Nell’ambito del più ampio tema rappresentato dalla disciplina sulle incompatibilità dei lavoratori pubblici, il saggio approfondisce gli obblighi che l’art. 53, c. 9 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 impone al soggetto, privato o ente pubblico economico, che intende conferire un incarico ad un pubblico dipendente, soffermandosi in particolare sull’analisi dell’obbligo, di matrice pretoria, di svolgere autonome verifiche sulla sussistenza di cause che precludono il conferimento dell’incarico, come l’omessa autorizzazione, non potendosi limitare il conferente a considerare le dichiarazioni del dipendente.
Within the main topic of public employees’ incompatibility rules, the essay examines the obligations that art. 53, c. 9 of the legislative decree 30 March 2001, n. 165 requires the subject, private or public economic body, which wants to confer an assignment to a public employee. In particular, the analysis focuses on the obligation of the private employer, introduced by the Supreme Court, to carry out autonomous controls on the existence of reasons that can preclude the assignment, likewise the absence of the authorization by the public administration, given the employee’s statements are not enough.
Keywords: public administration – public employee – incompatibility– efficiency – impartiality – corruption – administrative – duty of diligence – administrative sanction.
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1. La più recente curvatura teleologica della disciplina sulle incompatibilità - 2. Gli obblighi del conferente ex art. 53 d.lgs. n. 165/2001 - 3. Ignoranza della condizione di pubblico dipendente e obbligo di controllo del conferente nel prisma della l. n. 689/1981 - 4. Primi spunti critici: fondamento e limiti dell’obbligo di controllo del conferente - 5. Segue. L’errore incolpevole sul fatto - 6. Quale ruolo per il conferente nel sistema delle incompatibilità? - NOTE
Alla disciplina in materia di incompatibilità del pubblico dipendente [1], quale proiezione nel diritto primario del principio di esclusività di cui all’art. 98 Cost. [2], gli interpreti hanno tradizionalmente ricondotto molteplici finalità. Essa mira, per un verso, a garantire il rendimento del lavoratore, e, dunque, di riflesso il buon andamento dell’amministrazione [3], inteso nei termini di efficacia ed efficienza sui quali questo principio si declina [4]. Si ritiene, infatti, che quest’obiettivo possa essere perseguito (anche) assicurando che il lavoratore pubblico dedichi al proprio ufficio la sua intera capacità lavorativa [5], ragion per cui – fatte salve le eccezioni tassativamente previste dalla legge [6] – gli si preclude di distrarre altrove le proprie energie, e, dunque, di intrattenere altri rapporti di lavoro, sia di natura subordinata [7], che autonoma, anche libero-professionale [8], ovvero ancora di esercitare attività d’impresa [9], o altra attività lavorativa che – seppur occasionale – sia idonea ad arrecare detrimento all’organizzazione e allo svolgimento del servizio affidato all’amministrazione di afferenza. Nel contempo, questa disciplina si propone di rafforzare l’obbligo di fedeltà del prestatore [10], contrastando la formazione di centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico [11], o finanche antagonisti ad esso [12], ed assicurando così l’imparzialità dell’amministrazione [13]. Il tutto facendo leva sulla presunzione per la quale un’attività extra-istituzionale, anche se occasionale purché retribuita in qualunque forma [14], può dare origine ad un conflitto di interessi. Ciò, salvo che l’attività non sia stata – ove la legge lo consente – preventivamente autorizzata dall’amministrazione di afferenza. In questa prospettiva, infatti, l’autorizzazione avrebbe la funzione di escludere la continuità/professionalità della prestazione (che unitamente alla remuneratività ne comporta l’incompatibilità assoluta ex art. 60 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3), ma anche di attestarne ex ante l’inidoneità a dare origine a conflitti di interesse, anche solo potenziali [15]. È proprio [continua ..]
Una simile rigidità interpretativa, come detto, permea anche la valutazione della condotta di chi tale incarico lo conferisce, specie se si tratta di un soggetto privato. In questo senso depone la peculiare interpretazione che la giurisprudenza offre dell’art. 53, c. 9, del d.lgs. n. 165/2001, laddove dal generale divieto per il conferente (privato o soggetto pubblico economico) di attribuire incarichi non autorizzati enuclea, sempre a carico di quest’ultimo, anche l’ulteriore obbligo di svolgere autonome verifiche – preventive e, come si dirà, indefinite nelle modalità di esecuzione – sullo status di “non dipendente pubblico” del soggetto che riceve detto incarico. Verifiche che, vale precisarlo sin d’ora, non sono ritenute conformi all’ordinaria diligenza – e, dunque, idonee a mandare esente il conferente dall’applicazione della gravosa sanzione ex art. 53, c. 9 – laddove si limitino alla ricezione di una dichiarazione del lavoratore che, pur essendo dipendente pubblico, nega espressamente detta circostanza, anche corredando la sua negazione con ulteriori attestazioni (ad esempio il curriculum vitae dal quale non emerge il rapporto di lavoro pubblico; il possesso della partita iva; l’iscrizione ad un albo professionale; l’ampia disponibilità oraria nello svolgere l’incarico conferito, ecc.). Quella in esame è una soluzione interpretativa alla quale la riflessione dottrinale – a quanto consta – non si è ancora dedicata compiutamente, ma che rischia di trovare ampia applicazione nel crescente numero di contenziosi in questa materia, replicandovi i diversi profili critici che la connotano, e di cui in seguito si tenterà di dire nel dettaglio. Prima di analizzare l’iter argomentativo sotteso a questa torsione della disciplina in senso punitivo, occorre, però, considerare le norme su cui esso poggia. Si tratta segnatamente di due nuclei di disposizioni: da un lato, quello che disciplina gli obblighi del conferente privato (art. 53, c. 9, 10, 11, 15 del d.lgs. n. 165/2001), dall’altro, quello che regola l’elemento soggettivo del trasgressore (art. 3 della l. n. 689/1981), che nel nostro caso si identifica con il soggetto-persona fisica che conferisce un incarico al pubblico dipendente in assenza della previa autorizzazione, ma che nel fare ciò agisce inconsapevole [continua ..]
