Il contributo analizza la tematica dello ius variandi nelle società a controllo pubblico che secondo la S.C. non è disciplinato dal d.lgs. n. 165/2001, ma dall’art. 2103 c.c. e dalle leggi sui rapporti di lavoro alle dipendenze di privati. Le disposizioni sia nazionali che regionali che fanno divieto alle società̀ a totale o maggioritaria partecipazione pubblica di procedere all’assunzione di nuovo personale non comportano una deroga all’applicazione, quanto alla disciplina delle mansioni, dell’art. 2103 c.c.
The contribution analyzes the issue of the ius variandi in publicly controlled companies which, according to the S.C. is not governed by Legislative Decree no. 165 of 2001, but by art. 2103 of the civil code and by the laws on employment relationships with private individuals, in the absence of a special derogatory discipline. The national and regional provisions which prohibit companies with total or majority public participation from hiring new staff do not entail a derogation from the application, as regards the regulation of duties, of art. 2103 of the civil code.
1. Premessa - 2. Sulla disciplina da applicare alla gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle società partecipate - 3. Il disallineamento dello ius variandi ascendente nella disciplina per i dipendenti pubblici e per il settore privato - 4. L’ultimo orientamento della Suprema Corte - 5. Spunti di riflessione - NOTE
La decisione n. 35421/2022 in commento, come la successiva 35422/2022, emesse dalla Suprema Corte affrontano la medesima problematica relativa a richieste di riconoscimento di mansioni superiori svolte di fatto da dipendenti di società partecipate. I lavoratori rivendicavano il diritto alla mansione superiore trovandosi nella situazione di cui all’art. 2103 c.c., non ritenendo necessario per l’acquisizione dell’inquadramento superiore il concorso pubblico. In particolare, le Corti distrettuali di Catania e di Messina negavano il diritto all’acquisizione del livello superiore da parte di due dipendenti non ritenendo applicabile l’art. 2103 c.c. e fondando la propria decisione sulla presupposta volontà del legislatore, nazionale e regionale, di estendere alle società partecipate i vincoli procedurali imposti alle amministrazioni pubbliche nella fase del reclutamento del personale e di passaggio a livelli superiori. Di diverso avviso è la Suprema Corte che, con le due richiamate (e convergenti) decisioni, ha riformato sia la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Messina, che quella emessa dalla Corte di Appello di Catania. Le argomentazioni delle Corti di appello fanno perno sulle disposizioni stabilite dall’art. 18 del d.l. n. 112/2008 nonché dalle leggi regionali siciliane n. 25 del 2008 e n. 11/2010, secondo cui le società partecipate si devono attenere al principio di riduzione dei costi del personale attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni. Le progressioni verticali, dunque, al pari di quanto avviene nell’impiego pubblico contrattualizzato, comporterebbero l’accesso ad un nuovo posto di lavoro e la novazione del rapporto, in quanto richiedono l’esperimento delle medesime procedure previste per le assunzioni. Una diversa interpretazione dell’art. 18 d.l. n. 112/2008 non sarebbe conforme al rispetto degli interessi generali (non solo di carattere economico) che il legislatore ha ritenuto dovessero essere perseguiti dalle società che utilizzano capitale pubblico. La Cassazione, invece, tenendo conto della natura privatistica della società a controllo pubblico e della qualificazione dei rapporti di lavoro che con la stessa si instaurano, dirime la questione sostenendo l’applicabilità dell’art. 2103 c.c. e non dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001. I fatti descritti mettono [continua ..]
