Nell’articolo l’autore, ribadita l’importanza dell’assetto pubblicistico della docenza universitaria, focalizza le criticità presenti nella legislazione che emergono nel caleidoscopio normativo della professionalità dei professori universitari. Componendo il complesso quadro giuridico, inclusi gli aspetti sulle finalità del sistema universitario, l’autore sottolinea come di fronte alla richiesta al docente di svolgere attività rinnovate di didattica e ricerca o funzionali ai nuovi obiettivi delle università (si pensi alla terza missione), o gestionali e organizzative, non vi sia adeguata attenzione per percorsi strutturati di formazione. L’omissione è negativa tanto per la crescita professionale dei docenti e per le loro pari opportunità, quanto per l’efficacia formativa e sociale dell’azione universitaria. Ne trae vantaggio solo quel potere accademico e politico che ha buon gioco nella scelta discrezionale di figure che prescindono dalla qualificazione acquisita tramite la formazione.
In the article, the author, having reiterated the importance of the publicist structure of university teaching, focuses on the critical issues in the legislation that emerge in the regulatory kaleidoscope of the professionalism of university professors. Compounding the complex legal framework, including aspects on the purposes of the university system, the author points out how in the face of the demand for the professor to carry out renewed activities of teaching and research or functional to the new objectives of the universities (think of the third mission), or managerial and organizational, there is no adequate attention to structured training paths. The omission is as bad for the professional growth of faculty and their equal opportunities as it is for the educational and social effectiveness of university action. It benefits only that academic and political power that has good play in the discretionary choice of figures regardless of the qualification acquired through training.
L’articolo, integrato da note, riproduce l’intervento al Seminario on-line su “L’impiego pubblico non privatizzato” del 5 aprile 2023, svolto nell’ambito del II Ciclo seminariale Clip - Conversazioni di lavoro e impiego pubblico (anno accademico 2022/2023) “La professionalità tra legge e contratti”. Esso sarà inserito nell’omonimo volume a cura di A. Boscati e A. Zilli, in corso di pubblicazione per Wolters Kluwer Cedam.
1. Prologo ed epilogo: il filo rosso del regime pubblicistico e della formazione (auspicata) - 2. Le funzioni dell’università tra tradizioni, rinnovamenti e ripercussioni sulle attività dei docenti - 3. La normativa sui professori universitari - 4. Segue. L’abilitazione scientifica nazionale - 5. Segue. La chiamata dei professori nelle università - 6. Segue. Aspetti dello stato giuridico attinenti alla professionalità - 7. I ricercatori - 8. Segue. Le novità del d.l. n. 36/2022 conv. dalla legge n. 79/2022 - 9. Segue. Le regole speciali sul rapporto di lavoro: un pre-ruolo dal regime ibrido ma sostanzialmente pubblicistico - 10. Segue. La progressione professionale del ricercatore - 11. La professionalità nel cortocircuito tra ipertrofismo burocratico, valutazioni quantitative e microfisiche di potere politico e/o accademico. La libertà, la qualità scientifica e didattica e il diritto alla formazione dei docenti: le ancore di salvezza (bisognava dirlo?) - NOTE
