L'autore si sofferma sui risultati inattesi e sugli effetti distorti prodotti dalle riforme del lavoro pubblico e dell’organizzazione amministrativa avviate negli anni novanta del secolo scorso. La chiave di lettura è basata sulla rilevazione dell'incapacità di tutti gli attori di svolgere in pieno il proprio ruolo. In particolare, le maggiori responsabilità vanno attribuite ai decisori politici che non hanno mai voluto perdere il pieno dominio delle pubbliche amministrazioni, preferendo la loro fidelizzazione politica. Gli anni recenti sono stati caratterizzati da interventi di carattere emergenziale che presentano poche luci e molteplici ombre. L'auspicio è quello che si diffonda un nuovo approccio ai persistenti problemi delle pubbliche amministrazioni, in cui la stella polare sia rappresentata dall'obiettivo di realizzare un'amministrazione effettivamente al servizio dei cittadini.
The author focuses on the unexpected results and distorting effects of the reforms of public work and administrative organisation initiated in the 1990s. The main key is based on the revelation of the inability of all actors to fully play their role. In particular, the greatest responsibility lies with the political decision-makers who never wanted to lose full control of public administrations, preferring their political affiliation. Recent years have been characterised by emergency measures with few lights and many shadows. The hope is that a new approach to the persistent problems of public administrations will become widespread, in which the polar star is represented by the target of achieving an administration that is truly at the service of citizens.
1. Premessa. La svolta riformatrice degli anni novanta del secolo scorso. Le origini, gli obiettivi, gli effetti - 2. Le politiche dei vari cicli riformatori - 3. La pandemia e il PNRR - 4. I nuovi reclutamenti pubblici - 5. Le nuove progressioni verticali e la relativa procedura transitoria - 6. Gli interventi sulla disciplina della dirigenza pubblica - 7. Le novità introdotte dal d.l. n. 36/2022 - 8. Il ruolo delle parti sociali nell’attuazione del PNRR - 9. I nodi da affrontare … e sciogliere … - 10. Politica e amministrazione: un rapporto sempre conflittuale. La questione dell’autonomia della dirigenza pubblica - 11. La valutazione della qualità dei servizi e il controllo democratico dell’amministrazione
Non va mai dimenticato che il grande processo di riforma delle pubbliche amministrazioni, avviato nei primi anni novanta del secolo scorso, aveva come obiettivo principale quello di introdurre logiche aziendali e manageriali nelle modalità di funzionamento degli apparati pubblici. L’idea guida, ispirata al modello del New Public Management (allora alquanto in voga), era quella di una modernizzazione della pubblica amministrazione in cui l’accento prevalente fosse posto sui risultati, sull’efficienza e sull’efficacia dell’azione amministrativa, avendo di mira il soddisfacimento degli interessi dei cittadini, in quanto utenti dei servizi pubblici. Il che implicava, sul piano organizzativo, l’abbandono (o quantomeno il temperamento) del cosiddetto modello burocratico e il passaggio all’adozione del cosiddetto modello d’impresa. Tale percorso riformatore – che sfruttava la “finestra di opportunità” al policy change aperta da cause esogene ed endogene – è stato imperniato su due cardini principali. Il primo è quello della «privatizzazione» e della «contrattualizzazione» del rapporto di lavoro. Privatizzazione consistente nel mutamento del regime giuridico di quest’ultimo e il conseguente assoggettamento del medesimo rapporto alla regolazione privatistica generale. Ciò seppure con la cautela dovuta alla necessità di mantenere alcuni profili di disciplina speciale in funzione dell’esigenza della salvaguardia di preminenti interessi pubblici. Contrattualizzazione intesa come valorizzazione del metodo contrattuale/bilaterale di regolazione degli interessi, rispetto alla tradizione in cui prevaleva l’unilateralismo nella regolamentazione del rapporto di lavoro e delle relazioni sindacali. Il che avrebbe dovuto essere funzionale ad un recupero di efficienza della pubblica amministrazione, eliminando rigidità, vincoli e cumuli eccessivi di tutela provenienti dal regime pubblicistico e da un tormentato decennio di ibridazione del sistema regolativo causato dalla conflittuale convivenza tra regolazione unilaterale e contrattazione collettiva. Il secondo cardine della riforma è quello dell’affermazione del principio di distinzione tra i compiti di programmazione, indirizzo e controllo degli organi politici e i compiti di amministrazione attiva affidati, in via esclusiva, alla dirigenza [continua ..]
