Il saggio propone una riflessione sul regime giuridico del lavoro del medico di medicina generale tenendo conto dell’evoluzione dei sistemi di sanità territoriale. In particolare, analizza il rapporto tra convenzione individuale libero-professionale e accordo collettivo nazionale, ricercandone il fondamento costituzionale e analizzando criticamente il rapporto tra autonomia professionale del medico ed esigenze organizzative del servizio sanitario.
The A. proposes a reflection on the legal regime of the work of the doctors taking into account the evolution of territorial and primary care health systems; analyzes the relationship between the individual professional agreement and the national collective agreement, researching their constitutional foundation and critically analyzing the relationship between the professional autonomy of the doctors and the organizational needs of the health service.
1. Una lunga marcia - 2. Implicazioni costituzionali ed eccedenze assiologiche - 3. Dal sistema all’ecosistema sanitario - 4. I valori normativi del medico di medicina generale - 5. Tra resilienza e burnout - 6. La grande fuga - 7. Tra convenzione individuale e accordo collettivo nazionale - 8. Limiti all’autonomia organizzativa regionale - 9. Limiti all’autonomia organizzativa individuale - 10. Generalisti e specialisti: tensioni e contraddizioni - 11. Linee di indirizzo contrattuali e riforme organizzative - 12. Qualche conclusione provvisoria - NOTE
Mi è stato chiesto di condividere una riflessione su alcuni fra gli aspetti della prestazione di lavoro del medico di medicina generale più intensamente coinvolti dai e nei processi di innovazione organizzativa, avviati già prima della vicenda pandemica ma da questa sollecitati in misura significativa, e ora sostenuti peraltro dalla disponibilità di ingenti risorse finanziarie. Non si tratta solo, e neppure tanto, di ripercorrere la perdurante questione – pure importante ma certo un po’ vexata – della qualificazione giuridica come autonoma, subordinata o parasubordinata della prestazione di lavoro del medico di medicina generale, erogata e disciplinata nell’ambito di un ibrido sistema convenzionale. Si tratta, semmai, di provare a ragionare sulle forme possibili di integrazione di quell’attività in un contesto segnato dalla necessaria ridefinizione dell’assetto del sistema delle cure primarie e della sanità territoriale. La Missione M6C1 del PNRR (“Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale”) e il d.m. 77/2022 delineano ormai l’orizzonte attuale di quel “lungo cammino dalla centralità dell’ospedale a quella della persona da assistere” [1] che però forse, almeno fino ad ora, è stato segnato più da lodevoli intenzioni che da una efficace implementazione. Proprio in considerazione del radicale ma asimmetrico intreccio tra prestazione professionale e organizzazione sanitaria è dunque opportuno fin da subito richiamare l’attenzione su alcuni elementi di contesto che possono aiutare a meglio comprendere la complessità della questione.
