1. Il pubblico impiego regionale nell'originario assetto del riparto di competenze Stato-regioni ordinarie. Alle origini del problema - 2. Il pubblico impiego regionale nella riforma del Titolo V della Costituzione - 3. La prassi applicativa regionale e i tentativi del Legislatore nazionale di contenere gli eccessi e le disfunzioni del decentramento legislativo - 4. Il rinato protagonismo del limite derivante dall'ascrizione allo Stato della potestà legislativa in materia di ordinamento civile nella giurisprudenza costituzionale. Dalla sentenza 29 aprile 2010, n. 151 alla sentenza 21 dicembre 2018, n. 241 - 5. Cosa resta dell'autonomia regionale in materia di pubblico impiego - NOTE
Nell’originario disegno costituzionale di riparto di competenze legislative fra Stato e regioni, il rapporto individuale di lavoro del dipendente pubblico non era ricompreso fra le materie assegnate alla potestà legislativa delle regioni ordinarie. In cima all’elenco contemplato nell’art. 117 Cost. figurava l’ordinamento degli uffici degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione ma nulla si diceva del frammento relativo allo stato giuridico ed economico del personale, che invece era menzionato nei cinque statuti delle regioni ad autonomia differenziata [1]. La limitazione non fu il frutto del caso o di imprecisione tecnica. Il dibattito alla Costituente testimonia della volontà consapevole di circoscrivere l’assegnazione di potestà legislativa al solo versante dell’organizzazione amministrativa interna e al potere di creare e strutturare enti sub regionali, con esclusione degli istituti del rapporto individuale di lavoro [2]. Una volta costituite le regioni ordinarie [3], la porzione di materia concernente il rapporto individuale di lavoro del pubblico dipendente regionale è stata fatto oggetto di appropriazione in via di fatto da parte dei neo istituiti enti territoriali, che hanno preso a considerarlo una naturale proiezione del potere di autodisciplinare la propria organizzazione interna e la propria articolazione sul territorio. Non si è trattato di interventi legislativi di respiro generale: le assemblee legislative delle regioni ordinarie hanno preso a funzionare dopo che gli apparati burocratici si erano già formati con personale attinto dalle amministrazioni centrali e dagli enti locali, ai quali ha continuato ad applicarsi la disciplina di legge e di regolamento in uso presso gli enti di provenienza [4]. E questa ha in prosieguo rappresentato il ceppo fondamentale sul quale si è innestata un’attività micro legislativa di modesta entità [5]. Oltre che del carattere minimale degli interventi normativi regionali, l’estensione di competenza si è giovata in modo determinante dell’essersi svolta al riparo dalle interferenze derivanti dalla riserva statale di competenza in materia di diritto privato, la quale era fuori gioco, essendo all’epoca il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici interamente sotto il regime del diritto amministrativo [6]. L’operazione ha [continua ..]
Nonostante il basso profilo mantenuto, l’appropriazione/estensione della potestà a disciplinare anche il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti regionali avrà conseguenze enormi sul nuovo assetto del riparto di competenze Stato-regioni, sortito dalla riforma del titolo V della Costituzione. Dopo le modifiche introdotte dalla legge cost. 3/2001, l’art. 117 Cost. non ha annoverato più l’ordinamento degli uffici degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione fra le materie ascritte alla competenza ripartita Stato-regioni ordinarie. Ha assegnato alla potestà esclusiva statale la materia dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali [10] ma nulla ha disposto a proposito dell’ordinamento e organizzazione amministrativa delle regioni, né dello stato giuridico ed economico del relativo personale. Nel silenzio della legge, la materia è rifluita all’interno della competenza legislativa residuale, esclusiva delle regioni ordinarie, in applicazione del criterio enunciato dall’art. 117, comma 4, Cost., che assegna alle regioni «la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». E non solo la porzione relativa all’ordinamento e all’organizzazione amministrativa della regione ma anche quella relativa allo stato giuridico ed economico del personale [11]. Né avrebbe potuto accadere altrimenti, se non al prezzo di collocare tutto il pubblico impiego regionale dentro la competenza esclusiva statale, cioè di riconoscere alle regioni un’autonomia minore rispetto a quella loro attribuita nel regime precedente, in aperto contrasto con la lettera e con lo spirito della riforma [12]. Gli sviluppi successivi della giurisprudenza della Corte costituzionale manterranno fermo il nuovo assetto [13], che troverà una conferma anche sul piano politico dell’iniziativa legislativa statale: quando, nel 2005, al fine di dirimere i dubbi sorti nella prassi applicativa, il Parlamento nazionale si è cimentato nel tentativo di precisare il contenuto degli elenchi di materie contemplati nell’art. 117 Cost., nulla ha detto a proposito della materia qui considerata, dando evidentemente la questione per non più controversa [14]. L’assegnazione alle regioni ordinarie [continua ..]
