1. Natura e origini della rappresentatività - 2. Pubblico impiego e rappresentatività: gli indici quantitativi - 3. Carattere nazionale ed irrilevanza del mero dato formale statutario - 4. Convocazione dell’Aran ed “implicita” legittimazione processuale - 5. Sillogismo: rappresentatività = nazionalità? - NOTE
L’interessante pronuncia in rassegna, innovativa poiché introduce un legame tra rappresentatività legale del sindacato e sua legittimazione processuale all’azione ex art. 28 Stat. lav., offre lo spunto per alcune (ri)considerazioni sull’antica (quanto parzialmente irrisolta) questione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e del loro rapporto con la rappresentanza. Nei sistemi democratici moderni la partecipazione della collettività, genericamente intesa, alla gestione del potere, viene esercitata attraverso la forma di democrazia c.d. rappresentativa [1] operante attraverso il meccanismo della rappresentanza. Ciò vuol dire che le decisioni sono assunte non da tutti, ma semplicemente, a parte i casi di democrazia diretta, da quelle persone che sono designate – di regola attraverso una procedura elettorale – a questo compito, come in sostanza avviene nell’esperienza sindacale. L’organizzazione dei lavoratori rappresenta gli interessi collettivi della categoria, tuttavia questo non significa che essi coincidano esattamente con l’insieme degli interessi dei singoli [2]. La rappresentanza degli interessi è il risultato di un complesso, e quanto mai necessario, mutamento [3] da una iniziale rappresentanza di volontà sino al ricorso del concetto di rappresentatività [4], al fine di meglio esprimere gli interessi del gruppo. Nel settore del lavoro pubblico, invero, il concetto di sindacato maggiormente rappresentativo è comparso per la prima volta nella legge 29 marzo 1983 n. 93 (c.d. legge quadro sul pubblico impiego). In particolare, l’art. 25, dettato dal legislatore sulla falsariga della legge 20 maggio 1970, n. 300, selezionava gli organismi rappresentativi dei dipendenti pubblici. Di tale “concetto” di rappresentatività nel pubblico impiego è d’utilità verificare quali siano i rapporti con la rappresentanza: in altri termini, se il potere rappresentativo abbia o meno fondamento nella logica della rappresentanza. L’elemento del consenso rappresenta un evidente punto di condivisione tra la rappresentatività e la rappresentanza. In quest’ultima, infatti, il rappresentante abbisogna di un atto di consenso da parte del rappresentato, cioè deve essere investito di un mandato. Parte della dottrina [5] sostiene che il mandato [continua ..]
Il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 ha segnato la svolta del passaggio, seppur graduale, del pubblico impiego improntato esclusivamente ad una tradizione pubblicistica verso la legislazione del lavoro di diritto comune applicata all’impresa mentre il D.Lgs. 4 novembre 1997, n. 396 ha introdotto espressamente nell’ordinamento dei criteri certi ed un preciso procedimento attraverso i quali rilevare la rappresentatività sindacale. Con la legge si è data così una soluzione politica ad un problema tecnico, introducendo una presunzione di rappresentanza quale filtro per selezionare l’accesso alla contrattazione. Attualmente questi criteri si rinvengono nell’art. 43, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Ad essere assunti come strumenti di misurazione sono previsti degli indici quantitativi, che si basano esclusivamente su due dati: il dato associativo e quello elettorale [14]. La soglia minima per essere considerati rappresentativi consta nel raggiungimento della percentuale del 5%, considerando la media tra il dato associativo e quello elettorale. È la stessa norma che fornisce gli ulteriori chiarimenti riguardo ai due criteri. Del primo di essi, il dato associativo, precisa che «è espresso dalla percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali rispetto al totale delle deleghe rilasciate nell’ambito considerato». In sostanza, viene calcolata la percentuale degli iscritti all’organizzazione sindacale, con riferimento al totale dei lavoratori iscritti a tutte le organizzazioni, nel comparto di riferimento, lasciando fuori dal calcolo del dato associativo tutti i lavoratori non sindacalizzati. Il secondo criterio di misurazione è quello inerente il dato elettorale, che «è espresso dalla percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale, rispetto al totale dei voti espressi nell’ambito considerato». Anche in questo secondo caso, non ci si riferisce alla totalità dei lavoratori, ma solo a quelli che hanno esercitato il diritto di voto nelle elezioni degli organismi di rappresentanza unitaria del personale. Tali meccanismi, tuttavia, potrebbero condurre ad una anomala conseguenza. Nel calcolo del dato associativo, se si considera un ipotetico ambito di riferimento in cui siano presenti un numero relativamente basso di sindacalizzati in prevalenza iscritti ad una sola organizzazione [continua ..]