A ben vedere, infatti, la tradizionale opzione alternativa tra autonomia e subordinazione, e quindi la posizione della figura del medico di medicina generale nell’ordine giuridico, sembra trovare radicamento non tanto nella valutazione degli effetti determinati dalla diversa rilevanza delle modalità di esecuzione della prestazione di lavoro in funzione dell’inserimento in una realtà da altri organizzata – come pure sarebbe normale in contesti organizzativi di impresa – quanto piuttosto nelle implicazioni costituzionali connesse tanto alla rilevanza pubblicistica dell’organizzazione di un servizio sanitario chiamata a inverare l’art. 32 Cost., quanto alla rilevanza del rapporto fiduciario che fonda la libertà di scelta individuale. Il diritto di ciascuno alla libera scelta del proprio medico di fiducia, scrivono i giudici del Consiglio di Stato, non può subire restrizioni di spazio, di tempo o di modalità d’accesso diverse o ultronee rispetto a quelle strettamente giustificate da esigenze di tutela stessa del diritto alla salute (così come accade – ad esempio – per le misure di contrasto alla pandemia) o da reali e comprovate esigenze organizzative o finanziarie del Servizio Sanitario Nazionale. Tant’è che – com’è noto – l’Azienda sanitaria è obbligata a disporre senza indugio l’iscrizione presso il medico di base su richiesta dell’interessato anche se residente in Comune diverso ma ricompreso nell’ambito territoriale della medesima Azienda sanitaria (così per tutte Cons. Stato, III, 23 febbraio 2021, n. 1555). Da qui deriva una sorta di eccedenza assiologica che giustifica – o almeno fino ad ora ha giustificato – la speciale disciplina convenzionale già prevista in dettaglio a far data dall’art. 49 della l. 833/1978: la qualificazione libero-professionale del lavoro del medico di medicina generale appare coerente con (e sembra meglio garantire) il carattere fiduciario del rapporto medico/paziente che si esprime non solo nella libertà della relazione personale ma anche nelle stesse modalità di autonoma organizzazione dell’incontro professionale. È però del tutto evidente che se la fiducia giustifica l’autonomia pure, però, al contempo la delimita. In altri termini, non sembrano residuare ragioni [continua ..]
A rendere ancora di più complessa decifrazione il sistema convenzionale, sta il fatto che uno dei due punti focali è caratterizzato da una prolungata e ormai quasi permanente fase di transizione organizzativa. L’implementazione di un modello tutto sommato condiviso, almeno a partire dagli impegni in sede OMS assunti ad Alma Ata (1978) e ribaditi ad Astana (2018), basato sul carattere fondativo delle cure primarie, è stata e continua ad essere resa fragile e non priva di squilibri non solo dalla cronica carenza di risorse (o dalla non adeguata e controllata allocazione delle risorse esistenti) ma ancor più dalla ben nota frammentazione della governance del sistema sanitario e dal difficile coordinamento tra autorità centrali e regionali, resa ancora più ardua dalla stessa accentuata e concreta diversificazione – per storia e geografia – dei sistemi regionali. Da ciò segue, in ogni caso, che non è possibile indagare la figura del medico di medicina generale se non riguardandola all’interno del modello di organizzazione sanitaria territoriale vigente in concreto e non solo nei documenti di indirizzo, tutti sempre caratterizzati – come usuale – dalle descrizioni di sorti magnifiche e progressive. Una connessione necessaria, ma da maneggiare con cura dal momento che tra dimensione professionale e sistema organizzativo la relazione ha carattere biunivoco e circolare. Proprio per queste ragioni è opportuno, dal punto di vista euristico, che quello sanitario sia riguardato non solo e neppure tanto come sistema, sia pure complesso, quanto considerato piuttosto a stregua di ecosistema, intessuto dalle interazioni – queste si complesse – di più sistemi e alimentato dai rispettivi ambienti che a loro volta danno forma e funzione alle stesse relazioni che le strutturano. Nella prospettiva della scienza della complessità – è stato detto – gli ecosistemi innovativi sono dei sistemi aperti non lineari caratterizzati e animati dalla pluralità di motivazioni di una rete di attori, dall’elevata capacità di rispondere ai feedback e dalla continua trasformazione strutturale sia endogena che esogena [2]. Un ecosistema, per dirla in breve, non è la somma delle singole parti, ma un organismo dinamico che nel tempo e nello spazio si trasforma e nella reciproca relazione delle sue parti trasforma ogni suo [continua ..]