Nella successione di riforme o di quasi-riforme che si è sviluppata dopo il 1998, e cioè al termine della cosiddetta fase 2 della privatizzazione avviata con la l. delega n. 59/1997 (in quanto la fase 1 origina dalla l. delega n. 421/1992), non si riscontra una reale volontà del decisore politico di correggere i difetti del progetto originario, in modo da renderlo efficace; bensì interventi, in sostanza, del tutto in controtendenza. Con la riforma Frattini del 2002 non si toccano i punti deboli del rapporto tra politica e amministrazione, in cui prevale la contiguità strutturale, data dal sistema di preposizione agli incarichi dirigenziali, dalla loro temporaneità, e dalla mancanza di una connessione stringente tra valutazione del dirigente e rinnovo dell’incarico. Invece, nel 2002 sì è lanciato un chiaro segnale di ulteriore precarizzazione e di fidelizzazione politica della dirigenza, che, per giunta, viene recepito da tutte le amministrazioni territoriali, attraverso la moltiplicazione delle fattispecie di spoils system. La riforma Brunetta del 2008-2009 si concentra, anche per evidenti ragioni di marketing politico, sulla lotta nei confronti dei lavoratori “fannulloni” e dei loro sindacati: indicati come i responsabili di tutti i mali delle pubbliche amministrazioni. Essa crea un apparato virtuale, in cui sembra essere messa al primo posto la parola d’ordine della valutazione della performance degli apparati pubblici e del personale. Ma l’apparente logica aziendalistica così adottata, si risolve nello spogliare il dirigente di effettivi poteri manageriali e assoggettandolo a vincoli procedurali e controlli (innescando un percorso ancora oggi in atto), tanto intensi da sottrargli ogni discrezionalità gestionale. Sul piano dei rapporti collettivi, la ricetta brunettiana è quella della compressione degli spazi negoziali e dell’annichilimento delle forme di partecipazione sindacale (ridotte alla sola informazione), con un ripristino della primazia della fonte unilaterale sulla contrattazione collettiva: e, quindi, un completo ribaltamento della logica originaria (sui cui erano basate la fase 1 e la fase 2 della privatizzazione) rispetto al rapporto tra legge, fonti unilaterali e contrattazione collettiva. A ciò si aggiunge che, sull’onda della crisi economica, nel 2010 viene bloccata la contrattazione collettiva nazionale, che [continua ..]
Così, all’inizio della seconda decade degli anni duemila, il progetto originario degli anni novanta risulta del tutto distorto nella sua attuazione pratica. La politica mantiene il pieno controllo delle amministrazioni avendo precarizzato e fidelizzato la dirigenza. Quest’ultima non è pienamente autonoma per esercitare la sua funzione manageriale; e, peraltro, è astretta da vincoli e condizionamenti derivanti da un cumulo crescente di fonti legislative e regolamentari. Difatti, la politica amministra per via legislativa, attraverso le cosiddette “leggi provvedimento”. La contrattazione collettiva nazionale e integrativa resta dominata dalla ricerca di consenso da parte degli organi politici. L’Aran è ridotta ad una sorta di “passacarte” e la dirigenza, in sede locale, è “catturata” dalle pressioni degli organi di governo e dei sindacati: i quali, al di là di qualunque limite allo spazio negoziale, sempre colludono allo scopo di concludere scambi perversi. Il che è dimostrato dalle ultime ricerche sulla contrattazione integrativa da cui risulta la persistenza a trattare su ciò che non è formalmente negoziabile e a sfondare i tetti di spesa fissati dalle fonti sovraordinate. E comunque il sistema contrattuale continua ad eccedere in un’iper-regolazione: ciò amplifica le questioni interpretative, rallenta i processi decisionali e apre molteplici varchi per l’intervento giudiziario. Il personale stabile è invecchiato, demotivato a causa del lungo blocco contrattuale e della limitazione dei percorsi di carriera, ridotto di numero per effetto delle politiche di austerity, non adeguatamente formato né riqualificato. Ma le pubbliche amministrazioni continuano ad essere popolate da folle di precari che sono stati ingaggiati per aggirare i limiti al turn over e sovente con metodi selettivi in palese contrasto con il principio del pubblico concorso. Ed essi restano in attesa di forme di stabilizzazione che riappaiono periodicamente. Al di fuori del perimetro delle pubbliche amministrazioni di cui al d.lgs. n. 165/2001 galleggia una moltitudine di società partecipate dal soggetto pubblico di cui è nota l’improduttività, figlie di una sconsiderata politica (ad alta densità clientelare) di esternalizzazioni (fittizie) e che nemmeno le apposite misure della riforma Madia sono riuscite a [continua ..]