È necessario ricordare, pure se è noto, che il d.lgs. n. 165/2001, per salvaguardare al meglio alcuni principi costituzionali – quali la libertà della ricerca scientifica e dell’insegnamento, il pluralismo culturale, l’autonomia universitaria, il diritto allo studio (artt. 9, 33 e 34 Cost.) –, oltre a riaffermare tale preservazione nella gestione delle risorse umane [1], lascia nel regime pubblicistico [2] (art. 3, c. 2) il rapporto di impiego “dei professori e dei ricercatori universitari, a tempo indeterminato o determinato”. Poiché esso stabilisce anche, nella stessa disposizione, che tale regime è conservato “in attesa della specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all’art. 33 della Costituzione ed agli artt. 6 ss. della legge n. 168/1989, e successive modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all’art. 2, c. 1, della legge n. 421/1992”, si è inizialmente interpretata come temporanea la conservazione, in attesa della riconduzione nel regime del pubblico impiego privatizzato o, per meglio dire, in quello di una disciplina organica e speciale che contemperi autonomia universitaria e privatizzazione [3]. Ma dal 1993 (d.lgs. n 29) ad oggi, nonostante le consistenti innovazioni (l. n. 230/2005; legge n. 240/2010; d.l. n. 36/2022 conv. dalla legge n. 79/2022), la riconduzione del rapporto sotto una nuova egida non si è avuta. Anzi si può ritenere che gli interventi legislativi sullo stato giuridico, ribadendolo, abbiano abrogato, per incompatibilità, la disposizione che preconizzava la modifica. Intanto anche la riflessione sulla privatizzazione del lavoro dei dipendenti pubblici è stata notevolmente raffinata e ha acquisito una maggiore cautela nell’impostazione, maturando l’idea, rafforzata dall’ampia legislazione successiva, che essa abbia uno statuto speciale nell’ambito dei fondamenti privatistici [4]. Ciò rassicurerebbe sul fatto che nessuna privatizzazione del lavoro pubblico possa consistere nell’estensione sic et simpliciter delle regole del lavoro privato, nell’uniformazione delle discipline. Purtroppo, nonostante la bontà della scelta, che ha respinto l’istanza “panprivatistica” e “pancontrattualista” [continua ..]
È noto che le funzioni primarie delle università sono la ricerca e la didattica [11], ma di pari passo con l’affermazione dell’autonomia universitaria, che trova il suo riconoscimento in attuazione delle disposizioni costituzionali, nella legge n. 168/1989, le università sono divenute enti multifunzionali [12]. È stato acclarato specie dalla dottrina amministrativista che l’autonomia universitaria è stata assai limitata soprattutto a partire dalla legge n. 240/2010 che, lungi dall’istituire un equilibrato dosaggio di fonti, ha inciso sulle scelte organizzative delle università e sullo stato giuridico dei docenti, perseguendo una modellazione, sia pure con tante lacune, di stampo eteronomo. In ogni caso i fini istituzionali delle università sono stati specificati o accresciuti. Ciò ha rilievo nella tematica della professionalità della docenza, come si vedrà nello svolgimento del presente lavoro, con ricadute sulle competenze richieste al corpo docente, senza la previsione di un’adeguata cura verso la sua formazione. Per quanto concerne la didattica, vi è innanzitutto un nuovo aspetto da considerare. La legge n. 230/2005 (art. 1, c. 16), nell’obbligare i docenti a svolgere non meno di 120 ore di didattica frontale, se a tempo pieno, e non meno di 80 ore, se a tempo definito, ha compulsato per molto tempo le università nella propria autonomia organizzativa. L’art. 14, c. 6-sexies, lett. a) e b), del d.l. n. 36/2022, convertito, con modificazioni dalla legge n. 79/2022, ha tuttavia modificato la disposizione, stabilendo che le 120 ore di didattica, o le 80, sono svolte nella “varie forme previste” e quindi possono variare “sulla base dell’organizzazione didattica e della specificità e della diversità dei gruppi e dei settori scientifico-disciplinari e del rapporto docenti-studenti, sulla base di parametri definiti con regolamento di ateneo, ai sensi dell’articolo 6, c. 9, della legge 9 maggio 1989, n. 168”. La lettura di questa nuova norma può essere vista come un effetto di quanto accaduto nel periodo Covid, in cui le lezioni sono state tenute “a distanza” o in modalità “mista”. Ma, accanto alla “scoperta” di quanto le innovazioni tecnologiche siano utili anche nella didattica, il nuovo disposto (“nelle varie forme [continua ..]
