Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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Sulla dequalificazione professionale del personale infermieristico (di Alice Biagiotti, Assegnista in Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo)


Il presente contributo analizza i limiti all’esercizio del potere di ius variandi in peius nelle pubbliche amministrazioni alla luce dell’evoluzione normativa che ha connotato l’istituto a partire dalla “prima privatizzazione” del rapporto di lavoro pubblico. Particolare attenzione è riservata alla fase giudiziale di valutazione della prevalenza ovvero accessorietà delle nuove e meno pregiate mansioni di destinazione del prestatore, valutazione da cui dipende la verifica circa l’effettiva sussistenza di una ipotesi di ius variandi in peius. Chiude il contributo una riflessione sul danno da dequalificazione risarcibile, sulla sua natura e sui criteri di accertamento.

Parole chiave: Pubblico impiego – Comparto sanità – Categorie – qualifiche e mansioni – Ius variandi – art. 52 – D. Lgs.n. 165/2001 – Dequalificazione professionale.

This paper analyzes the limits to the exercise of the power of ius variandi in peius in public administrations in light of the normative evolution that has characterized the institution since the “first privatization” of the public employment relationship. Particular attention is given to the judicial phase of assessing the prevalence or ancillary nature of the new and less valuable duties of the employee’s destination, an assessment on which depends the verification as to whether a hypothesis of ius variandi in peius actually exists. The paper closes with a discussion of compensable de-qualification damage, its nature and and the criteria for assessment.

Keywords: Public work – Health sector – Categories – qualifications and tasks – Ius variandi – art. 52 – D. Lgs.n. 165/2001 – Deskilling.

MASSIMA(1): Nel pubblico impiego privatizzato, il lavoratore può essere adibito a mansioni accessorie inferiori rispetto a quelle di assegnazione, solo a condizione che sia garantito al medesimo lo svolgimento, in misura prevalente e assorbente, delle mansioni proprie della categoria di appartenenza, che le mansioni accessorie non siano completamente estranee alla sua professionalità e che ricorra una obiettiva esigenza, organizzativa o di sicurezza, del datore di lavoro pubblico. MASSIMA(2): In tema di dequalificazione professionale, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti. PROVVEDIMENTO: (Omissis) Con separati ricorsi depositati il 22.03.2021 ed il 25.03.2021 gli istanti indicati in epigrafe, premettendo di lavorare alle dipendenze dell’ASP di Catanzaro, rispettivamente, dall’1.06.2002, dall’1.11.2004, dal 19.06.1997 e dal­l’11.08.2005 con la qualifica di collaboratore professionale sanitario – infermiere, inquadrati nel livello D del CCNL Comparto Sanità Pubblica e di prestare servizio presso l’U.O.C. di Urologia del Presidio Ospedaliero di Lamezia Terme da novembre 2010, ad eccezione della Caruso, assegnata alla predetta struttura fin da novembre 2004, esponevano che, a causa della grave carenza di organico di personale di supporto, erano stati costretti a svolgere mansioni ausiliarie di “attività alberghiere”, di igiene personale dei pazienti e di assistenza generica agli stessi, nonché servizi di segreteria di reparto, ascrivibili alla figura dell’operatore socio-sanitario inquadrato nella categoria B del CCNL applicato. Deducevano, inoltre, che fino al mese di giugno 2018 era stato presente un solo O.S.S. in grado di coprire soltanto il turno diurno, lasciando scoperti quelli pomeridiano e notturno, oltre ai giorni festivi o a quelli in cui l’unità era stata collocata a riposo o aveva fruito di congedo, e che nei periodi saltuari in cui erano state presenti tre unità di O.S.S., a decorrere dal mese di luglio 2018, queste avevano consentito di coprire il turno mattutino e parzialmente quello pomeridiano. Chiedevano, pertanto, che l’Azienda Sanitaria convenuta venisse condannata al risarcimento del danno da demansionamento, quantificato in misura pari al 10% della retribuzione annuale spettante per ogni anno a decorrere dal 2016, ovvero in complessivi € 15.327,36 per (Omissis), in complessivi € 14.438,91 per (Omissis), in complessivi € 15.081,22 per [continua..]
SOMMARIO:

1. Il caso concreto - 2. Equivalenza e ius variandi in peius nel pubblico impiego - 3. Il principio di prevalenza - 4. Il danno da dequalificazione professionale: natura e onere della prova - NOTE