Liberata, almeno sulla carta, dagli originari limiti verticali previsti dall’art. 117 Cost. e dagli statuti di autonomia speciale, l’attività dei legislatori regionali è stata, salvo lodevoli ma sporadiche eccezioni, generalmente meritevole di valutazione negativa. Quando le regioni si sono cimentate in interventi organici sulla materia hanno, per lo più, ripetuto il contenuto di leggi nazionali contemporaneamente vigenti [20]. Né avrebbe potuto essere altrimenti considerata la complessità della materia e l’ipoteca risultante dalla coesistenza di una disciplina nazionale, organica e compiuta, che si è imposta in periferia come modello di fatto prima che di diritto [21]. Quando, invece, hanno proceduto a normare istituti particolari, già previsti e disciplinati nella legge statale – ed è stata l’attività prevalente – lo hanno fatto adottando misure che non sarebbe appropriato dire ispirate a logiche di efficienza e buon andamento, dando vita a un fitto contenzioso nanti alla Corte costituzionale, che ha generalmente censurato le improvvide iniziative assunte a livello locale. I settori prediletti sono stati quelli più permeabili alle pressioni clientelari: gli accessi [22], le progressioni nel sistema di inquadramento professionale [23], il conferimento [24] e revoca [25] di incarichi dirigenziali, le stabilizzazioni di personale precario [26], le consulenze esterne [27], l’internalizzazione di servizi prima svolti da soggetti privati, con conseguente assorbimento del personale in questi impiegato [28]; il salario accessorio e le indennità retributive [29]. La mala prassi è stata così diffusa da avere richiesto l’intervento sanzionatorio del legislatore statale, il quale, a evitare che la regola della salvezza dei rapporti esauriti lasciasse in vita situazioni di grave illegittimità, ha dovuto prescrivere la nullità delle assunzioni (e delle promozioni) effettuate in forza di una legge poi dichiarata incostituzionale [30]. Il culmine della sfiducia nei legislatori regionali si è toccato, infine, con il disegno di legge costituzionale del 12 aprile 2016 [31], approvato dal Parlamento ma bocciato nella consultazione referendaria del 4 dicembre 2016 [32]. Vi si prevedeva, fra le molte altre cose, una modifica [continua ..]
Nel descritto contesto di reazione alla (mala)prassi applicativa e agli eccessi del neoregionalismo italiano si inserisce e spiega il rinato protagonismo dei limiti c.d. orizzontali alla potestà legislativa regionale. Nell’indisponibilità degli originari canali di penetrazione verticale della legge statale in ambiti riservati all’autonomia delle regioni, la compressione, ma meglio sarebbe dire l’erosione, della competenza legislativa regionale in materia di pubblico impiego ha proceduto dall’esercizio di potestà legislative c.d. trasversali attribuite allo Stato in via esclusiva o anche concorrente. Nell’attuale assetto delle fonti di disciplina del pubblico impiego regionale, che pone sotto il regime di diritto pubblico gli atti concernenti il nucleo essenziale dell’organizzazione amministrativa e sotto quello del diritto privato il rapporto individuale di lavoro [33], l’allocazione presso lo Stato della competenza esclusiva in materia di ordinamento civile si è prestata a introdurre una divisione verticale all’interno della materia del pubblico impiego regionale [34]: da una parte i profili pubblicistici dell’organizzazione amministrativa, che rimarrebbero ascritti alla competenza residuale della Regione (salvo naturalmente il rispetto dei principi costituzionali e l’esposizione alle interferenze derivanti dall’esercizio di altre competenze statali trasversali) [35]; dall’altra la disciplina dei rapporti di lavoro già in essere, assegnata integralmente alla potestà legislativa statale [36]. Per vero, il limite del diritto privato non avrebbe rappresentato un impedimento assoluto all’esplicazione della potestà legislativa regionale sulla porzione di materia concernente il rapporto individuale di lavoro pubblico. Nella giurisprudenza della Corte costituzionale formatasi anteriormente alla riforma del Titolo V della Costituzione era generalmente accolta l’idea che la Regione potesse intervenire ad adattare la disciplina statale in materia di rapporti fra amministrazioni pubbliche e lavoratori ove questa fosse in rapporto di stretta connessione con una materia di competenza regionale e l’adattamento rispondesse al criterio di ragionevolezza [37]. A questo orientamento, la giurisprudenza della Consulta aveva dato sostanziale continuità anche [continua ..]
La risposta al quesito che da titolo a questo saggio parrebbe a questo punto scontata. Sul versante della disciplina del rapporto individuale di lavoro, le regioni ordinarie patirebbero oggi una delimitazione di campo pari a quella sortita dal dibattito alla Costituente, con una rigorosa circoscrizione di competenza legislativa ai soli aspetti organizzativi interni [44]; quelle speciali arretrerebbero rispetto al regime degli statuti di autonomia differenziata, che alla potestà primaria delle regioni assegnavano anche la materia dello stato giuridico ed economico del personale [45]. Incidentalmente si deve osservare che la situazione non è molto migliore in relazione a quella porzione di materia attinente all’organizzazione interna della Regione. Qui la riserva di regime autoritativo-provvedimentale metterebbe al riparo dalle ingerenze derivanti dall’esercizio della potestà esclusiva statale in materia di ordinamento civile [46]. Ma non anche dalle interferenze derivanti dall’esercizio di altre competenze trasversali e soprattutto dalla necessità di osservare le disposizioni costituzionali incidenti sulla materia, in specie quella autentica disposizione passepartout che è l’art. 97 Cost., nel cui nome si è imposta alle regioni l’applicazione di discipline uniformi di legge nazionale concernenti anche istituti di più sicura ascrizione alla loro competenza esclusiva. È stato il caso delle procedure concorsuali di accesso all’impiego [47], della programmazione pluriennale delle assunzioni [48], del dimensionamento e della copertura degli organici [49], del regime delle incompatibilità, in relazione al quale il d.lgs. 39/2013 si è auto attribuito, nel suo insieme, la natura e il contenuto di norma di attuazione degli articoli 54 e 97 della Costituzione, con la specificazione che le sue disposizioni prevalgono «sulle diverse disposizioni di legge regionale, in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici e presso gli enti privati in controllo pubblico» [50]. Tuttavia, se si allarga adeguatamente l’orizzonte delle valutazioni, non sembra che si possa o si debba giungere a conclusioni di così radicale chiusura. Vero è piuttosto che sotto la pressione della crisi economica erariale e dei provvedimenti [continua ..]