Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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Whistleblowing e mobbing: un connubio possibile nel pubblico impiego? (di Francesca Marinelli, Professoressa associata di Diritto del lavoro nell'Università degli Studi di Milano)


Il saggio, dopo una breve ricostruzione della normativa nazionale sul whistleblowing, si interroga sulla normativa vigente – il d.lgs. n. 24/2023 – soffermandosi, in particolare, sul suo ambito di applicazione oggettivo nel pubblico impiego, al fine di verificare se sia possibile utilizzare la suddetta normativa per denunciare condotte mobbizzanti. Segue un’analisi dei punti di forza e criticità di tale tesi.

Whistleblowing and mobbing: a possible combination in the civil service?

The essay, after a brief sum up of the national regulatory evolution of whistleblowing, analyses the objective scope of the discipline protecting the whistleblowers currently in force (Legislative Decree No. 24/2023), in particular focusing on the civil service in order to verify whether it is possible to use the aforementioned legislation to report mobbing conduct, highlighting strengths and criticalities of the aforesaid thesis.

SOMMARIO:

1. Premessa: oggetto, ragioni e limiti dell’indagine - 2. Sull’ambito di applicazione oggettivo del d.lgs. n. 24/2023 nel settore pubblico: è possibile denunciare condotte mobbizzanti? - 3. La definizione giurisprudenziale di mobbing - 4. L’ipotesi del mobbing come violazione protetta dal d.lgs. n. 24/2023 - 5. L’ipotesi del mobbing come ritorsione protetta dal d.lgs. n. 24/2023 - 6. Conclusioni: punti di forza e criticità della tesi - NOTE


1. Premessa: oggetto, ragioni e limiti dell’indagine

Il whistleblowing, termine utilizzato per indicare «la disciplina delle segnalazioni di illeciti da parte di chi ne sia venuto a conoscenza […] nel luogo di lavoro» [1], presenta due peculiarità degne di nota. In primis, si tratta di un istituto che, pur essendo stato “importato” solo recentemente [2] nell’ordinamento italiano (dietro l’impulso del diritto internazionale [3]), appare, da allora, in costante espansione. In secondo luogo, il whistleblowing si caratterizza per essere uno dei pochi ambiti nel quale il legislatore pare aver messo in atto un processo inverso rispetto a quello solito – oramai trentennale – di “esportazione” nel settore pubblico di pratiche proprie del settore privato [4]. La disciplina primigenia, contenuta nell’art. 1, c. 5, della c.d. «legge anticorruzione» (id est la legge n. 190/2012), era infatti non solo molto scarna, ma destinata esclusivamente al pubblico impiego. In particolare, la norma in parola, si limitava ad introdurre all’interno del d.lgs. n. 165/2001 un articolo ad hoc, il 54-bis, a tutela del dipendente segnalante illeciti. Questa è la ragione per cui tale normativa, implementata dapprima dal d.l. n. 90/2014, conv. con mod. in legge n. 114/2014 [5] (che ha dato vita all’Autorità Nazionale Anti-Corruzione – nel prosieguo ANAC – attribuendole un ruolo di regia dell’istituto) e poi, anche, dalle linee guida redatte dal­l’ANAC stessa [6], è rimasta in vigore appena un quinquennio [7]. Dietro sollecitazioni soprattutto internazionali [8], il legislatore ha deciso, infatti, con la legge n. 179/2017, di intervenire nuovamente sulla materia al fine non solo di riscrivere, arricchendolo, l’art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001, ma anche di introdurre una tutela specifica per i lavoratori segnalanti illeciti nel settore privato [9]. Tuttavia, anche questa nuova normativa, implementata anch’essa da linee guida ad hoc [10], è rimasta in vigore per poco più di un lustro [11]. La regolamentazione sovranazionale del whistleblowing, avvenuta ad opera della direttiva dell’Unione Europea 2019/1937 [12], ha infatti obbligato il nostro legislatore a riscrivere l’istituto. Da qui l’emanazione di una disciplina ben più corposa rispetto al passato (nonché agli [continua ..]


2. Sull’ambito di applicazione oggettivo del d.lgs. n. 24/2023 nel settore pubblico: è possibile denunciare condotte mobbizzanti?