1. Il caso concreto

La pronuncia in esame s’inquadra nell’ambito di quel filone casistico, già emerso all’attenzione dei giudici, avente ad oggetto ipotesi di dequalificazione professionale degli infermieri [1]. La condotta contestata è consistita nell’impiego, da parte dell’Azienda Sanitaria di Catanzaro (e in particolare dell’U.O.C. di Urologia del Presidio Ospedaliero di Lamezia Terme), del personale infermieristico, inquadrato nel livello D del CCNL – Comparto sanità, in mansioni ausiliarie di attività alberghiere, di igiene personale dei pazienti, di assistenza generica agli stessi, nonché di servizi relativi a segreteria di reparto. Si è trattato di attività ascrivibili alla diversa figura dell’operatore socio-sanitario, afferenti, secondo la declaratoria contrattuale, alla categoria B del CCNL applicato. Più nel dettaglio, il personale infermieristico ha dedotto di essere stato adibito, a causa della grave e cronica carenza di operatori socio-sanitari (d’ora in poi O.S.S.), a mansioni inferiori in maniera continuativa e per la maggior parte del turno lavorativo. I ricorrenti hanno sostenuto, altresì, che all’interno del reparto fosse presente un solo O.S.S. in grado di coprire il turno diurno, lasciandosi, pertanto, completamente scoperti quelli pomeridiano e notturno, oltre ai giorni festivi o a quelli in cui l’unità fosse collocata a riposo o avesse fruito di congedo; situazione questa che si era verificata anche nei periodi saltuari in cui erano presenti più unità di O.S.S. Per tali ragioni, i ricorrenti hanno chiesto che l’Azienda Sanitaria venisse condannata al risarcimento del danno lamentato, quantificato in misura pari al 10% della retribuzione annuale spettante per ogni anno, a partire dal 2016. La convenuta ha eccepito, nel merito, la carenza di prova in ordine all’esplicita volontà datoriale di adibire i ricorrenti alle asserite mansioni inferiori, non pertinenti alla qualifica rivestita. Tanto premesso, il giudice ha ritenuto illegittima l’adibizione dei lavoratori alle mansioni di operatore socio-sanitario, siccome inferiori rispetto a quelle di assunzione, e ravvisandovi conseguenze pregiudizievoli a carico dei prestatori, ha accolto in buona parte le pretese dei ricorrenti. In particolare, ha riconosciuto la sussistenza di un danno da demansionamento, per quanto circoscritto [continua ..]


2. Equivalenza e ius variandi in peius nel pubblico impiego

Il primo interrogativo posto all’attenzione del giudice riguarda, come si è visto, l’ammissibilità di un’assegnazione dei lavoratori a mansioni corrispondenti a un livello di inquadramento diverso e inferiore rispetto a quello di appartenenza. La questione involge un problema più ampio e generale relativo ai limiti posti al datore di lavoro pubblico nell’esercizio dello ius variandi, allorché quest’ultimo si esplichi nelle forme della mobilità verticale “verso il basso”. Se si guarda al tema da un punto di vista storico-evolutivo, punto di partenza obbligato è il regime antecedente alla c.d. privatizzazione, quando per la quasi totalità dei rapporti di pubblico impiego, venivano privilegiate le “funzioni” rispetto alle mansioni, intendendosi per “funzioni” «un momento organizzativo assai generico» [2], suddivisibile in una molteplicità di compiti. A tal stregua, l’impiegato pubblico – diversamente dal prestatore di lavoro subordinato – non veniva assunto «per una prestazione di opere determinate dalle mansioni, bensì per una prestazione continuativa al servizio dell’ufficio» [3] cui era nominato, previo superamento del concorso pubblico (art. 97 Cost.). Perciò, l’attribuzione delle “funzioni” presupponeva un ampio potere dell’amministrazione circa l’utilizzo del dipendente, le cui competenze e responsabilità potevano in un certo senso affievolirsi a fronte, ad esempio, di esigenze organizzative particolari. Ciò significava per il lavoratore pubblico poter essere chiamato, allorché solo in via eccezionale e temporanea, a svolgere funzioni anche di qualifica inferiore senza, però, alcuna compromissione dei possibili sviluppi di carriera o del trattamento economico spettante [4]. In siffatto sistema, era evidente come venisse trascurata la tutela della professionalità, che per i lavoratori privati, invece, era assicurata dal principio di equivalenza dell’art. 13 della l. n. 300/1970 (c.d. Statuto dei lavoratori). Con la “privatizzazione”, realizzatasi in origine ai sensi del d.lgs. n. 29/1993, la materia del lavoro pubblico è stata, tuttavia, ricondotta alle regole privatistiche del contratto e dell’autonomia privata individuale e collettiva [5]; in altri [continua ..]