La l. 240, nel confermare la distinzione introdotta dal d.p.r. n. 382/1980 tra prima e seconda fascia dei professori universitari, introduce l’abilitazione scientifica nazionale (art. 16), che ha lo scopo di attestare la qualificazione scientifica dei candidati, dura undici anni e costituisce “requisito necessario” per l’accesso alle fasce dei professori [28]. Si tratta di un procedimento di tipo idoneativo, preordinato all’accertamento e al riconoscimento del possesso da parte dei candidati della maturità scientifica allo svolgimento delle funzioni di professore di prima o seconda fascia, richiedendo “requisiti distinti per le funzioni” delle rispettive fasce. Con regolamenti ministeriali sono disciplinate le modalità di espletamento delle procedure finalizzate al conseguimento dell’abilitazione, ma la legge 240 detta alcuni criteri. Il conseguimento dell’abilitazione scientifica non costituisce, in ogni caso, titolo di idoneità né dà alcun diritto relativamente al reclutamento in ruolo o alla promozione presso un’università al di fuori delle procedure previste dalla legge (artt. 18 e 24). La disamina accurata delle distorsioni e delle violazioni dell’autonomia dell’accademia, garantita anche a livello europeo, è stata largamente rilevata [29]. Da ultimo si registra l’intervento del CUN del 20 aprile 2023 che, in una nota indirizzata al Ministro, all’ANVUR e alla CRUI, rileva le criticità del sistema e propone nuove modalità di reclutamento. È importante la sottolineatura del fatto che la rigidità di indicatori numerici, “con le soglie calcolate su un limitato arco temporale e caratterizzate da una marcata volatilità, ha poi di fatto concentrato l’attenzione sulla quantità e velocità più che sulla qualità della produzione scientifica”; come pure quella della richiesta “di vari titoli specifici e predefiniti, mutevoli nel tempo, come condizione di accesso ha portato a dinamiche di adattamento del sistema, con la rincorsa da parte degli aspiranti all’abilitazione ad accumularli, senza distinguere in base a criteri di qualità”. Il CUN considera un valore il carattere nazionale dell’abilitazione, “da preservare per obiettivi e finalità istitutive. Tuttavia, poggiando su [continua ..]
Per l’abilitazione scientifica nazionale, criteri, parametri e indicatori sono stabiliti dal legislatore. Va rilevato che i candidati devono possedere un numero di pubblicazioni, coerenti con il settore concorsuale, per la valutazione dell’impatto della produzione scientifica [30], misurato attraverso gli indicatori “ministeriali” con riferimento esclusivamente agli intervalli temporali ivi definiti [31]. La verifica del possesso viene effettuata in automatico per cui le pubblicazioni in questione non sono valutate, costituiscono una misura necessaria per partecipare all’abilitazione [32]. È una misurazione più quantitativa che qualitativa: il filtro qualitativo per i settori “non bibliometrici” dovrebbe essere costituito soprattutto dalla collocazione editoriale, dalle riviste (specie di classe A) e dall’editoria nell’ambito della quale il volume è inserito (collane con referaggio); per i settori bibliometrici valgono le misurazioni quantitative, trasformate in valutazioni positive oltre determinate soglie. Ma si sa che non sempre è così e che la distorsione metodologica è stata deleteria sia per la ricerca, sia per l’allocazione delle risorse. Poi i candidati indicano le pubblicazioni da sottoporre alle commissioni di abilitazione (nel numero massimo fissato dai D.M. citati). I candidati all’abilitazione hanno anche l’obbligo di elencare i titoli posseduti [33], tenuto conto dei criteri eventualmente definiti dalla Commissione ai sensi dell’art. 5, c. 2, d. m. n. 120/2016, e devono possedere almeno tre categorie di titoli per poter superare l’abilitazione, oltre quello dell’impatto della produzione scientifica [34]. Le commissioni di abilitazione hanno dunque qualche margine di scostamento rispetto a quanto stabilito dalla normativa. Anche i candidati commissari sono assoggettati alla trafila degli indicatori quantitativi; il percorso poi si conclude con il sorteggio tra quelli in possesso delle soglie scientifiche. Il difetto del sistema è anche la determinazione dei criteri dettati dalla legge o dai decreti di attuazione, senza parere vincolante dell’organo di autogoverno delle comunità scientifiche (CUN), e l’ancoraggio agli indicatori quantitativi, specie per i settori bibliometrici, assurti a metodo di valutazione. Il difetto è maggiore con riguardo ai [continua ..]