Il controverso rapporto tra pubblica amministrazione e società a partecipata continua a dividere i giudici e gli studiosi e l’ambivalenza deriva dal fatto che l’esternalizzazione dei costi organizzativi dagli enti pubblici ad enti di diritto privato (in controllo pubblico o affidatari di attività di pubblico interesse) – perseguita sempre più spesso, perché può portare a risparmi di spesa e riduzione dei fabbisogni di personale all’interno delle amministrazioni – non comporta la trasformazione del carattere sostanzialmente pubblico delle attività svolte. In altri termini, v’è la tendenza ad ampliare l’ambito dei servizi pubblici, includendo non solo quelli aventi per oggetto attività economiche incidenti sulla collettività, ma anche quelli riguardanti attività volte a promuovere lo sviluppo socio-economico delle comunità locali, fino ad arrivare ad affidare a società partecipate addirittura funzioni che costituivano tipiche attività strumentali dell’ente. A fronte di una iniziale giurisprudenza della Suprema Corte che sembrava avvalorare l’opinione che si trattasse di enti quasi pubblici, considerando dunque tali società come una mera articolazione interna della pubblica amministrazione [1], sembra, invece, oggi confermata l’opposta ricostruzione che mette in luce come perfino la “società in house” [2] sia un tipo di società disciplinato da norme sue proprie e dalle norme di diritto privato. A tal proposito, il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica [3] – che ha come obiettivo dichiarato il riordino delle partecipazioni per esigenze di razionalizzazione e di contenimento della spesa pubblica – prevede che la disciplina applicabile alle «società a controllo pubblico, nonché le altre società partecipate direttamente da amministrazioni pubbliche o da società a controllo pubblico» [4] sia quella relativa alle «norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato», ove non derogate (art. 1, comma 3) [5]. L’art. 19, c. 1, inoltre, richiama il libro V del Codice civile e «le leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa», oltre che i contratti collettivi di diritto privato. Il testo [continua ..]
La disciplina applicare ai dipendenti di una società a controllo pubblico in caso di pretesa al diritto all’inquadramento superiore incide notevolmente sulla gestione dei rapporti di lavoro [9]. Con specifico riferimento allo ius variandi, la normativa è stata rivisitata più volte sia nel lavoro pubblico che nel lavoro privato con l’idea di far convergere le due discipline, intento che non sembra essere riuscito, tanto che permangono regole profondamente diverse. Se per il settore privato resta il diritto all’inquadramento superiore per svolgimento di fatto di mansioni superiori, così non è per il lavoro pubblico in cui permangono elementi di maggiore rigidità. Il reclutamento rappresenta il principale aspetto di disallineamento delle due discipline [10] in quanto nel caso del lavoro pubblico è comunque necessario il previo superamento di una procedura selettiva. Coerentemente con tale impostazione, diretta espressione del principio di concorsualità di cui all’art. 97 Cost., dunque, l’eventuale esercizio di mansioni superiori nel settore pubblico non potrebbe mai determinare gli effetti che l’art. 2103 c.c. dispone per l’analoga situazione nel settore privato, con la conseguenza che l’eventuale assegnazione fuori dei limiti consentiti è nulla, cioè è improduttiva di effetti, giuridici e contrattuali, e non ha rilievo ai fini delle progressioni in carriera [11]. Nel lavoro pubblico (tout court, diremmo) le progressioni in carriera, a norma dell’art. 52, c. 1 bis, d.lgs. n. 165/2001 – dopo la modifica ad opera dell’art. 3, c. 1, del d.l. 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2021, n. 113 – se disposte all’interno della stessa area [12], avvengono, con modalità stabilite dalla contrattazione collettiva, secondo “principi di selettività”, in funzione delle qualità culturali e professionali, dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito. Quando le progressioni sono invece disposte tra le aree e negli enti locali – ferma restando una riserva di posti comunque non superiore al cinquanta per cento di quelli messi a concorso – avvengono tramite “procedura comparativa” basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli [continua ..]