Al fine di comprendere quale sia il campo di applicazione oggettivo del whistleblowing nel pubblico impiego, il primo sforzo da compiere è estrapolare, sia dal d.lgs. n. 24/2023, sia dalle linee guida ANAC, le disposizioni rilevanti. A ben guardare, nell’ambito del d.lgs. n. 24/2023 appaiono di interesse almeno sei articoli e, cioè: gli artt. 1, 2, 3, 16, 17 e 19. Nelle linee guida ANAC di rilievo appaiono, invece, due paragrafi inseriti nella parte I: il paragrafo 2, che riguarda appunto l’ambito oggettivo di applicazione del decreto, e il paragrafo 4.2 sulla tutela dalle ritorsioni. In particolare, dal combinato disposto di tutte le suddette disposizioni emerge, come anticipato in apertura (§ 1), che il d.lgs. n. 24/2023 tutela il whistleblower sia nella fase di segnalazione, sia nella fase successiva. In prima battuta il decreto in parola dà, infatti, protezione ai soggetti segnalanti sempre che, solo se e fintanto che questi ultimi denuncino (anche se in forma anonima qualora la persona segnalante sia stata successivamente identificata e abbia subito ritorsioni [42]), informazioni – comprese i fondati sospetti ma non quelle già totalmente di dominio pubblico [43] – di cui siano venute a conoscenza nell’ambito del contesto lavorativo [44] e riguardanti comportamenti, atti od omissioni commessi (o che sulla base di elementi concreti [45] potrebbero essere commessi) nell’organiz­zazione (o volti ad occultarli). Deve tuttavia trattarsi di illeciti amministrativi, contabili, civili o penali che ledono l’interesse pubblico o l’integrità dell’ammini­stra­zione pubblica e non riguardanti «contestazioni, rivendicazioni o richieste legate ad un interesse di carattere personale» del whistleblower o comunque attinenti «esclusivamente ai propri rapporti individuali […] di impiego, ovvero inerenti ai propri rapporti […] di impiego con le figure gerarchicamente sovraordinate» [46]. Sono dunque escluse, per le linee guida ANAC, in via esemplificativa: «le segnalazioni riguardanti vertenze di lavoro e fasi precontenziose, discriminazioni tra colleghi, conflitti interpersonali tra la persona segnalante e un altro lavoratore o con i superiori gerarchici, segnalazioni relative a trattamenti di dati effettuati nel contesto del rapporto individuale di lavoro in assenza di lesioni [continua ..]


3. La definizione giurisprudenziale di mobbing

La giurisprudenza che, come detto in chiusura del precedente paragrafo, in assenza di una regolamentazione legale dell’istituto, svolge da anni un ruolo di supplenza, è pressocché unanime nel definire il mobbing come una condotta «complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’am­biente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti o incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica» [55]. In particolare, perché ricorra la fattispecie, i giudici richiedono la prova del­l’esistenza di quattro elementi: «a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; [e, in ultimo,] d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi» [56] finalizzato ad escludere la vittima dal gruppo [57]. Da qui la peculiarità della fattispecie che deriva, da un lato, dal fatto che «il pregiudizio non discende da una manifestazione provvedimentale illegittima, ma dalla reiterazione di atti, comportamenti od omissioni [anche di per sé legittimi] che, complessivamente considerati, disvelano, nella loro oggettività, l’intento lesivo del mobber» [58] e, dall’altro lato, dalla considerazione che tale intento, essendo finalizzato alla emarginazione della vittima, implica la presenza di un gruppo. Ecco perché, per sanzionare il mobber i giudici si avvalgono da sempre, di fattispecie per così dire “ad ampio spettro” e cioè, principalmente [59], sul piano civilistico [60], della [continua ..]


4. L’ipotesi del mobbing come violazione protetta dal d.lgs. n. 24/2023

Se, alla luce di quanto detto nel paragrafo precedente, il mobbing appare come una reiterazione di comportamenti, atti od omissioni, posti in essere con intento vessatorio sul luogo di lavoro e aventi l’effetto di determinare un danno alla vittima, in quanto tale sanzionabile nel nostro ordinamento, civilisticamente, ai sensi degli artt. 2087 e 2043 c.c., nonché penalmente ex artt. 612-bis o 572 c.p., non vi è dubbio che esso possa essere ricompreso tra quei comportamenti, atti od omissioni, consistenti in illeciti civili o penali di cui si possa venire a conoscenza in un contesto lavorativo di cui parla il d.lgs. n. 24/2023 nel combinato disposto di cui agli artt. 1, c. 1, e 2, c. 1, lett. a)-1. Tuttavia, per determinare se esso possa rientrare tra le violazioni protette dal d.lgs. n. 24/2023, occorre chiedersi se nelle condotte mobbizzanti siano presenti anche gli altri due requisiti (uno positivo e l’altro negativo) richiesti dal decreto stesso. Occorre cioè capire, da un lato – e si tratta del requisito positivo – se il mobbing possa configurare un illecito lesivo «dell’interesse pubblico o dell’integrità dell’am­mini­strazione pubblica» (artt. 1, c. 1, e 2, c. 1, d.lgs. n. 24/2023) e, dall’altro lato – e si tratta del requisito negativo – se non rientri tra le «contestazioni, rivendicazioni o richieste legate ad un interesse di carattere personale» del whistleblower «che attengono esclusivamente ai propri rapporti individuali di lavoro […], ovvero inerenti ai propri rapporti di lavoro […] con le figure gerarchicamente sovraordinate» (art. 1, c. 2, d.lgs. n. 24/2023). Per quanto riguarda quest’ultimo requisito e, cioè, quello negativo, l’inter­preta­zione letterale della norma, pur imponendo di escludere le denunce di mobbing da parte di chi ne sia la vittima esclusiva, sembrerebbe nondimeno lasciare spazio a due ipotesi, seppur residuali. Infatti, il decreto in parola laddove estromette dal proprio ambito di applicazione solo le «contestazioni, rivendicazioni o richieste legate ad un interesse di carattere personale» del whistleblower che attengono «esclusivamente ai propri rapporti individuali […] di impiego pubblico […] ovvero inerenti a propri rapporti […] di impiego pubblico con le figure gerarchicamente sovraordinate», parrebbe [continua ..]