L’obbligo di ottenere un’autorizzazione preventiva, eventualmente anche attraverso una richiesta diretta all’amministrazione da parte del conferente, può essere assolto – come logico – solo laddove quest’ultimo sia consapevole del fatto che il soggetto al quale intende conferire l’incarico è un dipendente pubblico, o ancor meglio un “agente della pubblica amministrazione” [37]. Vi sono, però, dei casi – tutt’altro che infrequenti, come dimostra la sensibile crescita del contenzioso – nei quali il pubblico dipendente non solo non provvede autonomamente ad avanzare la richiesta ex art. 53, c. 10, ma parimenti tace al conferente la sua condizione, o la dissimula, o finanche la esclude espressamente, anche accompagnando tale diniego con espresse dichiarazioni (ad esempio di ampia disponibilità oraria) o attestati (possesso della partita IVA, iscrizione ad albi professionali, ecc.) [38], facendo ciò con dolo (per evitare il rischio di vedersi opposto il diniego dell’amministrazione di afferenza) o perché anch’egli, in ragione della peculiare natura del suo rapporto di lavoro, non è pienamente consapevole di essere sottoposto all’art. 53 d.lgs. n. 165/2001 [39]. In queste ipotesi in cui il conferente agisce per ignoranza o perché indotto in errore sulla condizione di pubblico dipendente del soggetto al quale attribuisce l’incarico, la valutazione sulla sussistenza della sua responsabilità passa necessariamente attraverso l’analisi della seconda disposizione richiamata in precedenza, ossia l’art. 3 della l. n. 689/1981. Ciò in considerazione del fatto che la sanzione ex art. 53, c. 9 del d.lgs. n. 165/2001 si annovera tra le sanzioni amministrative pecuniarie alle quali tale legge trova applicazione oltre che per l’espresso richiamo dello stesso art. 53, anche in forza dell’art. 12 della stessa l. n. 689/1981 che ricomprende tali fattispecie nel proprio perimetro di operatività [40]. La circostanza per cui trova applicazione questa legge – manifestazione di quell’orientamento di politica criminale che mira ad arginare l’ipertrofia del diritto penale attraverso la c.d. «depenalizzazione» degli illeciti meno gravi [41] – impone allora di sviluppare il ragionamento che segue sia tenendo conto della [continua ..]
Sono diverse le considerazioni critiche che suscita una simile interpretazione del combinato disposto dell’art. 53, c. 9, del d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 3 l. n. 689/1981. In primo luogo, il tutt’altro che remoto rischio che l’omessa tipizzazione delle condotte oggetto dell’obbligo di controllo, unitamente all’imprevedibilità del grado di diligenza richiesto, traducano la responsabilità ex art. 53, c. 9 in una malcelata forma di responsabilità oggettiva del conferente. Egli, infatti, gravato anche dell’onere della prova sull’assenza di colpevolezza, non è mai nella condizione di sapere ex ante se ha agito con il grado di ordinaria diligenza richiesta dalla legge, atteso che tale accertamento dipende esclusivamente da una valutazione disancorata anche solo da regole generali. Venendo al merito delle argomentazioni svolte, occorre chiedersi in primo luogo se effettivamente esista l’obbligo per il conferente di verificare l’esistenza di condizioni che impediscono il conferimento dell’incarico. Detta altrimenti, occorre domandarsi se la condotta di chi non svolge alcun controllo sulla condizione di pubblico dipendente al momento del conferimento dell’incarico, ovvero si ‘accontenta’ delle dichiarazioni del dipendente, possa dirsi «colpevole» ai sensi dell’art. 3, c. 1, prim’ancora che affetta da «errore incolpevole» di fatto ai sensi dell’art. 3, c. 2. La domanda sorge perché non sembra cogliere nel segno l’argomentazione – riproposta tralaticiamente in tutti gli arresti della Suprema Corte – secondo cui l’esistenza di tale obbligo discenderebbe dalla necessità di garantire l’«effettività della disciplina sulle incompatibilità». Non spetta, infatti, al cittadino – che continua a rimanere terzo rispetto al rapporto di servizio – assicurare l’effettività delle disposizioni e l’applicabilità delle sanzioni. Al contrario, tale compito viene assegnato dalla legge espressamente alla pubblica amministrazione [71], che peraltro lo esercita – e visti gli interessi tutelati, lo deve esercitare – anche quale naturale prerogativa di controllo datoriale. Per ragionare dell’esistenza di un dovere di previa informazione e verifica da parte del conferente occorrerebbe, piuttosto, [continua ..]
