Richiamata la disciplina regolamentare dell’Agenzia delle Entrate ed il d.l. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24, dichiarato incostituzionale unitamente alle disposizioni di proroga dalla Corte costituzionale con sentenza n. 37 del 25 febbraio 2015, l’Autore – dopo aver passato in rassegna gli istituti giuridici affini in materia di pubblico impiego privatizzato e constatato la mancata esistenza di un fondamento normativo a sostegno della peculiare ed illegittima prassi di affidamento di incarichi dirigenziali a funzionari adottata dall’ente – esamina le criticità rilevate e le ragioni a sostegno della mancata costituzione di un nuovo rapporto a termine di natura dirigenziale. L’analisi prende avvio dalla sentenza n. 14814/2020 con cui la Corte di Cassazione ha dichiarato manifestatamente infondata l’istanza di rinvio pregiudiziale al giudice dell’Unione europea della questione di compatibilità delle disposizioni in esame con la direttiva sul contratto a termine.
The Author – after having reviewed the similar legal institutions in the field of privatized public employment and having ascertained the lack of a legal basis in support of the peculiar and illegitimate practice of assignment of offices management to officials adopted by the institution (provided for by the internal regulation and by Legislative Decree 2 March 2012, n. 16, art. 8, paragraph 24, declared unconstitutional by the Constitutional Court) – examines the critical issues identified and the reasons supporting the failure to establish a new executive term relationship. The analysis starts with sentence no. 14814/2020 of the Supreme Court.
Keywords: Public employment – Assignment of managerial duties – Failure to establish a new fixed-term employment contract – Refused to execute an ineffective contract.
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1. Ipotesi di inquadramento di una peculiare fattispecie: l’affidamento di mansioni superiori - 2. … L’istituto della reggenza: le ragioni di un’esclusione - 3. … Il conferimento di incarichi dirigenziali: categoria giuridica più appropriata ma “non adattabile” - 4. Mancata costituzione di un nuovo contratto di lavoro a termine di natura dirigenziale - 5. Legittimo rifiuto a dare esecuzione ad un rapporto nullo - 6. Cenni conclusivi: tendenze dell’ordinamento verso strumenti agili di gestione - NOTE
L’interessante pronuncia in rassegna, innovativa poiché tenta di risolvere secondo l’ottica dei tradizionali istituti lavoristici l’annoso problema della qualificazione degli (abusivi, quanto reiterati) incarichi dirigenziali assegnati ai funzionari dell’Agenzia delle Entrate, offre lo spunto per alcune riflessioni sull’istituto dell’affidamento a mansioni superiori, della reggenza e delle posizioni organizzative nel pubblico impiego privatizzato, anche in rapporto all’incidenza dell’incarico sul rapporto di lavoro in essere. La questione interpretativa, stante la caducazione delle norme poste a fondamento dell’esercizio delle funzioni dirigenziali da parte dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate (a seguito del “tormentato” quanto noto percorso, ben sintetizzato dalla Suprema Corte con la pronuncia in commento, conclusosi con la sentenza della Corte costituzionale n. 37 del 25 febbraio 2015 [1]), sorge a causa dell’infelice drafting normativo [2] sia dell’art. 24 del regolamento di organizzazione della Agenzia delle Entrate che del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, c. 24 [3] (come vigente prima della dichiarazione di incostituzionalità) laddove rispettivamente si prevedeva la stipula “di contratti individuali di lavoro a termine” con i propri funzionari ai quali veniva attribuito lo stesso trattamento economico dei dirigenti (così il regolamento di amministrazione, ex art. 24) ovvero di “contratti di lavoro a tempo determinato” (così il d.l. n. 16/2012, art. 8, come convertito). Il legittimo dubbio, che ha contributo ad ingenerare aspettative di stabilizzazione nei funzionari coinvolti producendo un considerevole contenzioso ad oggi non del tutto sopito, scaturisce – oltre che, come accennato, dalla poco felice tecnica di redazione legislativa/regolamentare della peculiare fattispecie – dal tentativo di ricerca di una “valida giustificazione” normativa. Un prima ipotesi, da vagliare, è quella che consente di affidare ai dipendenti pubblici mansioni superiori [4] ex art. 52, d.lgs. n. 165/2001, così come modificato dall’art. 62, d.lgs. n. 150/2009, per la copertura dei posti vacanti in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici mesi in caso di avvio della relativa procedura concorsuale per la copertura della posizione. [continua ..]
