1. Premessa - 2. Lo straordinario nel pubblico impiego - 3. L'autorizzazione dello straordinario - 4. La composizione dell'ufficio per i procedimenti disciplinari - NOTE
La «falsa attestazione della presenza» [1] si arricchisce, nel suo ambito di applicazione, dal confronto con i casi concreti, in una dialettica tra fattispecie legale e realtà fattuale che distingue da sempre la giurisprudenza di merito. Questo avviene nonostante il legislatore abbia ridotto i margini di tale dialettica, tipizzando – con precisione quasi eccessiva [2] – la condotta fraudolenta del dipendente alla quale, «comunque», si applica la sanzione del licenziamento disciplinare (art. 55-quater, comma 1, D.lgs. n. 165/2001). In particolare, la sentenza in epigrafe merita di essere considerata perché ritiene che la mancata timbratura, e la timbratura non corretta, integrino l’illecito identificato dalla legge anche se si tratti di attività prestate in regime di straordinario. Lo straordinario, del resto, attiene alla dilatazione nel tempo dell’obbligazione in capo al prestatore, in un rapporto di lavoro che però resta unitario. La variazione che intercorre, infatti, “non incide né sull’identità strutturale né su quella funzionale del regolamento contrattuale” [3]. Nel contempo, però, le ragioni di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, unite a quelle di salvaguardia delle previsioni di bilancio nel pubblico impiego contrattualizzato [4], richiedono una disciplina dello straordinario che si differenzia da quella del regime di orario ordinario. La vicenda portata all’attenzione del Tribunale di Napoli riguarda, in breve, l’impugnazione di un licenziamento disciplinare, intimato nei confronti di un dipendente Vigile Urbano. Dopo la contestazione iniziale di una serie di addebiti e la convocazione dell’interessato per l’audizione in contraddittorio a sua difesa (nel solco, cioè, di quanto dispone l’art. 55-bis, comma 4, D.lgs. n. 165/2001), nel successivo verbale dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari vengono integrati e specificati i fatti già contestati. Tale “integrazione e specificazione”, per quanto legittima, non è tuttavia indifferente sul piano procedurale. Infatti, poiché dall’istruttoria è risultata la presenza di prove informatiche raccolte mediante strumenti di videosorveglianza [5], si deve obbligatoriamente applicare la procedura disciplinare [continua ..]
Il lavoro straordinario, ovvero «il lavoro prestato oltre l’orario normale di lavoro» [6], costituisce uno strumento di flessibilità in capo al datore di lavoro. In questo modo, egli è in grado di modellare l’orario di lavoro dei dipendenti in base alle concrete ed imprevedibili esigenze produttive o di servizio. Nel contesto del pubblico impiego, infatti, l’orario di lavoro è funzionale all’orario di servizio, pur nell’ambito dell’orario d’obbligo contrattuale [7]. Tuttavia, la differenza tra orario di servizio e orario di lavoro attiene alla loro natura, rispettivamente pubblicistica e privatistica. La determinazione del primo, invero, rientra tra le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, in una prospettiva esterna al rapporto di lavoro tra dipendente e pubblica amministrazione. Dal momento che l’organizzazione generale degli uffici, ai sensi dell’art. 2, comma 1, D.lgs. n. 165/2001, è riservata alla legge, ne deriva che la disciplina non sia negoziabile [8]. L’orario di lavoro, invece, secondo il regime introdotto dal D.lgs. n. 66/2003, conosce una rilevante apertura al ruolo della contrattazione collettiva [9]. Le disposizioni del D.lgs. n. 66/2003, però, dopo le modifiche contenute nel D.lgs. n. 213/2004, non sono più applicabili agli addetti al servizio di polizia municipale «in relazione alle attività operative specificamente istituzionali» [10], tra le quali rientrano quelle allegate dal ricorrente nella sentenza in esame. È dunque necessario ricostruire la disciplina dell’orario di lavoro di tale categoria di lavoratori che – in quanto sottoposta alla c.d. privatizzazione – non rientra nel regime di diritto pubblico di cui all’art. 3, D.lgs. n. 165/2001. La legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale, n. 65/1986, non contiene alcun specifico riferimento all’orario di lavoro ma, con riguardo allo stato giuridico del personale (art. 7, comma 1), rimanda ai principi contenuti nella L. n. 93/1983 [11]. Quest’ultima, a sua volta, sottopone alla disciplina di legge la durata massima dell’orario di lavoro giornaliero (art. 2), mentre affida alla negoziazione l’orario di lavoro, la sua durata e distribuzione, nonché il lavoro straordinario (art. 3). Tuttavia, entrambi gli articoli [continua ..]