Paradossale è poi la fase della chiamata dei professori (art. 18 legge n. 240/2010) dove le omissioni normative si ritorcono contro gli intenti etici del legislatore! Le università, con proprio regolamento, disciplinano la chiamata dei professori di prima e di seconda fascia nel rispetto del codice etico e dei principi enunciati dalla Carta europea dei ricercatori [36], nonché dei criteri indicati dal legislatore. Di rilievo ai fini della presente analisi è il comma 1 lettera d), che prescrive “valutazione delle pubblicazioni scientifiche, del curriculum e dell’attività didattica”. L’art. 18 non si occupa delle modalità di costituzione delle commissioni. Tanto è vero che, oltre alla giurisprudenza amministrativa chiamata più volte a pronunciarsi sulla legittimità delle procedure locali [37], è intervenuta una direttiva del Ministero che ha raccolto le indicazioni “di anticorruzione” provenienti dall’ANAC, direttiva che la giurisprudenza considera vincolante (specie con riguardo alla costituzione delle commissioni) [38]. Non solo; la questione dell’accertamento della qualificazione scientifica è lasciata ai regolamenti di Ateneo che puntano, oltre che sull’attività didattica e scientifica, anche su quella gestionale e di terza missione. In buona parte dei regolamenti universitari sul reclutamento della docenza appare, quale criterio di selezione, anche quello relativo ad attività gestionali, organizzative e di servizio [39]. Nella misura in cui tale criterio sia svincolato dalle funzioni istituzionali dalle Università, se ne segnala un uso distorto e abusivo, tenendo conto del fatto che tali attività, strettamente gestionali od organizzative, in linea di massima sono attribuite intuitu personae da Rettori o Direttori di Dipartimento [40]. Quindi non sono caratterizzate da pari opportunità per docenti e ricercatori. In ambito legislativo sono presenti disposizioni che consentono agli atenei la distribuzione del Fondo premiale a quanti assumono responsabilità organizzative, gestionali e istituzionali. Si può considerare formalmente ammissibile quella gestionale in quanto è lo stesso legislatore che consente di apprezzarla in caso di mobilità dei docenti (art. 9 legge n. 240/2010), ma non quella strettamente gestionale – organizzativa, [continua ..]
Una volta in ruolo, per lo stato giuridico occorre far riferimento ad un complesso normativo [42]. In questa sede rilevano taluni aspetti. L’art. 1, c. 16, della legge n. 230/2005 come modificato dall’art. 14, c. 6-sexies lett. a) e b), d.l. n. 36/2022, conv. in legge n. 79/2022, conserva il trattamento economico dei professori universitari “articolato secondo il regime prescelto a tempo pieno ovvero a tempo definito” [43] e l’attuale struttura retributiva. Il trattamento è correlato “all’espletamento delle attività scientifiche e all’impegno per le altre attività, fissato per il rapporto a tempo pieno in non meno di 350 ore annue di didattica, di cui 120 di didattica per lo svolgimento dell’insegnamento nelle varie forme previste, e per il rapporto a tempo definito in non meno di 250 ore annue di didattica, di cui 80 di didattica per lo svolgimento dell’insegnamento nelle varie forme previste”. L’art. 6 della legge n. 240/2010, ai fini della rendicontazione dei progetti di ricerca, quantifica le ore annuali dei professori e ricercatori stabilendo che le attività di ricerca, di studio e di insegnamento, con i connessi compiti preparatori di verifica e organizzativi, è pari a 1500 ore annue per quelli a tempo pieno e 750 per quelli a tempo definito. Ribadisce poi l’obbligo dei professori di svolgere attività di ricerca e di aggiornamento scientifico e, sulla base di criteri e modalità stabiliti con regolamento di ateneo, definisce anche su base annuale il tempo da dedicare alla didattica, specificando che le 350 ore annue o le 250 ore (come minimo) vanno dedicate a compiti didattici e di servizio agli studenti, inclusi orientamento e tutorato, nonché di verifica dell’apprendimento, lasciando in piedi per lo svolgimento dell’insegnamento quanto stabilito dall’art. 1, c. 16, legge n. 230. L’aggiornamento scientifico è lasciato all’autonoma iniziativa del docente. Rilevante è l’art. 6, c. 7, della legge n. 240 secondo cui le modalità per l’autocertificazione e la verifica dell’attività didattica e di servizio agli studenti dei professori e dei ricercatori sono definite con regolamento di ateneo che prevede altresì la differenziazione dei compiti didattici in relazione alle diverse aree scientifico-disciplinari e alla [continua ..]