Al riguardo, è sufficiente ricordare le parole, non prive di suggestione, di Elio Guzzanti ad un convegno dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale del 1977, quando segnalava la necessità di riportare il ruolo e lo spirito del medico condotto – le cui origini, vale la pena ricordarlo, sono innestate nell’espletamento di una pregnante funzione di protezione sociale e rappresentano una prima e per molti versi eroica forma di welfare comunale – nel “nuovo medico di medicina generale, operante in centri di sanità o case della salute dove collabora con altri colleghi” [4]. Qualche anno dopo lo stesso Guzzanti dirà con ancora maggiore chiarezza che solo il venire meno della figura del medico “solista” “completerà la fisionomia del distretto che è la vera essenza della riforma sanitaria” [5]. Dunque: riforma organizzativa e ridefinizione dell’orizzonte professionale del medico di medicina generale stanno insieme come architravi dello stesso edificio. Quell’eccedenza assiologica prima evidenziata si traduce qui in una tensione deontologica ben più radicale che chiama in causa e mette in discussione il sistema di valori normativi che tipicamente caratterizza la professione medica, tradizionalmente svolta – appunto, in modo eroico – al di fuori di contesti organizzativi strutturati e innervata semmai in lunghi percorsi di autonoma formazione e ancor più autonoma organizzazione. Da qui anche, in qualche misura, una sorta di perdurante crisi di identità della figura del medico di medicina generale: erogatore, per vocazione propria, di servizi sanitari ma sempre più controllore, per mandato affidato, dei canali di ingresso all’assistenza specialistica ed ospedaliera (in funzione di gatekeeper, come si usa dire [6]), reso oggi ancor più vigile e responsabile custode dell’appropriata allocazione della spesa. “Oggi” – ha scritto Edgan Morin in una sua riflessione sulle sfide della complessità [7] – “il medico generico delle città è diventato non il direttore d’orchestra che conosceva la partitura di tutti gli strumenti, ma l’esperto di scala minore che smista i suoi clienti, dei quali il più delle volte non ha che una conoscenza rapida e superficiale, presso specialisti e strutture radiologiche ed [continua ..]
Certo, indubbiamente eroici lo sono stati quei “medici solisti”, come Isotta Gervasi, prima donna medico condotto in Italia impegnata tra Savarna e Zaccaria, poi tra Ravenna e Cervia, alla quale Grazia Deledda dedicò un cammeo pubblicato dal Correre della Sera il 30 agosto del 1935: “Qui, invece, il dottore è pronto: come un arcangelo anziano ma arzillo ancora, arriva biancovestito sulle ali della sua bicicletta, e in un attimo le sue parole rischiarano l’abbuiato orizzonte domestico”. Ma il tempo degli eroi che con una parola rischiarano l’abbuiato orizzonte domestico è un tempo ormai lontano e il dott. prof. Guido Tersilli – nell’indimenticata interpretazione di Alberto Sordi prima medico mutualista poi primario di Villa Celeste – occupa ormai un proprio rilevante spazio nell’immaginario collettivo. Peraltro, dopo l’esperienza pandemica si ha come l’impressione che il termine “eroico” sia oggi utilizzato per nascondere, dietro l’apprezzamento plateale degli slanci di generosità individuale, le vistose inefficienze del sistema organizzativo, sì che forse è veramente meglio metterlo da parte. Inoltre, come usa dire, i fatti sono ostinati e spesso procedono in una direzione ostinatamente contraria alle narrazioni dominanti. E i fatti sono segnati da ciò che in molti hanno qualificato a stregua di vera e propria emorragia professionale dal sistema sanitario, non solo ospedaliero e non solo in Italia, individuando proprio in questa fuga – e quindi nella perdita enorme di capitale umano – uno dei problemi più significativi dei prossimi anni. A maggio del 2020 – ad esempio – due autorevoli riviste come British Medical Journal e Journal of the American Board of Family Medicine hanno dedicato una review al burnout dei medici generalisti non provocata dalla pandemia di Covid-19. Questa, semmai, come la classica goccia, ha solo fatto traboccare il vaso, enfatizzandone gli effetti e innescando una vera e propria sindrome di fuga dai pazienti. “Doctors cannot be expected to recover from the emotional stress and adversity they encounter in their role as clinicians while managing a heavy workload in an under-funded, over-worked system. It is unlikely that emotional resilience is all that is required to cope with increasing regulation, litigation and administration.” [9]. In [continua ..]