La pressante esigenza di dare attuazione al PNRR ha spinto il governo a varare un piano straordinario di assunzioni di personale accompagnato da misure di semplificazione delle procedure concorsuali. Inoltre, a ciò s’è accompagnata una ridefinizione dei percorsi di carriera per i dipendenti interni e una nuova regolazione per l’accesso alla dirigenza. Anzitutto, la disciplina di riferimento è contenuta nel d.l. 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2021, n. 113. Questo decreto ha, peraltro, subito integrazioni e correzioni fino a tempi recenti Lo scopo perseguito è quello di «accelerare le procedure per il reclutamento del personale a tempo determinato». Il modello privilegiato, e applicabile da tutte le amministrazioni, è quello di forme selettive speciali e semplificate per l’assunzione a tempo determinato che seguono due percorsi. La prima via è quella del cosiddetto “concorso abbreviato”, in cui è prevista «oltre alla valutazione dei titoli…lo svolgimento della sola prova scritta». Qui si assiste ad una ulteriore riduzione delle prove di concorso rispetto al d.l. 1° aprile 2021, n. 44 (convertito, con modificazioni, dalla l. 28 maggio 2021, n. 76) che, per abbreviare i tempi di reclutamento nella fase pandemica, aveva stabilito (per l’assunzione di personale non dirigenziale) una prova scritta e una prova orale. La seconda via è quella della cosiddetta “selezione da elenchi”. A questi elenchi, a cui attingeranno le pubbliche amministrazioni, possono iscriversi, da un lato, professionisti per il conferimento di incarichi di collaborazione con contratto di lavoro autonomo; e, dall’altro, personale in possesso di «un’alta specializzazione» per l’assunzione con contratto di lavoro a tempo determinato. Per questi ultimi, l’inserimento nell’elenco avviene, ovviamente dopo la verifica del possesso dei titoli che comprovano la suddetta «alta specializzazione», tramite «procedure idoneative…con previsione della sola prova scritta». Peraltro, sulla base del d.l. n. 80/2021 e del d.l. n. 44/2021, la riduzione delle prove concorsuali si estende anche alle procedure settoriali che riguardano alcune specifiche amministrazioni: come la costituzione dei cosiddetti uffici del processo e il reclutamento del personale delle [continua ..]