L’assegnazione di incarichi dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica può, invece, avvenire mediante l’istituto della reggenza (regolato in generale dall’art. 20 del d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266), che consente di garantire la funzionalità dell’ufficio amministrativo che sia rimasto scoperto (per il verificarsi di una causa imprevedibile) per il tempo necessario alla copertura del posto di lavoro mediante il pubblico concorso. La fattispecie consentirebbe così il conferimento del-l’incarico di reggenza dell’ufficio pubblico temporaneamente sprovvisto del dirigente titolare, in via eccezionale, nel caso in cui la vacanza di una posizione dirigenziale, dovuta come accennato poc’anzi a cause imprevedibili, possa compromettere il corretto svolgimento dell’attività dell’amministrazione al fine di assicurare la continuità dell’azione pubblica. Solo in questa ipotesi, comunque contrassegnata dalla straordinarietà e dalla temporaneità quali elementi irrinunciabili, il funzionario può essere adibito a mansioni dirigenziali, ma solo qualora sia stato già aperto il procedimento di copertura del posto vacante e, quanto al lasso temporale, per il tempo ordinario strettamente necessario alla sua conclusione [9]. Il singolare istituto regolato dall’art. 8, c. 24, d.l. n. 16/2012 (così come convertito), ad onor del vero, non presentava quei requisiti di straordinarietà e temporaneità richiesti dalla legge a giustificazione dell’attribuzione di funzioni di dirigente a personale privo della relativa qualifica, stante le reiterate proroghe del termine per l’espletamento delle procedure concorsuali ed il (volontario) dilatarsi del tempo strettamente necessario. In particolare, la norma integrava una violazione del requisito della temporaneità in ben due occasioni: la prima negli interventi di proroga operati dal legislatore per due volte (che consentivano, di fatto, il rinnovo degli incarichi dirigenziali già affidati) e, la seconda, nel riferimento temporale al momento di assunzione dei vincitori del concorso, che potendo avvenire anche dopo un certo lasso di tempo dalla conclusione delle procedure concorsuali, di fatto, ammetteva che anche per questo ulteriore ed indefinito periodo potessero essere rinnovati incarichi dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica, [continua ..]
Con buona probabilità, la disciplina contenuta nel d.lgs. n. 165/2001 che più si avvicina a quanto, di fatto, reiterato nel tempo per i funzionari delle Agenzie fiscali è quella sul conferimento degli incarichi dirigenziali ex art. 19, c. 6, che si pone come una norma speciale e derogatoria dei principi generali vigenti. Essa prevede la possibilità di attribuire funzioni, oltre che a professionalità esterne alla PA, anche a dipendenti amministrativi senza la qualifica dirigenziale, purché in possesso di una adeguata professionalità ed idoneità all’incarico stesso, con la precisazione che l’incarico deve avere un carattere temporaneo, al fine di evitare che tale strumento possa essere utilizzato per promozioni ad personam o come meccanismo di attribuzione di mansioni superiori. La stessa previsione di conferimento dell’incarico mediante atto motivato ha lo scopo di poter verificare l’applicazione dei criteri di apprezzamento, di imparzialità e buona fede e che non vi siano state decisioni irragionevoli od arbitrarie [15]. Da tale disposizione, tuttavia, si presume la subordinazione della possibilità di conferire detti incarichi a tempo determinato anche a dipendenti non dirigenti alla fissazione di un termine che sia certo e preciso, probabilmente inferiore a tre anni e strettamente connesso al tempo necessario per l’esperimento della procedura concorsuale [16]. L’imperatività delle norme e dei principi che sottendono all’istituto giuridico del conferimento di incarichi dirigenziali si evince anche dal c. 12 bis, art. 19, d.lgs. n. 165/2001 che stabilisce la non derogabilità delle disposizioni in tema di incarichi da parte dei contratti e degli accordi collettivi. Sovviene ad ulteriore giustificazione “sistemica” sempre la disciplina generale in tema di pubblico impiego di cui al d.lgs. n. 165/2001 che, all’art. 17, c. 1-bis, aggiunto dall’art. 2, l. n. 145/2002, prevede che i dirigenti, per determinate ragioni di servizio, possano delegare alcune specifiche competenze a dipendenti che ricoprono le posizioni funzionali più elevate nell’ambito degli uffici ad essi affidati. Ciò sempre per un tempo determinato e senza che tale delega possa comportare l’assegnazione definitiva della posizione dirigenziale. Anche l’istituto della delega è, tuttavia, [continua ..]