Non molto diversa la situazione in Italia. La più recente indagine Anaao Assomed su medici e dirigenti sanitari (dati raccolti dal 30 gennaio al 10 febbraio 2023) segnala che uno su tre è disposto a cambiare lavoro [10]. Il 56,1% dell’universo intervistato (medici e dirigenti sanitari) è insoddisfatto delle condizioni del proprio lavoro e il 26,1% anche della qualità della propria vita di relazione o familiare: sintomo inequivocabile, questo, di quanto il lavoro ospedaliero sia divenuto causa di sofferenza e di alienazione, naturalmente crescente con l’aumentare della anzianità di servizio e delle responsabilità. A conferma di ciò può evidenziarsi come i giovani medici in formazione (24,6%) siano meno insoddisfatti dei colleghi di età più avanzata (tale si dichiara solo il 36,5% dell’universo in formazione) e che il punto più alto di insoddisfazione si ritrova nella fascia di età tra i 45 e i 55 anni, cioè in un periodo della vita lavorativa in cui si aspetta proprio quel riconoscimento professionale che il nostro sistema, però, non riesce a garantire. E tuttavia anche tra i giovani medici è forte la voglia di abbandonare il sistema sanitario: il 25% dei medici tra i 25 e 34 anni e il 31% di quelli tra i 35 e i 44 anni manifestano questo interesse. Non molto diversa ancora la situazione dei medici di medicina generale, che a giudicare da alcune vicende recenti non solo subiscono una tensione centrifuga, ma sembra quasi che in questo sistema non vogliano più entrarci, come dimostra una recente vicenda concorsuale milanese che su 424 posti liberi ha visto la presenza soltanto di 48 candidati [11]. A ciò si aggiungano le questioni note legate alla remunerazione dell’attività e alle ulteriori attività compatibili. Peraltro, la difficile situazione della professione è confermata dai dati del recente rapporto di maggio 2023 presentato da Agenas [12]. Qui si segnala una riduzione in assoluto di 2178 unità di medici dal 2019 al 2021, ma anche un avanzamento della loro età media (nel 2021, su 40.250 unità, la quota con oltre 27 anni di anzianità era parii infatti a 30.303 cioè al 75%), e una distribuzione non omogenea su tutto il territorio nazionale, con una presenza media di 6,8 unità per 10000 abitanti, e punte estreme di 8,34 in Umbria e 5,8 [continua ..]
Insomma, credo siano sufficienti questi brevissimi riferimenti – relativi alla complessità assiologica, deontologica, sistemica della figura del medico di medicina generale – a giustificare l’invito iniziale a trattare il tema con prudenza analitica e pazienza ricostruttiva, restando ancorati per quanto possibile ai dati normativi vigenti e alle linee di indirizzo per il prossimo rinnovo dell’accordo collettivo nazionale destinate, in ipotesi, ad implementare il modello disegnato dal d.m. 77. Tuttavia, per una migliore comprensione della situazione credo sia comunque opportuno ricordare preliminarmente, sia pure in estrema sintesi, le caratteristiche del contesto convenzionale che riguarda l’attività professionale del medico generalista, talvolta, a mio sommesso avviso, oggetto di non piena percezione se non proprio di radicale fraintendimento, anche in sede giurisprudenziale. Com’è noto, fin dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale la disciplina del rapporto convenzionale con i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta è stata giustificata e configurata in termini di garanzia della necessaria uniformità regolativa sull’intero territorio nazionale. L’art. 48 della l. 833 ha previsto a tal fine che le convenzioni tra i medici e il servizio sanitario debbano essere conformi agli accordi collettivi nazionali resi esecutivi con d.p.r. e ne ha assicurato il carattere vincolante attraverso la previsione della nullità delle pattuizioni, individuali ed anche collettive regionali, in contrasto con i richiamati accordi (commi 7 e 8). “Il rapporto convenzionale dei medici di medicina generale” – ha scritto recentemente la Corte di Cassazione (sent. 29 settembre 2021 n. 26441) – “pur se costituito in vista dell’interesse pubblico di soddisfare le finalità istituzionali del servizio sanitario nazionale, è un rapporto privatistico di lavoro autonomo di tipo professionale, regolato dal contratto individuale di lavoro ma vincolato, quanto al contenuto, ai contratti collettivi e agli accordi integrativi regionali”. A tale stregua, è da ritenere dunque che il rapporto di lavoro del medico generalista sia instaurato e regolato dal contratto individuale (rectius: dalla convenzione) ma che il contenuto regolamentare sia vincolato alle e dalle previsioni degli accordi collettivi nazionale e [continua ..]
