato costituzionale, che ricava implicitamente il divieto dalla funzione assolta dalle Forze Armate [90], nonostante un’interpretazione letterale dell’art. 40 della carta fondamentale lasci propendere per forme di limitazione del­l’esercizio del diritto, e mai per divieti puri e semplici. Per di più, se si guarda al­l’esperienza comparata, vi sono ordinamenti europei che da tempo risalente riconoscono anche alle Forze Armate il diritto di sciopero, come Austria e Svezia [91], senza che ciò abbia determinato delle disfunzioni o delle derive autoritarie nei corpi militari. In ogni caso la ricostruzione proposta si basa su una precomprensione frutto di dati extranormativi che integrano i precetti costituzionali. Al riguardo va richiamata la sentenza n. 31/1969 [92] della Corte costituzionale, che ha ritenuto legittima la compressione del diritto al conflitto nell’impiego pubblico se strumentale a garantire la garanzia e l’effettività dei diritti della persona costituzionalmente tutelati e, a parere di chi scrive, l’esistenza stessa dello Stato di democrazia pluriclasse nato col patto fondativo del 1948: ad esempio, di fronte ad un tentativo di golpe o a eventi analoghi alla marcia su Roma del ’22, il divieto di sciopero si erge a strumento di garanzia del potere costituito, senza per questo dare luogo ad automatiche tutele sul distinto piano dei rapporti di forza (il golpe potrebbe esserci ugualmente). O ancora, il divieto di sciopero potrebbe garantire un pronto dispiegamento di militari in presenza di capillari azioni razziste accompagnate da pratiche violente su tutto il territorio nazionale, magari organizzate spontaneamente sui social e quindi estremamente rapide. Ovviamente, se si parte da un’interpretazione letterale dell’art. 40, e lo si integra con quanto previsto dall’ordinamento sovranazionale, il conflitto collettivo non può essere negato alla radice: lo sciopero è da vietare se e nella misura in cui alla proibizione dettata dalla tutela di [continua ..]


8. La separatezza tra ideologia e attuazione per decreti attuativi

Da una prima disamina della legge si ha l’impressione che il legislatore ordinario continui ad avere paura dell’ingresso della libertà sindacale nelle caserme: permangono incrostazioni corporative nelle linee di politica del diritto, sul presupposto per cui i sindacati militari non possono contribuire in nessun modo alle decisioni di politica generale, limitandosi a rivendicazioni di carattere economico, con una libertà sindacale che degrada ad interesse legittimo, in spregio al principio assoluto ed incomprimibile di cui all’art. 39, c. 1 della carta fondamentale [103]. Il modello prescelto di relazioni industriali, in altri termini, è simile a quello della Polizia di Stato, con un sindacato in regime di separatezza che tutt’al più può contrattare le dinamiche retributive. Rispetto alla Polizia, però, vi sono ulteriori e ingiustificate compressioni del principio di libertà sindacale, come la lata discrezionalità che caratterizza la preventiva approvazione dello Statuto ai fini della tutela dell’interesse collettivo [104]; per di più, un sindacato non autorizzato non può nemmeno riscuotere i contributi associativi, con buona pace di elementari principi di civiltà giuridica. Con questo non si vogliono negare né le peculiarità dell’ordinamento militare [105] – la difesa interna ed esterna dello Stato va sempre e comunque garantita attraverso il binomio obbedienza-gerarchia – né eventuali ragionevoli restrizioni alla libertà sindacale, in quel gioco di pesi e contrappesi che sono le liberaldemocrazie contemporanee [106]: così, non destano preoccupazione il divieto di sciopero, se accompagnato da forme compensative del mancato esercizio (procedure di conciliazione); il divieto di partecipare a manifestazioni in uniforme o con l’arma di ordinanza; il generale obbligo di neutralità durante le competizioni politiche ed elettorali; ed infine la limitazione di alcuni aspetti della libertà sindacale su materie coperte dal segreto di Stato (richiesta di accesso ad atti o documenti). La disciplina di dettaglio è poi rimessa a vari decreti e regolamenti attuativi o del Ministro della difesa o della pubblica amministrazione, come in materia di utilizzo di locali comuni nelle caserme per attività sindacale (art. 9, c. 2), funzionamento delle commissioni di [continua ..]


NOTE