Il conferimento dell’incarico è avvenuto, in sostanza, come ben evidenziato dalla pronuncia in esame, con le medesime modalità con le quali viene conferito l’incarico al dirigente di ruolo, sul presupposto di un rapporto di lavoro subordinato già esistente ed in esecuzione di quest’ultimo (e non, invece, con la creazione di un nuovo rapporto di lavoro di natura dirigenziale). Con tutta evidenza, stante l’inapplicabilità di ognuna delle ipotesi normative poc’anzi analizzate (stante la, pur parziale, maggiore “contiguità” alla previsione di cui all’art. 19, c. 6, d.lgs. n. 165/2001) [19], si è assistito alla creazione di una sorta di “mostro giuridico” (sconosciuto al nostro ordinamento di diritto positivo) e al consolidamento di una prassi illegittima [20] nell’ambito di una delicata materia (avuto riguardo anche alle essenziali funzioni demandate alle Agenzie fiscali) disciplinata da norme prevalentemente imperative e, per così dire, protetta dallo “scudo” costituzionale di rilevanti principi quali l’uguaglianza, le pari opportunità dell’accesso agli uffici pubblici ed il pubblico concorso (di cui agli artt. 3, 51 e 97 Cost.). Per dirla con le lapidarie parole della giurisprudenza amministrativa, “la reiterata applicazione della norma regolamentare illegittima ha, di fatto, determinato una grave situazione di illegittimità in cui ha versato per anni l’organizzazione dell’Agenzia delle Entrate, determinandosi uno scostamento di proporzioni notevoli tra situazione concreta e legittimità dell’organizzazione amministrativa. In sostanza, l’amministrazione finanziaria nel suo complesso è stata oggetto di una conformazione che l’ha posta, nelle proprie strutture di vertice, e per anni, al di fuori del quadro delineato dai principi costituzionali” [21]. Nonostante le (insormontabili) difficoltà nell’individuare un solido fondamento normativo compatibile con il dettato costituzionale, la sentenza in commento coglie senz’altro nel segno laddove statuisce la mancata costituzione di un nuovo rapporto di lavoro subordinato dirigenziale a termine visto che l’incarico, anche sul piano fattuale, si inserisce nel contratto di lavoro a tempo indeterminato già stipulato (mai, peraltro, sospeso) e, con [continua ..]