Spostando l’attenzione sul carattere “nazionale” del sindacato legittimato a proporre azione ex art. 28 Stat. lav., argomento affrontato dalla Suprema Corte per dirimere il caso sotteso, la pronuncia in esame avalla il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità [24], che ritiene integrato il requisito della nazionalità qualora il sindacato provi di svolgere un’attività orientata alla tutela dei lavoratori a livello centrale attraverso «la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovino applicazione in tutto il territorio nazionale» (v. punto 8 della pronuncia in commento). Secondo tale impostazione al fine del riconoscimento del carattere nazionale dell’associazione sindacale assumerebbe rilievo la capacità dell’organizzazione di contrarre accordi applicati in tutto il territorio nazionale, «espressione di una forza e capacità negoziale di per sé comprovante un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio-economico dell’intero paese». L’effettivo svolgimento dell’attività sindacale, sub specie contrattazione collettiva nazionale, assumerebbe assoluta rilevanza in quanto solo lo svolgimento di quest’attività sarebbe in grado di escludere dal campo della legittimazione attiva di cui all’art. 28 Stat. lav. le organizzazioni sindacali connotate da un mero «collegamento federativo» [25]. In quest’ottica, infatti, «ove l’attività sindacale sia in concreto solo quella delle associazioni sindacali locali, scollegata da qualsivoglia politica sindacale nazionale perché inesistente» viene meno il carattere nazionale del sindacato «ancorché le locali associazioni sindacali legate da vincoli federativi siano plurime e diffuse su tutto il territorio nazionale» [26]. Proprio la centralità della contrattazione, d’altra parte, sembra essere l’argomento intorno al quale ruotano le motivazioni sostenute dai giudici allorquando intendano escludere strutture di rappresentanza dei lavoratori in azienda da qualsivoglia legittimazione attiva alla proposizione di un ricorso exart. 28 Stat. lav. [27]. L’elemento dello svolgimento dell’attività negoziale a livello [continua ..]
Con tale ultimo arresto risulta superato il meno recente, ma diffuso, orientamento giurisprudenziale secondo cui meri elementi formali, quali le dichiarazioni contenute negli statuti delle organizzazioni sindacali, potrebbero essere invocati per sostenere, in ottica evolutiva delle dinamiche sindacali, la nazionalità di sindacati di recente costituzione [32]. Il filtro di rappresentatività richiesto al sindacato ricorrente ex art. 28, pertanto, non riflette e non si esaurisce ex se nel modello organizzativo adottato [33], né nel carattere monocategoriale o intercategoriale dello stesso [34]. Definito in tal modo il criterio della nazionalità – prediligendo l’orientamento oramai dominante che potremmo definire “sostanzialista” [35] – la pronuncia in commento conferma la legittimazione ad agire del sindacato ricorrente per il sol fatto di aver ricevuto la convocazione da parte dell’Aran (ed aver sottoscritto i contratti collettivi del comparto). Non solo è stata data applicazione al costituendo principio secondo cui nel pubblico impiego contrattualizzato la partecipazione alla contrattazione di comparto, ossia a contratti che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale con riferimento al comparto interessato, implica l’avvenuto riconoscimento della diffusione del sindacato a livello nazionale, con ciò introducendo un diretto legame tra la “nazionalità” (che legittima processualmente il sindacato ex art. 28 Stat. lav.) e la partecipazione alla contrattazione di comparto, ma è stato altresì introdotta una sorta di valutazione giurisprudenziale di sostanziale equivalenza tra la convocazione dell’Aran e la legittimazione processuale ex art. 28, attraverso il requisito della nazionalità.
In altri termini, seppur con una motivazione sintetica, si è tentato per via giurisprudenziale di porre fine ad un annoso problema, sino ad oggi rimasto aperto, in ordine al tipo di attività che deve essere ritenuta indispensabile ai fini della sintomaticità del requisito della nazionalità, in particolare, con riferimento allo svolgimento dell’attività negoziale. La Suprema Corte, laddove rammenta che «ricevere la convocazione da parte dell’ARAN implica il riconoscimento della rappresentatività a livello nazionale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 43, comma 1» sembra voler superare tale questione sostenendo che la mera convocazione dell’Aran, dal momento che presuppone il riconoscimento della rappresentatività (sulla base degli indici legali ex art. 43, comma 1, poc’anzi ricordati [36]), sia manifestazione dell’effettiva capacità di contrarre accordi o contratti collettivi applicabili su tutto o ampia parte del territorio nazionale quale tipico, ma anche esclusivo (in ogni caso, prevalente), indice per valutare la legittimità dell’organismo sindacale a proporre l’azione ex art. 28 Stat. lav. Si assiste, in altri termini, ad una valutazione ex post che parte dal dato di fatto dell’avvenuta convocazione (più che dell’effettiva stipulazione del contratto) [37], la quale presuppone l’accertamento preventivo della rappresentatività legale a livello nazionale “certificata” dal soggetto pubblico, dalla quale si fa discendere la capacità contrattuale a vocazione nazionale del sindacato e, così, la legittimazione a tutelare il gruppo dalle possibili condotte antisindacali. Il passaggio interessante risiede nell’aver implicitamente fornito una lettura sistemica e coordinata, seppur senza sovrapposizioni, delle diverse norme del diritto sindacale (art. 28 Stat. lav., da un lato e art. 43, D.Lgs. n. 165/2001, dall’altro) dal momento che non risulterebbe plausibile, oltre che equo, escludere il carattere nazionale di un sindacato che sia già stato ritenuto rappresentativo dal soggetto pubblico a ciò deputato (incaricato, altresì, di raccogliere e verificare i dati sui voti e sulle deleghe) e che lo abbia, proprio con la convocazione, abilitato a svolgere attività negoziale a livello nazionale. Il rapporto [continua ..]