A giudizio di una recente giurisprudenza (Cass. 14 febbraio 2023 n. 4524), attraverso il rinvio alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 165/2001 il legislatore ha esteso al rapporto convenzionale il medesimo “equilibrato dosaggio di fonti regolatrici” che caratterizza l’impiego pubblico contrattualizzato, ed ha affidato la realizzazione dell’obiettivo della disciplina uniforme dei rapporti convenzionali alla “forte integrazione tra la normativa statale e la contrattazione collettiva”. Personalmente credo che il richiamo alle sentenze costituzionali sull’equilibrato dosaggio delle fonti nel lavoro pubblico (Corte Cost. n. 313/1996 e Corte Cost. n. 309/1997) abbia qui un valore meramente descrittivo, ma non consente di risolvere il paradosso provocato dall’esplicito rinvio nel testo dell’accordo collettivo nazionale alle norme del d.lgs. n. 165/2001 ed in particolare alla clausola di nullità delle clausole difformi. In effetti, la stessa Corte Costituzionale ha recentemente affermato – anzi: confermato – che “il rapporto dei medici in convenzione richiede una regolamentazione uniforme su tutto il territorio nazionale, così come (corsivo mio, ndr) è previsto per il lavoro pubblico contrattualizzato”. A ben vedere, il richiamo al lavoro pubblico contrattualizzato non assume qui la funzione di modello disciplinare per definire il contenuto del rapporto di lavoro dei medici generalisti (tendenzialmente, infatti, non vi è alcuna corrispondenza tra le regole del rapporto di lavoro nei due sistemi considerati), quanto piuttosto quella di metro di comparazione per giustificare l’auspicata uniformità regolativa. In altri termini, quell’uniformità, garantita nel lavoro pubblico da sofisticate tecnologie innestate sulla forma giuridica lavoro subordinato, deve essere garantita anche nell’ambito della medicina convenzionata nonostante la presenza in questo caso di contratti di lavoro autonomo e di autonome prerogative regionali costituzionalmente presidiate: insomma, nella medicina convenzionata “così come” nel lavoro pubblico. Pertanto, continua la sentenza citata, “la costante giurisprudenza di questa Corte ha ricondotto il rapporto convenzionale dei medici, rientrante nell’ambito della cosiddetta parasubordinazione, alla materia dell’ordinamento civile, di competenza esclusiva del [continua ..]