3. Il principio di prevalenza

Non è un caso che il secondo interrogativo posto all’attenzione del giudice sia stato proprio quello della possibilità di considerare effettivamente rispettata la regola di equivalenza considerato che le mansioni di destinazione erano sicuramente di area inferiore, ma assegnate per una sola parte del turno di servizio, rimanendo i lavoratori per l’ulteriore parte del medesimo impegnati nelle loro ordinarie mansioni di area D. La questione chiama in causa, come si diceva, il tema delle “mansioni promiscue” nel pubblico impiego e della applicabilità di quel principio di prevalenza, tradizionalmente chiamato a fungere da criterio orientativo in merito all’effettiva assegnazione piena ovvero solo marginale a mansioni inferiori. Il principio di prevalenza, un tempo espressamente previsto dall’art. 56 con riferimento all’adibizione a mansioni inferiori, non è però più contemplato, a tal proposito, dall’art. 52 del TUPI, il che potrebbe indurre a propendere per una sua caducazione a riguardo. Il principio è stato, tuttavia, riproposto esplicitamente al c. 3, dell’art. 52 dianzi citato, secondo cui «si considera svolgimento di mansioni superiori ai fini del presente articolo, soltanto l’attribuzione in modo prevalente sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni». A tal stregua, non pare potersi revocare in dubbio l’esistenza di una più generale regola di prevalenza nella valutazione del contenuto professionale dell’attività lavorativa dei pubblici impiegati, regola dettata, certo, ora, con riguardo allo ius variandi in melius, ma del tutto trasponibile, a rigor di logica, anche a quello in peius. Ad ogni modo, se anche così non fosse stato, e cioè ove l’art. 52 avesse mantenuto un silenzio assoluto a riguardo, sarebbero intervenuti comunque i principi generali della c.d. privatizzazione (art. 2, TUPI) per i quali, in assenza di specifica disciplina derogatoria delle previsioni privatistiche, è sempre necessario orientarsi nel senso dell’applicazione delle disposizioni del diritto privato del lavoro secondo la lettura offertane dalla giurisprudenza. Ed invero, al cospetto di “mansioni promiscue”, i giudici del lavoro hanno sempre invocato, nel settore privato, l’applicabilità del criterio di [continua ..]


4. Il danno da dequalificazione professionale: natura e onere della prova

Un terzo interrogativo posto all’attenzione del giudice ha riguardato la tutela nei confronti delle vittime, per così dire, dell’atto di ius variandi in peius. Scontata la nullità di tale atto, la tutela è, da un punto di vista più generale, in primis reintegratoria, poi anche risarcitoria, quest’ultima rilevante nel caso di specie. A tal proposito, va subito detto che il danno da dequalificazione professionale può acquisire una duplice connotazione. Si parla di danno patrimoniale qualora il demansionamento abbia determinato l’impoverimento della capacità professionale del lavoratore o la mancata acquisizione di maggiori capacità, con la connessa perdita di chances ovvero di ulteriori possibilità di guadagno. Differentemente nel caso in cui il demansionamento abbia provocato una lesione della dignità lavorativa. In questa ipotesi, si configura un danno non patrimoniale, atto a comprendere unitariamente sia l’eventuale lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, sia il danno esistenziale, da intendersi come ogni pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo anche a scelte di vita diverse [17]. Una volta riconosciuto dal diritto vigente il valore della persona in generale, il risarcimento del danno non può, infatti, rimanere circoscritto ai soli danni patrimoniali ma estendersi anche ai danni personali, purché verificati. Tant’è che è prevalsa una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., quale unica norma disciplinante il danno non patrimoniale, risarcibile «ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente, nonché all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore» [18]. Nel caso di specie, la modifica in peius delle mansioni ascritte al lavoratore è stata certamente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, atteso che la competenza e l’esperienza acquisite nell’espletamento della prestazione sono [continua ..]


NOTE