La pronuncia in rassegna, dopo aver rammentato che nell’ambito del lavoro pubblico privatizzato gli atti di gestione del rapporto di lavoro sono adottati con i poteri e le capacità del privato datore di lavoro, ha ribadito, confermando così il condivisibile orientamento prevalente in materia [23], che il comportamento dell’Amministrazione pubblica che revochi un incarico dirigenziale sul presupposto della nullità del suo conferimento equivale alla condotta del contraente che non osservi il contratto da lui stipulato ritenendolo inefficace perché affetto da nullità. In altri termini, se l’atto di conferimento risulta in contrasto con una norma imperativa, l’ente pubblico, che è evidentemente tenuto “a conformare la propria condotta alla legge, nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 97 Cost., ben può sottrarsi unilateralmente all’adempimento delle obbligazioni che trovano titolo nell’atto illegittimo” (v. punto 32 sentenza in commento), a prescindere dallo strumento formalmente impiegato. Ne consegue che l’emanazione di provvedimenti autoritativi non può trovare applicazione nel rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni che, a seguito della c.d. privatizzazione, risulta caratterizzato da una sostanziale parità tra le parti ed è regolato dalla contrattazione collettiva di settore oltre che, attualmente, dal d.lgs. n. 165/2001. Giova sottolineare che la soluzione giuridica seguita dalla Corte di Cassazione si inquadra nell’ambito della rinnovata disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Per lungo tempo, infatti, il riconoscimento della natura pubblica del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. ha comportato notevoli differenze rispetto al rapporto di lavoro privato, di tal che la disciplina del rapporto di lavoro pubblico si configurava come unilaterale perché rimessa alle fonti di diritto pubblico, la contrattazione collettiva trovava spazio limitato e gli atti di gestione del rapporto erano assoggettati alla disciplina dei provvedimenti amministrativi, espressione della potestà pubblicistica dell’Amministrazione, in cui ben trovava collocazione il potere di autotutela [24]. Nell’autotutela si esplica non solo il potere di riesame e quello di esecuzione coattiva del provvedimento, ma anche in quello di decisione dei [continua ..]
I principi ribaditi nella pronuncia in esame, condivisibile pur con le criticità evidenziate in ordine alla difficoltà di inquadrare la fattispecie sul piano normativo, si inseriscono certamente in un contesto del tutto peculiare, valorizzato anche dal (coraggioso) arresto della Corte costituzionale, ove da un lato si assiste ad un pur parziale declino del puro paradigma privatistico e, dall’altro, si accentua la tendenza del lavoro pubblico privatizzato verso forme di lavoro c.d. agile. Sul primo profilo, la pronuncia della Corte costituzionale fatta propria dalla Suprema Corte, oltre a rilanciare la centralità del principio del pubblico concorso, può inscriversi in quella corrente di pensiero convinta che l’idea stessa che l’organizzazione amministrativa possa riformarsi con “ricette” puramente aziendali stia incontrando crescenti resistenze. Com’è stato osservato, non vi è dubbio che “lo spirito delle riforme amministrative intraprese all’inizio del ventunesimo secolo sia cambiato rispetto al passato. La cieca confidenza in un insieme universale di misure di sicuro e immediato successo è venuta meno. È questa la conseguenza del superamento di un’acritica fiducia nell’impianto teorico e pratico del liberalismo politico e economico, che aveva ispirato le riforme degli ultimi quindici anni del ventesimo secolo” [25]. Tuttavia, anche in un’Agenzia sui generis come quella delle entrate si può ritenere che il tratto caratterizzante della sua “specialità” organizzativa si collochi nella regolazione incentivante il conseguimento di obiettivi e risultati [26]. Se questa funziona effettivamente, allora essa merita di avere un’autonomia organizzativa tale da discostarsi in parte dal paradigma burocratico, anche nella scelta dei dirigenti, pur sempre nel rispetto del principio del concorso [27]. Viceversa, se la separazione politica-amministrazione e la preferenza per l’alta competenza professionale del vertice dell’Agenzia non riescono a produrre gli effetti virtuosi cui prima si accennava, se ne dovrebbero trarre le conseguenze. In tale ultima ipotesi, forse, si potrebbe giudicare opportuna la sua soggezione al diritto pubblico, costatando la necessaria recessività della sua autonomia organizzativa. Sul secondo profilo, invece, il sistema sembra continuare a muoversi [continua ..]