I dubbi interpretativi in ordine agli aspetti che attengono la gestione del rapporto di lavoro nelle società partecipate discendono dalla disciplina da applicare in caso del riconoscimento di mansioni superiori, considerato che alla tesi che dalla natura sostanzialmente pubblica del capitale impiegato dalla società controllata fa discendere l’applicazione dei medesimi principi dettati per l’impiego pubblico, si contrappone quella secondo cui sarebbero applicabili le norme relative al rapporto di lavoro di diritto privato. La Cassazione, nelle decisioni in commento, ha aderito a questo secondo orientamento evidenziando che la soluzione da dare alla questione controversa deve innanzitutto tener conto del sistema delle fonti, della natura privatistica della società a partecipazione pubblica, della qualificazione dei rapporti di lavoro che con la stessa si instaurano, elementi, questi, che univocamente indirizzerebbero verso l’applicabilità dell’art. 2103 c.c. e non dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001. Se il ragionamento seguito dai giudici di merito per escludere l’attribuzione definitiva della qualifica superiore poggia sull’art. 18 del d.l. n. 112/2008, che ha imposto alle società partecipate di attenersi nel reclutamento del personale ai medesimi principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità che stanno alla base del concorso pubblico (subordinando la valida instaurazione del rapporto di lavoro al previo esperimento di procedure di evidenza pubblica), la decisione in commento esclude che tale norma possa essere estesa anche per l’assegnazione di fatto a mansioni superiori, in quanto l’art. 2103 c.c. non si pone in contrasto con gli obblighi imposti in tema di reclutamento alle società a controllo pubblico. Nel rapporto di lavoro del settore privato, pertanto, l’attribuzione della qualifica superiore avviene all’interno del rapporto già costituito e non determina l’instaurazione di un altro rapporto, distinto dal precedente, sicché la progressione non può essere equiparata ad un’assunzione, come accade nel pubblico impiego [21]. L’art. 2103 c.c., infatti, in tutte le versioni succedutesi nel tempo – prevedendo la possibilità di assegnazione del lavoratore a mansioni diverse – considera il mutamento delle mansioni originarie come semplice modificazione [continua ..]
Il dato normativo valorizzato dalla Suprema Corte nelle sentenze in commento in base al quale, tenuto conto della natura privatistica delle società a partecipazione pubblica, una volta costituito il rapporto di lavoro attraverso il concorso, si applica per l’inquadramento superiore la disciplina privatistica, deve essere, tuttavia, sottoposto a verifica sulla base di un dato di realtà. Le società a partecipazione pubblica, infatti, a maggior ragione se svolgono servizi in house, hanno una stretta relazione con l’ente pubblico, ancor più nel caso in cui sia socio esclusivo di maggioranza, il cui vertice è elettivo. In altri termini, seppur chi gestisce le società partecipate non subisce “un rapporto di tipo autoritativo-gerarchico”, per usare le parole della Cassazione, è facile ritenere che chi viene nominato dal sindaco o da chi rappresenta l’amministrazione pubblica risulti a questi e alle loro richieste non indifferente. Potrebbe capitare, in ipotesi in cui l’influenza esercitata sia particolarmente forte, che la gestione del personale segua percorsi clientelari e poco trasparenti (quando non corruttivi) [22] e non tanto nel momento del reclutamento, che avviene attraverso un concorso, quanto proprio in quello della gestione del rapporto. Volendo estremizzare, un amministratore che è stato scelto da un politico potrebbe incaricare di svolgere mansioni superiori non il dipendente migliore, più efficiente e più produttivo, bensì proprio quello verso cui è legato da un rapporto di fiducia latu sensu. Nella realtà, quindi, seppur, sotto un profilo formale, l’interpretazione della cassazione trova solidi ancoraggi nei dati normativi, tuttavia il rischio è quello di incorrere in una eterogenesi dei fini, per cui il principio costituzionale di imparzialità e buon andamento è sì garantito nel momento della costituzione del rapporto di lavoro, ma rischia di perdersi nel momento in cui il lavoratore, assunto per svolgere determinate mansioni, venga poi incaricato (per ragioni patologiche, che mai seguirebbe un datore di lavoro privato) di svolgerne altre, anche di livello più elevato, senza alcuna garanzia di rispetto dei ricordati principi costituzionali e con la conseguenza che detto lavoratore rivendichi e ottenga l’inquadramento superiore. Potrebbe profilarsi l’ipotesi che [continua ..]