Quanto detto sino ad ora consentirebbe di ritenere applicabile – in alternativa all’art. 3, c. 1 – anche la disciplina dell’errore di fatto di cui all’art. 3, c. 2, della l. n. 689/1981, a mente della quale l’agente non può considerarsi responsabile laddove agisce in ragione di un «errore incolpevole». Come detto in precedenza, per ritenere applicabile questa esimente l’errore deve atteggiarsi come «incolpevole», risultando tale solo quello «inevitabile», ossia quello nel quale l’agente è comunque incorso, pur avendo posto in essere ogni condotta che gli imponeva l’ordinaria diligenza, non riuscendo ad evitare così la violazione. Si ripropone, dunque, il medesimo giudizio operato per dare prova della carenza di colpa ai sensi dell’art. 3, c. 1, con l’aggiunta in questo secondo caso di un elemento ulteriore, vale a dire l’errore sul fatto, nel quale incorre il conferente per aver agito sulla base di una rappresentazione della realtà difforme da quella reale, ossia la diversa condizione lavorativa del soggetto che riceve l’incarico [86]. Atteso che l’errore può dirsi incolpevole, non occorrerà allora dare prova di ulteriori cause di esclusione della colpevolezza come il caso fortuito o la forza maggiore [87]. Considerato, infine, che la fattispecie esaminata potrebbe pienamente integrare l’errore di fatto ex art. 3, c. 2, l. n. 689/1981, non appare necessario invocare – come pure fa molta parte della giurisprudenza [88] – la diversa esimente della «buona fede» elaborata in materia di contravvenzioni, ed intesa come errore sulla liceità del fatto, tale da incidere sull’elemento psicologico dell’illecito. Questa esimente di matrice pretoria era venuta a formarsi per garantire delle aperture in favore dell’operatività dell’error iuris in ambito penale, avverso la rigida interpretazione del principio cristallizzato nell’art. 5 c.p. di ignorantia legis non excusat, prima della rilettura ad opera della Consulta. Si tratta di un’esimente che opera, quindi, in un frangente diverso rispetto al mero errore di fatto di cui all’art. 3, c. 2, vale a dire su quello dell’ignoranza della legge.
La tensione del legislatore a contrastare le distorsioni patologiche che affliggono il pubblico impiego, pur condivisibile nei fini, non sembra potersi spingere al punto tale da legittimare una lettura dell’art. 53 attraverso la quale si finisce – di fatto – per delegare a soggetti terzi, estranei al rapporto di servizio, attività naturalmente proprie dell’amministrazione datrice, come quella di svolgere gli opportuni controlli sull’osservanza del principio di esclusività del pubblico dipendente. Se la ratio sottesa all’inasprimento degli obblighi e delle sanzioni a carico del conferente, così come della loro interpretazione ad opera della giurisprudenza, si rinviene nell’intenzione di responsabilizzare il privato, rendendo anch’egli parte attiva nella più complessiva strategia di rafforzamento del vincolo di effettività, non deve dimenticarsi che il ‘concorso’ del conferente rimane quello di un soggetto pur sempre esterno al rapporto di servizio. Un soggetto che, peraltro, versa in una posizione di strutturale deficit informativo rispetto alla condizione lavorativa del dipendente, visto che nella generalità dei casi egli non dispone di poteri di investigazione tali da colmarlo con un apprezzabile grado di certezza. Non è (e non può essere) il conferente, dunque, il custode del vincolo di esclusività, ed è assumendo questa prospettiva che occorrerebbe rileggere l’intensità del dovere di diligenza che gli viene richiesto di osservare. Al contrario, sarebbe forse più opportuno potenziare altre modalità di verifica, tornando a collocarle nell’ambito di competenza più corretto, ossia quello della P.A. Come ben dimostrano gli eventi recenti sulla gestione della pandemia, l’amministrazione pubblica, latamente intesa, si è dimostrata capace di sviluppare sistemi di verifica massiva, anche automatizzati, capaci di operare mediante l’incrocio delle informazioni contenute in diverse banche dati, e che potrebbero presidiare il vincolo di esclusività in modo decisamente più efficiente di quanto non possa fare la responsabilizzazione (di fatto oggettiva) di soggetti terzi, spesso privi di informazioni e dei mezzi per ottenerle.