Forse proprio per temperare il diffuso senso di insoddisfazione presente nel personale interno, tartassato da lunghi anni di austerity, da politiche non certamente benevole, e comunque dando attuazione ad alcune generiche previsioni del Patto di marzo, il d.l. n. 80/2021 rivitalizza le cosiddette “progressioni verticali”: e cioè, procedure di passaggio da un area all’altra del sistema di classificazione, ma mantenendo, secondo le indicazioni della Corte costituzionale, il requisito costituito dal necessario possesso del titolo di studio richiesto per l’accesso dall’esterno. Tuttavia, la recente contrattazione collettiva di alcuni comparti pubblici per il triennio 2019-2021 (Funzioni centrali e Funzioni locali), sfruttando una disposizione dall’ambiguo significato (quella del novellato art. 52, c. 1-bis, d.lgs. n. 165/2001), ha previsto anche delle progressioni verticali “transitorie”, in cui il passaggio da un’area all’altra può avvenire possedendo solo un titolo di studio immediatamente inferiore a quello normalmente richiesto. Quest’ultimo, infatti, è ritenuto surrogabile con un determinato numero di anni di esperienza lavorativa. Per quanto tale previsione possa essere comprensibile nella logica di premiare l’impegno e la dedizione dei dipendenti, non si può trascurare il rischio di sovra-inquadramenti di massa e di promozioni di favore, come s’è verificato in passato e che costituisce una costante criticità. Ciò perché così si realizza il fenomeno dell’undereducation, vale a dire il disallineamento tra il titolo di studio richiesto per la copertura di un posto e quello effettivamente posseduto. Peraltro, non è difficile rintracciare in questa fortissima rivitalizzazione delle progressioni verticali, realizzata dal legislatore, ed enfatizzata dalla contrattazione collettiva (con l’ovvia complicità dell’Aran), un vero e proprio “scambio politico”. E cioè, da un lato, si viene incontro alle aspettative di carriera del personale interno, in cambio, dall’altro lato, dell’accettazione, da parte del sindacato, dei processi di riorganizzazione a tappe forzate della macchina amministrativa per favorire l’attuazione del PNRR. La speranza è che tutto questo sia funzionale ad un effettivo recupero ed aumento delle capacità [continua ..]
Molto preoccupanti sono gli interventi concernenti l’accesso alla dirigenza. A seguito del d.l. n. 80/2021, per un verso, sono state raddoppiate le percentuali che, alla stregua dell’art. 19, c. 6, d.lgs. n. 165/2001, consentono l’attribuzione di incarichi dirigenziali a soggetti che non appartengono ai ruoli della dirigenza. Per altro verso, è venuto meno ogni limite quantitativo agli incarichi assegnabili a dirigenti di altre amministrazioni. Il recente d.l. 30 aprile 2020, n. 36, convertito, con modificazioni, dalla l. 29 giugno 2022, n. 79, ha altresì concesso la possibilità di conferire incarichi dirigenziali a «funzionari di cittadinanza italiana di organizzazioni internazionali o dell’Unione europea». È evidente che questo notevole allargamento del bacino di pescaggio dei soggetti incaricabili di funzioni dirigenziali non fa altro che indebolire l’autonomia della dirigenza interna; e, più in generale, rafforza la fidelizzazione politica di tutti i soggetti titolari di funzioni dirigenziali. Va segnalata, con preoccupazione, l’introduzione di una quota riservata di posti di dirigenza di seconda fascia (da assegnare tramite «procedure comparative» bandite dalla Scuola nazionale dell’amministrazione) al personale interno che abbia ricoperto o ricopra l’incarico di livello dirigenziale di cui all’art. 19, c. 6, d.lgs. n. 165/2001. È noto che le modalità di conferimento di tale tipologia di incarichi sono eccessivamente discrezionali, senza alcuna preventiva procedura selettiva. Pertanto, non può che lasciare fortemente perplessi, sotto il profilo del rispetto del principio del pubblico concorso, questa sorta di stabilizzazione privilegiata dei titolari dei suddetti incarichi. Meno grave è la previsione di una quota riservata, sempre per l’accesso alla qualifica di dirigente di seconda fascia, al personale interno dell’area o categoria apicale (del relativo sistema di classificazione), da selezionare attraverso le procedure poc’anzi menzionate. Inoltre, il d.l. n. 80/2021 rigenera la possibilità di concorsi per l’acquisizione della qualifica di dirigente di prima fascia che, finora, era rimasta lettera morta; e, tuttavia, introduce un bizzarro meccanismo di attribuzione dell’incarico di livello dirigenziale: gestito mediante la ricerca delle candidature da parte di [continua ..]