La funzione così assunta dall’accordo nazionale – di organizzazione del sistema sanitario, più che di gestione del rapporto individuale – si riflette poi nella stessa regolamentazione delle modalità di esercizio della professione medica all’interno delle forme organizzative mono e multiprofessionali, che procedono, com’è noto, secondo un meccanismo di progressiva appartenenza funzionale del medico all’aggregazione territoriale – non fornita, si badi, di personalità giuridica – e di questa, poi, all’unità complessa, comunque denominata, il cui coordinamento con l’azione distrettuale dovrebbe essere garantito dalla designazione del coordinatore, i cui risultati sono a loro volta valutati, ai fini dell’incentivazione retributiva, dal direttore generale dell’Azienda, tenendo conto che gli indicatori di processo e di risultato della forma complessa sono definiti dall’Azienda stessa sulla base delle priorità regionali. In questo contesto, strutturato in una logica organizzativa di tipo piramidale, ben si comprende l’esplicita statuizione dell’art. 2 dell’accordo collettivo nazionale vigente ai cui sensi il medico di medicina generale “esercita un’attività libero professionale contrattualizzata e regolamentata dall’ACN”, ma pur sempre “nel rispetto del modello organizzativo regionale e per il perseguimento delle finalità del Servizio sanitario nazionale”. A tale stregua, l’uniformità garantita dall’accordo nazionale è ottenuta riconducendo (e riducendo) l’autonomia organizzativa del medico nell’ambito del modello organizzativo generale, sì che più che di equilibrato dosaggio delle fonti dovrebbe ragionarsi se vi sia, in questo specifico caso, un equilibrato bilanciamento tra autonomia organizzativa individuale, che segna il tratto libero-professionale del medico, ed eteronomia organizzativa regionale in funzione dell’erogazione di livelli essenziali di assistenza tendenzialmente omogenei sul territorio, in guisa tale da ricondurre e quasi confinare gli spazi di autonomia professionale del medico convenzionato sempre più sul piano clinico e sempre meno su quello organizzativo. Il punto è che l’interesse pubblico a soddisfare le finalità istituzionali del servizio sanitario [continua ..]
Acclarata la funzione organizzatoria insita nella dimensione collettiva dell’accordo nazionale c’è da chiedersi quale e quanta parte residui ancora per la funzione gestionale a carattere individuale del rapporto professionale del medico di medicina generale. La risposta sta in ciò che proprio la rilevanza organizzatoria dell’accordo impone (forse meglio dire: imporrebbe) di esaltare gli aspetti del rapporto individuale che fungono da snodo e quasi da cerniera tra l’organizzazione sanitaria e la prestazione piuttosto che le regole per l’amministrazione del singolo rapporto di lavoro individuale (e la complessità del sistema di reclutamento nonché l’elenco delle attività incompatibili ne sono la prova evidente). E tuttavia, con una sorta di evidente paradosso, questa circostanza sembra non operare – nello stesso contesto regolativo – per la categoria dei medici di medicina dei servizi territoriali, a beneficio dei quali sono invece dettate specifiche norme quali – ad esempio – quelle sul c.d. permesso annuale retribuito, o per congedo matrimoniale, alle assenze per malattia o all’assicurazione contro gli infortuni. Tale difformità regolativa sembra trovare ragione e significato nel più stringente rapporto di dipendenza del medico dei servizi territoriali con il servizio sanitario e nella correlata riduzione dell’elemento fiduciario della relazione medico-paziente. A ben vedere, però, è indubbio che in tal modo si introduce nel sistema della medicina convenzionata un elemento di contraddizione, trattandosi pur sempre di medici la cui relazione giuridica con il servizio sanitario è mediata dalla convenzione in conformità all’accordo nazionale: anche in tal caso, quindi, la convenzione abilita l’integrazione della prestazione professionale, formalmente qualificata come autonoma, in un contesto organizzativo complesso, rispetto al quale i margini di effettiva autonomia appaiono in verità oltremodo ridotti. Siffatto elemento di contraddizione emerge con ancora più evidenza per l’altra e diversa categoria della specialistica ambulatoriale per la quale l’art. 1, comma 4, del relativo vigente accordo nazionale dispone che “nell’ottica di condividere il percorso sistematico delle innovazioni normative apportate dal legislatore nell’ambito dei rapporti [continua ..]