La tutela dei principi costituzionali, tra i quali va ascritto il rispetto dei vincoli di spesa, impone un ricorso allo straordinario realmente funzionale alle concrete esigenze organizzative delle amministrazioni pubbliche [16]. Di conseguenza, la disciplina dello stesso è improntata ad evitare che il suo utilizzo sia finalizzato a soddisfare mere ragioni di incremento retributivo dei dipendenti [17]. Il legislatore, oltre a ridurre gli stanziamenti per lo straordinario [18], ha previsto una serie di tipologie flessibili di orario, per consentire risposte adeguate alle esigenze di servizio senza impiegare risorse economiche aggiuntive (è il caso, ad esempio, dell’orario multiperiodale, già contemplato prima del D.lgs. n. 66/2003). Tuttavia, è nella contrattazione collettiva dei vari comparti che va individuata la fonte regolativa dello straordinario e, nel caso di specie, nel CCNL del comparto funzioni locali (con l’ulteriore specificazione della disciplina affidata alla contrattazione decentrata integrativa) [19]. Tra le varie disposizioni rilevanti, viene anzitutto sancito come lo straordinario non possa essere utilizzato quale fattore ordinario di programmazione del tempo di lavoro e di copertura dell’orario di lavoro, essendo appunto rivolto a fronteggiare situazioni di lavoro eccezionali [20]. Inoltre, la prestazione di lavoro straordinario deve essere «espressamente autorizzata dal dirigente, sulla base delle esigenze organizzative e di servizio individuate dall’ente, rimanendo esclusa ogni forma generalizzata di autorizzazione» [21]. L’espressa autorizzazione, in effetti, costituisce lo strumento mediante il quale l’amministrazione può verificare le concrete esigenze che richiedono prestazioni straordinarie e, al contempo, evitare di oltrepassare i limiti di spesa. Ne deriva che, per le ragioni richiamate, la stessa debba essere tendenzialmente preventiva e resa in maniera formale [22]; tuttavia, in casi eccezionali, può intervenire ex post, dunque in sanatoria, o può ritenersi implicitamente rilasciata [23]. Se mancasse l’autorizzazione, preventiva o successiva, e comunque non sussistessero ragioni indispensabili tali da ritenerla integrata in maniera implicita, non sorgerebbe il diritto al compenso in capo al dipendente. Il che non presuppone una ricostruzione dell’autorizzazione quale [continua ..]
I diversi profili di responsabilità ai quali si è esposto il dirigente costituiscono un giudizio ulteriore rispetto a quello di cui si tratta, dove appunto rileva la mera sussistenza di autorizzazione e non le ragioni sottese ad essa. Tuttavia, siccome risponde della falsa attestazione di presenza «anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta» (art. 55-quater, comma 1-bis), l’autorizzazione postuma del dirigente e il mancato controllo sulle attività prestate dal dipendente integrano la fattispecie punita con il licenziamento disciplinare [26]. Alla luce di ciò, si può cogliere l’opportunità di sostituire, dalla composizione dell’UPD, il dirigente che di fatto ha concorso alla condotta fraudolenta. La garanzia del nemo iudex in causa propria [27], infatti, può trovare applicazione anche al di fuori del processo, in seno ad un organismo ontologicamente difforme da quelli giurisdizionali. L’UPD deve dunque assumere carattere di terzietà verso quanto contestato, mentre naturalmente non nei confronti delle parti, essendo espressione della pubblica amministrazione. Dinanzi a disposizioni regolamentari che non prevedano l’eventuale conflitto di interessi dei componenti che svolgono funzioni giudicanti (oltreché inquirenti) [28], sembra corretto applicare quello che è un principio generale dell’ordinamento [29]. È però interessante e convincente, per la sua linearità, la ricostruzione effettuata dal giudice di merito, nel solco di una pronuncia della Cassazione [30]. In primo luogo, si afferma l’illegittimità del procedimento instaurato da un soggetto diverso dall’UPD e la conseguente nullità della sanzione, essendo violazione di norme qualificate come imperative (ai sensi dell’art. 55, comma 1, D.lgs. n. 165/2001). Subito dopo, però, si distingue tra regole legali (inderogabili) e norme regolamentari sulla competenza per i procedimenti disciplinari; quindi si precisa che sono quest’ultime a disciplinare la costituzione e il funzionamento dell’UPD. Non potendosi attribuire ad esse una natura imperativa “riflessa”, la loro violazione dà vita soltanto a una irregolarità, senza effetti sulla legittimità del procedimento disciplinare e della sanzione [31]. [continua ..]