L’anzidetto d.l. 36/2022, denominato «ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNNR)», è (invero, come il d.l. n. 80/2021 e tutta la normativa connessa al PNRR) una sorta di zibaldone dove sono presenti molteplici misure ritenute funzionali all’attuazione del PNNR. In questa sede, ci si limita a dedicare attenzione ai temi trattati nelle pagine precedenti, con qualche osservazione relativa ad alcune novità di particolare interesse. Anzitutto, il d.l. n. 36/2022 avvia un processo, alla fine del quale, per tutte le amministrazioni pubbliche, la presentazione delle candidature ai concorsi pubblici, avverrà esclusivamente per mezzo della registrazione al cosiddetto «Portale unico del Reclutamento». E mediante quest’ultimo verrà gestita anche la mobilità dei pubblici dipendenti. Il d.l. n. 36/2022 introduce un nuovo art. 35-quater, nel d.lgs. n. 165/2001, che disciplina il procedimento per l’assunzione del personale non dirigenziale e sostituisce quanto introdotto dal d.l. n. 44/2021 a questo riguardo. È significativa la previsione di «almeno una prova scritta … e di una prova orale»: il che consente di andare al di là dell’unica prova orale di cui al d.l. n. 44/2021. Resta, però, il “concorso abbreviato” (con una sola prova scritta e la valutazione dei titoli) per le assunzioni a tempo determinato di cui al d.l. n. 80/2021; e che quest’ultimo, in fase di conversione, ha consentito che possa essere utilizzato anche dalle amministrazioni non interessate dal PNRR. Peraltro, va sottolineato che la nuova disciplina dell’art. 35-quater, d.lgs. n. 165/2001, presenta alcuni aspetti critici. Anzitutto, esso apre spazi eccessivi alla partecipazione di soggetti privati alle procedure di reclutamento. Questo sia nella fase di predisposizione di forme di preselezione sia, per giunta, nella elaborazione delle stesse prove di concorso. Inoltre, lo stesso articolo concede alle pubbliche amministrazioni un’enorme discrezionalità nel confezionare i bandi di concorso, specie sotto il profilo della valutazione delle esperienze lavorative pregresse e delle cosiddette “competenze”. Ciò a tal punto da presentare il rischio di selezioni alquanto aleatorie e parziali e quindi pienamente attaccabili in sede giurisdizionale. La nuova dimensione [continua ..]
Come s’è già osservato, l’emergenza pandemica ha confermato il ruolo fondamentale dello Stato e delle istituzioni pubbliche per affrontare i momenti di crisi, per assicurare livelli essenziali della tutela dei diritti fondamentali e per creare i presupposti per la ripresa e per un nuovo sviluppo. In questa prospettiva la normativa europea e italiana ha valorizzato il coinvolgimento delle parti sociali nella formazione e nell’attuazione dei Piani nazionali di ripresa e resilienza al fine di attuare le due grandi e decisive transizioni digitale ed ecologica. Di ciò un significativo esempio è, come previsto dall’art. 3, d.l. 31 maggio 2021, n. 77 (convertito, con modificazioni, dalla l. 29 luglio 2021, n. 108), l’istituzione del Tavolo permanente di partenariato economico, sociale e territoriale, composto dai rappresentanti delle parti sociali, della società e delle istituzioni pubbliche, e che svolge una funzione consultiva nelle materie connesse all’attuazione del PNRR. E proprio il contributo delle parti sociali assume particolare pregnanza per assicurare una “just transition”: e cioè, che le suddette transizioni siano “giuste” e, perciò, sostenibili economicamente e socialmente; e che abbiano soprattutto effetti benefici sulla qualità dell’occupazione, sulla riduzione delle diseguaglianze e sull’aumento delle opportunità di integrazione sociale. Ciò significa, in particolare, che le suddette transizioni dovrebbero essere gestite attraverso politiche che ne orientino gli effetti in termini di aumento dell’occupazione di qualità. Il che comporta, tra l’altro, un efficace sistema di ammortizzatori sociali, di politiche attive e di formazione professionale per sostenere le attività e i lavoratori più deboli e accompagnare la crescita occupazionale nei settori ad alta innovazione tecnologica e di prodotto. Per realizzare questi ambiziosi obiettivi è indispensabile una intensa e continua collaborazione tra istituzioni pubbliche e parti sociali nonché un virtuoso funzionamento delle relazioni industriali: che siano tali da incidere profondamente sugli assetti dell’economia e della società. Da qui non si può condividere l’autorevole proposta (ad opera di Tiziano Treu) di una nuova grande intesa tra governo e parti sociali che predisponga [continua ..]