La legge n. 240/2010 – come noto – ha soppresso definitivamente il ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato (anche se già la legge n. 230/2005, art. 1, c. 7 e c. 22, aveva previsto che solo fino al settembre 2013 sarebbero stati banditi concorsi per i ricercatori a tempo indeterminato) e ha introdotto la figura del ricercatore a tempo determinato, secondo un’impostazione fondata sul precariato strutturale. In particolare ha previsto due tipi di contratti di ricercatore, di tipo a) e b). Una rilevante differenza tra le due categorie di ricercatori universitari risiede, in primo luogo, nei diversi requisiti per stipulare i rispettivi contratti e, in secondo luogo, nel fatto che i ricercatori che usufruiscono di un contratto di tipo A non hanno direttamente accesso, nell’ambito della loro carriera, al posto di professore associato, mentre quelli che usufruiscono di un contratto di tipo B vi hanno direttamente accesso. Tale impostazione di “precarizzazione” è stata fortemente criticata: per eliminare i vizi relativi ad una carriera carente quanto a verifica dell’operosità scientifica dei ricercatori a tempo indeterminato, si è passati ad un super precariato laddove si sarebbe potuta assicurare una seria valutazione in corso d’opera e rendere stabile una terza figura di docenza, molto utile per il perseguimento dei molteplici compiti universitari [46]. Oramai comunque bisogna fare i conti con quest’orientamento politico trasversale e legislativo, che ha ricevuto a fine del 2022 l’avallo quasi completo della Corte di Giustizia dell’Unione europea [47] secondo la quale le regole europee non impediscono a una normativa nazionale: “a) di consentire alle università di stipulare con i ricercatori contratti a tempo determinato di durata triennale, prorogabili di due anni al massimo, senza subordinarne la stipulazione e la proroga ad alcuna ragione oggettiva connessa ad esigenze temporanee o eccezionali, e ciò al fine di soddisfare le esigenze ordinarie e permanenti dell’università interessata; b) di fissare a dodici anni la durata complessiva dei contratti di lavoro che uno stesso ricercatore può stipulare, anche con università e istituti diversi e anche in modo non continuativo; c) di prevedere la possibilità, a determinate condizioni, di stabilizzare l’impiego dei ricercatori degli enti pubblici [continua ..]