C’è da chiedersi se tale diversità di disciplina delle relazioni di lavoro possa incidere, e in che modo, con il modello di sanità territoriale previsto dal d.m. n. 77/2022. Com’è noto, la Casa della Comunità rappresenta il modello organizzativo che rende concreta l’assistenza di prossimità per la popolazione di riferimento. A stare alle previsioni del d.m. 77 la CdC “è il luogo fisico, di prossimità e di facile individuazione al quale l’assistito può accedere per poter entrare in contatto con il sistema di assistenza sanitaria”. Per questo essa è qualificata come “fondamentale struttura pubblica” del servizio sanitario, luogo di coordinamento e integrazione con il sistema dei servizi sociali. In questa prospettiva, il modello di intervento integrato e multidisciplinare impone che l’attività sia organizzata in modo tale da permettere un’azione d’insieme tra medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, specialisti ambulatoriali interni – anche nelle loro forme organizzative – infermieri di famiglia o comunità, altri professionisti della salute disponibili (sia chiaro: a legislazione vigente) nell’ambito delle aziende sanitarie (quali ad esempio psicologi, ostetrici, professionisti dell’area della prevenzione, della riabilitazione e tecnica, e assistenti sociali anche al fine di consentire il coordinamento con i servizi sociali degli enti locali). Saranno i medici, gli infermieri e gli altri professionisti sanitari all’interno delle CdC che garantiranno l’assistenza primaria attraverso un approccio di “sanità di iniziativa” e la presa in carico della comunità di riferimento, con i servizi h/12 e integrandosi con il servizio di continuità assistenziale h/24. Sia nell’accezione hub sia in quella spoke, la CdC costituisce dunque l’accesso unitario fisico per la comunità di riferimento ai servizi di assistenza primaria. Nell’ambito delle reti di servizio che trovano nella Casa lo snodo essenziale, una menzione a parte merita la prevista Unità di Continuità Assistenziale (UCA), consistente in un’équipe che afferisce al Distretto ed è composta da un medico ed un infermiere che operano sul territorio di riferimento anche attraverso l’utilizzo di strumenti di [continua ..]
Naturalmente, questi appena indicati sono soltanto indirizzi operativi per il prossimo accordo nazionale, e quindi occorrerà attendere la conclusione del negoziato tra le parti, ancora in fase embrionale. Tuttavia, qualche riflessione finale credo possa essere proposta dal momento che, rimettendo insieme i frammenti di sguardi che da diverse prospettive ho cercato di rivolgere alla figura del medico di medicina generale, nel contesto dell’innovazione organizzativa postpandemica, è forte l’impressione di un inerziale ritardo non solo e neppure tanto nell’applicazione delle leggi di organizzazione quanto piuttosto, e più in profondità, nella percezione stessa della trasformazione del ruolo del medico di medicina generale e nella riconfigurazione giuridica del proprio status. Si ha cioè come l’impressione che le riflessioni, pure maturate all’interno del contesto professionale e dei settori orientati alla ricerca, anche comparata, non riescano poi a trovare espressione in un rinnovato contesto regolativo, quasi che il duplice canale accordo nazionale/convenzione individuale debba costituire ancora oggi (e quasi per inerzia) lo strumento esclusivo per assicurare l’esigenza primigenia di uniformità disciplinare piuttosto che operare come la cerniera necessaria per garantire l’integrazione funzionale della prestazione individuale in un dato sistema organizzativo. Una uniformità disciplinare perseguita, si badi, limitando l’autonomia organizzativa regionale prima ancora che quella negoziale ed organizzativa individuale anche in virtù del richiamo diffuso all’art. 40 del d.lg. 165. La segnalata funzione organizzatoria del doppio canale regolativo (accordo nazionale/convenzione individuale) tende conseguentemente a ricondurre l’autonomia professionale del medico di medicina generale sempre più nella sfera clinica e sempre meno in quella organizzativa (di tempo, luogo e azione), e a ridurre il rapporto fiduciario alla possibilità di scelta all’interno di un elenco definito. Questa circostanza rende ancora però più evidente e forse non sempre pienamente comprensibile la frammentazione disciplinare che distanzia i medici di medicina generale e gli specialisti ambulatoriali interni, passando per la forma intermedia dei medici della medicina dei servizi. E il paradosso sta in ciò, che al [continua ..]