1. Il rapporto di lavoro alle dipendenze dell'Agenzia delle entrate ed il sistema delle incompatibilità, tra fonti normative, regolamentari ed europee - 2. La specialità della disciplina delle incompatibilità per il personale dell'Agenzia delle entrate: rapporto di lavoro ad orario ridotto ed esercizio delle libere professioni - 3. Conflitto d'interessi, apparenza, etica pubblica e Codici di comportamento - 4. Il Codice di comportamento dei dipendenti dell'Agenzia delle entrate del 2015 - 5. Valenza etica e valenza disciplinare dei Codici di comportamento dopo la l. 6 novembre 2012, n. 190 - NOTE
La sentenza in epigrafe costituisce un’interessante, quanto ben argomentata, applicazione delle regole, legali e regolamentari, in materia di incompatibilità e conflitto d’interessi ad un rapporto di lavoro a tempo parziale alle dipendenze dell’Agenzia delle entrate [1]. Sui tre aspetti coinvolti dalla fattispecie (incompatibilità, rapporti di lavoro a tempo parziale nel settore pubblico e rapporto di lavoro alle dipendenze dell’Agenzia delle entrate), la sentenza si allinea agli orientamenti giurisprudenziali consolidati, che saranno oltre brevemente riassunti. Essa, tuttavia, va segnalata per l’inconsueto collegamento tra la materia delle incompatibilità e l’etica pubblica, anche attraverso un esplicito riferimento al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, sulla cui incerta rilevanza disciplinare ancora molto si discute in dottrina. Il caso, deciso dalla sentenza d’appello di Catania risale al 2008, riguarda il licenziamento senza preavviso di un dipendente dell’Agenzia delle entrate con rapporto di lavoro part-time inferiore al 50% dell’orario normale. Da tempo il ricorrente aveva intrapreso l’attività libero-professionale di geometra, senza averne dato preventiva comunicazione all’amministrazione di appartenenza. L’amministrazione aveva più volte invitato il dipendente a rimuovere la situazione di incompatibilità, ma l’interessato aveva opposto l’inesistenza del divieto e aveva rifiutato la richiesta. Dopo circa tre anni di tentativi per ottenere la cessazione del cumulo di attività, l’amministrazione aveva intimato il recesso senza preavviso. Nella sanzione espulsiva risultava assorbita anche la sanzione per la mancata richiesta di autorizzazione. La Corte d’appello di Catania aveva confermato il licenziamento, ritenendo la sanzione proporzionata all’infrazione, stante, tra l’altro, il netto rifiuto del dipendente di rimuovere la più volte contestata situazione di incompatibilità. Avverso la sentenza d’appello il dipendente ricorreva in Cassazione articolando quattro motivi di ricorso. La Corte di Cassazione conferma la decisione del Tribunale di Catania, riconosce l’incompatibilità ed il conflitto d’interessi e dichiara legittimo il licenziamento senza preavviso. Il primo aspetto affrontato dalla sentenza riguarda la [continua ..]
Lo stesso rigore traspare da un’altra normativa speciale, la legge 25 novembre 2003, n. 339 [11], che prescrive per i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro ad orario ridotto il regime di incompatibilità con l’esercizio della professione forense. L’obbiettivo di quest’ultima normativa è quello di rendere compatibili interessi di rango costituzionale, quali il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), da un lato, e l’indipendenza della professione forense, che è strumentale all’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.), dall’altro. Detta normativa non risulta abrogata dalla successiva riforma delle libere professioni (D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni nella legge 14 settembre 2011, n. 148) [12], né dal d.P.R. 7 agosto 2012, n. 137 [13], che ne costituisce il regolamento di attuazione [14], in quanto non sussiste tra le due normative alcuna contraddizione insanabile, tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione. Sicché, anche dopo la legge n. 148/2011, anche i dipendenti part-time con rapporto non superiore al 50% dell’orario normale di lavoro, resta precluso lo svolgimento della professione forense. È da escludersi, pertanto, che la normativa del 2002 sulle libere professioni possa avere abrogato tacitamente le regole speciali sulle incompatibilità dei dipendenti dell’Agenzia delle entrate, al pari di quelle altrettanto restrittive e altrettanto speciali relative alla professione forense. Detto questo, è vero che l’art. 4, d.P.R. n. 18/2002, nel disciplinare l’incompatibilità dei dipendenti delle Agenzie, non menziona espressamente anche i dipendenti con rapporto di lavoro part-time. Ed è altrettanto vero che per costoro, di norma, la doppia attività è ritenuta compatibile, salvo che non sia in modo espresso diversamente stabilito (come nel caso dell’esercizio della professione forense) [15]. Tuttavia, ad avviso della Corte, l’applicazione di quella che va considerata una regola generale presuppone, pur sempre, un giudizio sulla inidoneità delle attività astrattamente cumulabili a determinare un conflitto di interessi con le specifiche attività di servizio del dipendente, sì da pregiudicare l’esercizio imparziale delle [continua ..]