Andando oltre la logica emergenziale, e nell’ottica di individuare alcuni interventi per il miglioramento della funzionalità delle pubbliche amministrazioni va sempre ricordata un’osservazione di Andrea Orsi Battaglini, all’alba della cosiddetta prima privatizzazione degli anni novanta. L’autore, infatti, si sofferma sulla questione, allora rilevante (e, come s’è visto, ancora oggi è così), che la realizzazione della logica d’impresa, all’interno delle pubbliche amministrazioni, presuppone l’esistenza di un vero datore di lavoro pubblico e cioè di quello che è stato definito come un «padrone serio» che assuma il ruolo di effettiva controparte nei confronti dei lavoratori e dei propri sindacati. Ma Orsi Battaglini va più in là. Egli, infatti, rileva che «la costruzione di un padrone sembra dunque diventare il principale problema del lavoro “pubblico”». E poi aggiunge che «non a caso però questa nuova prospettiva di “ricerca del padrone” sembra fin dalle prime battute limitare il proprio campo visuale ai soggetti di cui da sempre si discute, cercando di riqualificarne consistenza e strumenti in un’ottica conflittuale: politici, dirigenti, impiegati, trascurandone un altro che, per quanto esautorato da ogni sorta di rapaci e invadenti amministratori, ridotto in stato di incapacità e sottratto alla vista dei più, dovrebbe essere almeno sulla carta (costituzionale, anzitutto) il vero e legittimo titolare della cosa pubblica e delle sue risorse e dunque il vero “padrone ultimo” nel conflitto di lavoro: intendo parlare dei cittadini, figura ormai oscillante tra il mito celebrativo e l’artificio retorico ma alla quale credo si debba tentare di restituire una qualche consistenza». Beninteso, la stella polare dei possibili percorsi di riforma dovrebbe proprio essere questa: la subordinazione e la responsabilità di chi opera all’interno delle pubbliche amministrazioni verso i “padroni ultimi” della cosa pubblica, i cittadini.
Ma il percorso verso un’amministrazione al servizio del cittadino resta ancora lungo e molte sono le criticità da risolvere. Anzitutto, è indispensabile un riorientamento culturale di tutti gli attori del sistema. Consapevolezza questa non nuova, posto che, fin dalle origini delle riforma di cui oggi si celebra il trentennale, era osservazione comune quella secondo cui (come ammoniva Massimo Roccella) «tutti gli attori, dunque, sono chiamati nel nuovo sistema a recitare un ruolo significativo»: «i lavoratori rinunciando a garantismi insostenibili ed accettando di immettersi nella logica di un rapporto più funzionale alle esigenze dell’utenza; i sindacati sposando una più genuina logica negoziale; e anche, e forse soprattutto, il datore di lavoro pubblico»: con il superamento della gestione «politica» delle relazioni di lavoro da parte di «autorità di governo proclivi a considerare i pubblici dipendenti in primo luogo come una preziosa riserva di consensi elettorali». Tuttavia, ciò non s’è verificato e sembra ragionevole osservare che il cuore del problema è socio-comportamentale più che giuridico e sta nei predominanti atteggiamenti del ceto politico. È noto, infatti, che la politica, in prevalenza, abusa della legittimazione che le spetta, di guidare le amministrazioni, in base al principio democratico; e, di conseguenza, essa tende ad usare gli apparati pubblici per obiettivi di mantenimento del consenso elettorale se non propriamente clientelari. Ciò si concreta nel rifiuto della politica di governare tramite obiettivi e programmi (come dovrebbe fare) e, invece, nella sua ostinazione ad intromettersi nei più minuti atti di gestione. Questo è il motivo per cui il ceto politico italiano non ha mai voluto attuare effettivamente il fondamentale principio di distinzione tra compiti degli organi politici e degli organi amministrativi (detto in termini sintetici: il principio di separazione tra politica e amministrazione), sancito dalle riforme degli anni novanta del secolo scorso. Attuare veramente il suddetto principio (che, a ragione, Franco Carinci ha definito come «il principio dei principi della cosiddetta privatizzazione») avrebbe significato allontanare la politica dalla gestione concreta con tutto quello che ne sarebbe conseguito. E cioè, la garanzia di [continua ..]