Occorre esaminare le novità al riguardo che si sono avute con il d.l. n. 36/2022 [48] (anche se è in atto una fase transitoria). L’art. 24 della legge n. 240/2010 stabilisce che, per assumere ricercatori “nell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione, al fine di svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti, le università possono stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato” (comma 1). In particolare (comma 3) “il contratto di ricercatore a tempo determinato ha una durata complessiva di 6 anni e non è rinnovabile”. Esso può prevedere il regime a tempo pieno o a tempo definito. L’impegno annuo complessivo per le attività di didattica, didattica integrativa e di servizio agli studenti è pari a 350 ore per il tempo pieno e 200 ore per il tempo definito (comma 4). Il contratto “stabilisce, sulla base dei regolamenti di ateneo, le modalità di svolgimento delle attività di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti nonché delle attività di ricerca” (comma 1). È necessaria una procedura pubblica di selezione, disciplinata dalle università con proprio regolamento, nel rispetto dei principi enunciati dalla Carta Europea dei ricercatori (comma 2). L’art. 24 della legge n. 240 si premura tuttavia di indicare una serie di criteri. Per quanto riguarda i bandi si richiedono “informazioni dettagliate sulle specifiche funzioni, sui diritti e i doveri e sul relativo trattamento economico e previdenziale”. Per quel che concerne i candidati, si limita l’ammissione alle procedure dei soli possessori del titolo di dottore di ricerca o titolo equivalente, ovvero, per i settori interessati, del diploma di specializzazione medica, nonché di eventuali ulteriori requisiti definiti nel regolamento di ateneo, con esclusione dei soggetti già assunti a tempo indeterminato come professori universitari di prima o di seconda fascia o come ricercatori, ancorché cessati dal servizio, nonché dei soggetti che abbiano già usufruito, per almeno un triennio, del contratto di ricercatore a tempo determinato (art. 2, c. 2, lett. b). Relativamente alla valutazione dei candidati questa deve essere espletata, con motivato giudizio analitico sui titoli, sul curriculum e sulla [continua ..]
Il ricercatore è assunto con contratto subordinato a tempo determinato; nello stesso tempo è inserito nell’ambito del personale in regime di diritto pubblico (art. 3 d.lgs. n. 165/2001). È necessario chiedersi quali siano le regole applicabili al rapporto di lavoro. Per un primo verso, non c’è dubbio che si applichino le regole specifiche dettate dal legislatore (v. comma 3 e ss.) tra le quali emergono, per quanto in questa sede rileva, l’incompatibilità con qualsiasi “altro rapporto di lavoro subordinato presso soggetti pubblici o privati, con la titolarità di contratti di ricerca anche presso altre università o enti pubblici di ricerca, con le borse di dottorato e in generale con qualsiasi borsa di studio a qualunque titolo conferita da istituzioni nazionali o straniere, salvo il caso in cui questa sia finalizzata alla mobilità internazionale per motivi di ricerca”; la possibilità che i contratti prevedano il regime di tempo pieno o di tempo definito; l’impegno annuo complessivo per lo svolgimento delle attività di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti è pari a 350 ore per il regime di tempo pieno e a 200 ore per il tempo definito (co. 4); la progressione di carriera e l’inquadramento nel ruolo dei professori è fissato dai c. 5 e 5-bis con il richiamo anche ai regolamenti di ateneo; f) il trattamento annuo lordo onnicomprensivo è “pari al trattamento iniziale spettante al ricercatore confermato a tempo pieno elevato al massimo del 30%” (co. 8); il contratto (insieme a quello di ricerca) non dà luogo a diritti in ordine all’accesso al ruolo (in ogni caso costituisce titolo preferenziale nei concorsi per l’accesso alle pubbliche amministrazioni) (co. 9); l’attività di didattica, di ricerca e di terza missione svolta dai ricercatori “concorre alla valutazione delle politiche di reclutamento svolta dall’ANVUR, ai fini dell’accesso alla quota di finanziamento premiale a valere sul Fondo per il Finanziamento ordinario delle università ai sensi dell’art. 60, c. 01, del d.l. n. 69/2013 conv. con modif. dalla legge n. 98/2013 (co. 9-quater). Mancano importanti parti della disciplina, che quindi deve ricomporsi con uno sforzo interpretativo, ricordando anche che l’art. 29, c. 1, lett. d), del d.lgs. n. 81/2015 esclude [continua ..]