La nozione di “apparenza” nella valutazione del “conflitto di interessi” che le pubbliche amministrazioni sono legittimate a contestare ai propri dipendenti è contenuta nei Codici di comportamento ed è fortemente collegata all’etica pubblica che da qualche stagione normativa ha pervaso l’obbligazione lavorativa del lavoratore alle dipendenze delle Pubbliche amministrazioni [19]. Essa attiene al legame che molti Codici di comportamento valorizzano tra la prestazione lavorativa del dipendente e l’immagine dell’Amministrazione di appartenenza, e rappresenta una delle molteplici manifestazioni di quel processo di “progressiva giuridicizzazione delle regole etiche nel pubblico impiego” [20]. Quella tendenza, cioè, il cui architrave è costituito dalla l. 6 novembre 2012, n. 190, che ha imposto alle pubbliche amministrazioni di dotarsi di propri codici di comportamento, contribuendo a delineare un sistema volto a rafforzare l’imparzialità dei funzionari, da collegare ai principi costituzionali in tema di servizio esclusivo nei confronti della Nazione, lealtà, diligenza, imparzialità e responsabilità. Il modello attualmente vigente, e che prevede che la violazione dei doveri contenuti nei codici costituisce “fonte di responsabilità disciplinare”, sta sollevando diversi profili di contrasto con la più risalente idea sottesa al processo di piena privatizzazione del pubblico impiego, e conferma il cambio di rotta attestato dalla recente tendenza a recuperare, piuttosto, la specialità del lavoro pubblico [21]. È noto infatti che, sin dalla prima versione contenuta nell’art. 58-bis del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (introdotto dall’art. 26 del D.Lgs. 23 dicembre 1993, n. 546), la dottrina ha manifestato concrete perplessità circa l’adozione di un Codice di comportamento, definito da un soggetto terzo (il Dipartimento della funzione pubblica), con la funzione di delineare chiaramente e generalmente i “doveri” dei dipendenti pubblici. La previsione, già in fase di prima privatizzazione, appariva difficilmente coordinabile con il contesto normativo contrattualizzato, rimesso dal legislatore alla competenza principale della contrattazione collettiva [22], e peraltro mostrava il rischio di un sostanziale recupero del modello più [continua ..]
A conferma del particolare rigore manifestato dalla sentenza in commento, va detto che il divieto di cumulare l’attività di geometra con lo status di dipendente dell’Agenzia delle entrate è stato successivamente esteso in maniera esplicita anche al personale con rapporto di lavoro ad orario inferiore al 50% del normale orario, dal Codice di comportamento del personale dell’Agenzia delle entrate, che è stato adottato con provvedimento del direttore dell’Agenzia del 16 settembre 2015, ai sensi dell’art. 54, D.Lgs. n. 165/2001, come modificato dall’art. 1, comma 44, della legge 6 novembre 2012, n. 190. Tale legge, in linea con lo spirito marcatamente anticorruttivo che ne contraddistingue la ratio, e sulla scia già tracciata dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, realizza un importante cambio di rotta nella rilevanza del Codice di comportamento, di cui valorizza la funzione rispetto all’esigenza di “disciplinare in maniera cogente e visivamente più energica tematiche delicate, connesse all’esercizio di funzioni pubbliche ad elevato impatto sulla qualità dei servizi e sulla trasparenza dell’azione amministrativa” [31]. Rispetto alla precedente versione dell’art. 54, d.lgs. n. 165/2001, la legge n. 190/2012, quindi, arricchisce le finalità della definizione del Codice il quale, originariamente destinato a delineare i comportamenti dei dipendenti pubblici “anche in relazione alle necessarie misure organizzative da adottare al fine di assicurare la qualità dei servizi che le stesse amministrazioni rendono ai cittadini”, diventa uno strumento finalizzato ad “assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico”. Dopo il 2012, il Codice viene definito dal Governo, approvato con d.p.r., pubblicato in GU e consegnato al dipendente. La violazione dei doveri contenuti nel Codice di comportamento, compresi quelli relativi all’attuazione del Piano di prevenzione della corruzione, diventerà “fonte di responsabilità disciplinare”. Violazioni gravi o reiterate del Codice comportano l’applicazione del licenziamento disciplinare. Infine, ciascuna pubblica amministrazione definirà, con [continua ..]
Sia il Codice dell’Agenzia delle entrate del 2015, sia il Codice del 2013 ripropongono la questione della rilevanza sul piano disciplinare dei codici di comportamento che, infatti, è tornata al centro del dibattito scientifico. È certo, infatti, che dopo le modifiche del 2012, e nonostante le gravi perplessità che la novella ha sollevato con riferimento al sistema delle fonti che oggi regolano la materia disciplinare nel lavoro pubblico [40], il collegamento tra codici di comportamento dei dipendenti pubblici e la responsabilità disciplinare risulta senz’altro potenziato. Restano attuali, però, le considerazioni critiche della dottrina (soprattutto lavoristica) circa le difficoltà di “sistematizzare” doveri “pubblici”, con riferimento ad un rapporto di lavoro disciplinato per via contrattuale, e gestito dai poteri datoriali del dirigente, all’interno del quale le infrazioni e le relative sanzioni rilevanti ai fini disciplinari sono definite dai contratti collettivi, e le cui controversie continuano ad essere devolute al giudice ordinario [41]. Perplessità di carattere sistematico enfatizzate dall’indiscutibile recupero della “primazia” della fonte contrattuale nella disciplina degli aspetti già regolati dalla legge (sia pure con i noti limiti per quanto riguarda la materia disciplinare), operato dalla riforma del 2017 [42], in netta controtendenza con la “rilegificazione” voluta dalla riforma del 2009 [43]. Dal punto di vista letterale la partita si gioca sul valore da assegnare alla formula secondo la quale la violazione dei doveri prescritti dal Codice diventa “fonte” di responsabilità disciplinare [44], fermo restando che “la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”, naturalmente sempre “fatte salve le previsioni contenute nello stesso D.Lgs. n. 165/2001”. Secondo la tesi più rigorosa, questo inciso ricomprenderebbe anche le previsioni di cui all’art. 54, con riferimento quindi ai doveri rimessi alla definizione unilaterale attraverso i codici di comportamento, cui va conseguentemente riconosciuta rilevanza disciplinare [45]. Secondo una posizione intermedia, già espressa prima della novella del 2012, le regole di condotta dipenderebbero certamente dai principi non negoziabili [continua ..]