5. L’ipotesi del mobbing come ritorsione protetta dal d.lgs. n. 24/2023

Rimane ora da capire se, alla luce di quanto detto nel § 3, il mobbing possa rappresentare una ritorsione e, dunque, rientrare tra gli atti da cui il d.lgs. n. 24/2023 – attraverso il combinato disposto di cui agli artt. 3, c. 5, e 19, c. 1 – protegge i whistleblowers in quanto tali, nonché i soggetti ad essi legati da un rapporto qualificato e che operano nel medesimo contesto di lavoro [72]. In tal caso, le tutele approntate dal legislatore consistono: nella possibilità per le vittime di denunciare all’ANAC tali atti [73], nella loro nullità [74], nella previsione di sanzioni a carico dei responsabili delle suddette ritorsioni [75], ed infine, ma solo a favore dei whistleblowers – non anche dei soggetti aventi con gli stessi un legame qualificato –, un alleggerimento del­l’onere probatorio. Il d.lgs. n. 24/2023 prevede, infatti, una presunzione iuris tantum in favore del whistleblower sia nell’ambito dei procedimenti giudiziari e amministrativi, sia delle controversie stragiudiziali aventi ad oggetto l’accerta­mento di tali ritorsioni. Come già detto, il d.lgs. n. 24/2023, sulla falsariga del diritto sovranazionale [76], dà una definizione ampia di ritorsione: ai sensi dell’art. 2, c. 1, lett. m), lo è infatti «qualsiasi comportamento, atto od omissione, anche solo tentato o minacciato, posto in essere in ragione della segnalazione, della denuncia all’autorità giudiziaria o contabile o della divulgazione pubblica, che provoca o può provocare alla persona segnalante o alla persona che ha sporto la denuncia, in via diretta o indiretta, un danno ingiusto». Dall’elenco esemplificativo che lo stesso legislatore redige [77] è chiaro che le ritorsioni sono condotte, legate per provenienza o effetto (o entrambe le cose) al contesto lavorativo, non solo illecite (come ad esempio le molestie), ma anche lecite (come la modifica dell’orario di lavoro), mosse dal motivo unico e determinante della vendetta [78]. Se, alla luce di quanto visto nel § 3, è vero che il mobbing consiste in un insieme di comportamenti, atti o omissioni (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) provenienti dal datore di lavoro, dai suoi preposti o da altri dipendenti e posti in essere nell’ambiente di lavoro, con intento vessatorio, in modo sistematico e prolungato [continua ..]


6. Conclusioni: punti di forza e criticità della tesi

Per prima cosa, pare opportuno chiedersi se la possibilità di denunciare le condotte mobbizzanti attraverso la normativa a tutela del whistleblowing sia di qualche utilità. La risposta ad avviso di chi scrive non può che essere positiva e ciò anche qualora, d’accordo con una parte della dottrina, si cerchi di estrapolare dalla normativa lavoristica una specifica tutela contro le condotte mobbizzanti. Tale sforzo è stato fatto percorrendo diverse strade. Ora valorizzando il combinato disposto dell’art. 1, c. 1, del d.lgs. n. 165/2001 (laddove prevede che l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche debbano essere finalizzati, tra le altre cose, a «realizzare la migliore utilizzazione delle risorse umane nelle pubbliche amministrazioni, […] garantendo […] l’assenza di qualunque forma di […] violenza morale o psichica») con l’art. 7, c. 1, dello stesso decreto (laddove prevede che «le pubbliche amministrazioni garantiscono […] un ambiente di lavoro improntato al benessere organizzativo e si impegnano a rilevare, contrastare ed eliminare ogni forma di violenza morale o psichica al proprio interno») [79]. Ora facendo leva sull’obbligo di segnalazione di cui al d.lgs. n. 81/2008 e, in particolare, sul suo art. 20 laddove prevede, al c. 1, che «ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro», e al c. 2 che «i lavoratori devono in particolare: a) contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro; b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale; […]; e) segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto […] qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità […] per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e [continua ..]


NOTE