L’art. 24, c. 5, scandisce le fasi della progressione professionale dei ricercatori. Nell’ambito delle risorse disponibili per la programmazione, “a partire dalla conclusione del terzo anno e per ciascuno dei successivi anni di titolarità del contratto, l’università valuta, su istanza dell’interessato, il titolare del contratto stesso, che abbia conseguito l’abilitazione scientifica nazionale di cui all’articolo 16, ai fini della chiamata nel ruolo di professore di seconda fascia, ai sensi dell’articolo 18, comma 1, lettera e). La valutazione si svolge in conformità agli standard qualitativi riconosciuti a livello internazionale, individuati con apposito regolamento di ateneo nell’ambito dei criteri fissati con decreto del Ministro (...). In caso di esito positivo della valutazione, il titolare del contratto è inquadrato nel ruolo di professore di seconda fascia”. La valutazione, come già detto, deve prevedere in ogni caso lo svolgimento di una prova didattica nell’ambito scientifico disciplinare di riferimento (c. 5-bis). Bisogna vedere cosa stabilirà il decreto ministeriale. In ogni caso sembra evidente che la valutazione debba essere incentrata su didattica, ricerca e terza missione e sulla prova didattica. Il d. m. precedente 4 agosto 2011 (Criteri per l’individuazione degli standard qualitativi riconosciuti a livello internazionale per la valutazione dei ricercatori titolari dei contratti di tipo b ex art. 24, c. 5, legge n. 240/2010) determina l’oggetto della valutazione con riguardo all’attività didattica, all’attività didattica integrativa e di servizio agli studenti e alle attività di ricerca, per la valutazione dei ricercatori titolari dei contratti di tipo b. Entra nel dettaglio sulla valutazione delle attività delegando ai regolamenti di ateneo i quali però devono avere riguardo ad alcuni aspetti: per l’attività didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti si deve tener conto del numero dei corsi tenuti e continuità della tenuta degli stessi; esiti della valutazione da parte degli studenti etc. (art. 3). Per la valutazione dell’attività di ricerca scientifica, oltre ai criteri relativi alla valutazione delle pubblicazioni scientifiche analoghi a quelli utilizzabili nel momento dell’accesso, si deve tener conto [continua ..]
La professionalità dei docenti universitari deve essere pluridimensionale, ma in proporzioni diverse. La ricerca deve occupare il primo posto. Qui c’è il problema della sua valutazione, risolto in modo insoddisfacente nel nostro ordinamento con la presenza di un organismo “non indipendente”, non in grado di garantire le valutazioni approfondite che svolgono le comunità scientifiche, e con l’uso prevalente di indici quantitativi con la svalutazione anche del metodo del peer review. Purtroppo, quest’orientamento legislativo, per combattere il familismo accademico (la padella), cade nella valutazione casuale e falsa nei presupposti della produzione quantitativa e del sorteggio, sottraendola in buona parte all’occhio competente della comunità scientifica (la brace). Per quanto concerne gli altri aspetti c’è scarsa attenzione alla formazione scientifica sulle dimensioni richieste. Specie nel campo didattico le università richiedono metodologie nuove o attenzione per l’internazionalizzazione o la terza missione o la cura dei servizi per gli studenti. Ma non sono altrettanto assicurate per un verso la formazione scientifica per queste dimensioni dell’attività della docenza, né le università garantiscono pari opportunità per partecipare alla realizzazione delle iniziative in materia. Quindi le risorse economiche e l’arricchimento professionale sono disponibili solo per coloro che se ne fanno carico autonomamente ovvero sono scelti “a prescindere”, dal potere accademico. Le cose così non vanno bene e le negatività sono visibili. Si potrebbero accrescere le performance di docenti e università, cercando di contribuire all’inversione della disaffezione nei confronti della formazione superiore e partecipare più ampiamente all’edificazione di studenti/persone in grado di interfacciarsi con il contesto economico e sociale, costituendo una vera risorsa per il territorio. Circa cinque anni fa espressi (in buona compagnia) tale valutazione: “l’ordinamento mostra debolezze regolamentari nei confronti sia della politica, sia dei poteri accademici e, lungi dal porsi in funzione «anti-baronale», è spesso in rotta di collisione con i principi costituzionali, così come interpretati anche dalla giurisprudenza costituzionale, e alimenta un circuito [continua ..]