Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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I limiti di esercizio dello jus variandi orizzontale (Corte di cassazione, sez. lav., ordinanza 17 dicembre 2018, n. 32592) (di Ettore Innocenti – Centro Studi Ricerca e Formazione Cisl)


CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAV., ORDINANZA 17 DICEMBRE 2018, N. 32592 Pres. Napoletano, Rel. Blasutto. Impiegato dello Stato e pubblico in genere – Ius variandi orizzontale– Equivalenza delle mansioni – Professionalità acquisita – Contrattazione collettiva. Nel pubblico impiego, condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, e ciò perché il riferimento all’aspetto necessariamente soggettivo del concetto di professionalità acquisita mal si concilia con le esigenze di certezza di corrispondenza tra mansioni e posto in organico alla stregua dello schematismo che tuttora caratterizza il rapporto di lavoro pubblico.   Rilevato che: 1. La Corte di appello di Perugia, con sentenza depositata il 9 agosto 2012, accogliendo l’impugnazione proposta dall’Ambito Territoriale Integrato n.(OMISSIS) dell’Umbria, ha riformato la sentenza di primo grado con cui il Tribunale di Perugia aveva condannato l’A.T.I. al pagamento, in favore della dipendente P.M.R., della somma di Euro 18.469,20 a titolo di risarcimento del danno da demansionamento. 2. La lavoratrice aveva dedotto che l’A.T.I., in corrispondenza del suo rientro dal congedo per maternità (giugno 2003), l’aveva di fatto esclusa da buona parte dei suoi compiti originari, relegandola alla gestione del settore scarichi, e che nel dicembre 2004 le aveva attribuito un diverso settore del servizio, privandola anche dell’unità subordinata prevista dal relativo organico, lasciandola senza indicazioni circa le mansioni rientranti nella astratta previsione organizzativa, sicché i suoi compiti si erano sostanzialmente ridotti al riscontro dei periodici controlli da effettuarsi sulle acque per garantirne la fruibilità. 3. La Corte di appello ha invece accreditato la tesi di parte convenuta secondo cui il mutamento di mansioni era giustificato dalla circostanza che, durante l’assenza dal lavoro della P., i compiti dell’Ente erano mutati in ragione dell’avvenuto completamento del Piano d’Ambito ed erano ormai rivolti principalmente all’attività di controllo e vigilanza sulla gestione dei servizi idrici. In sintesi, per quanto ancora qui rileva, la Corte territoriale ha osservato che, con la delibera n. 3 del 19.3.2003, l’ATI aveva rimodulato la propria organizzazione interna in funzione della diversa attività cui far fronte e che le attività assegnate all’ing. P. riguardavano la verifica degli standard qualitativi del servizio idrico in conformità alla convenzione e alla carta dei servizi, il controllo dei programmi e delle politiche di contenimento delle perdite, la cura [continua..]
SOMMARIO:

1. La vicenda giudiziaria - 2. L'equivalenza delle mansioni nel pubblico impiego - 3. Un riavvicinamento dei due sistemi ad opera del Jobs Act? - 4. Considerazioni conclusive - NOTE


1. La vicenda giudiziaria

La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza n. 151 emessa in data 9 agosto 2012, riforma la condanna al risarcimento del danno a titolo di demansionamento pronunciata dal Tribunale di Perugia nei confronti dell’A.T.I. (Ambito Territoriale Integrato) umbro, ente pubblico dedito alla gestione della rete idrica in ambito regionale. La vicenda riguarda una dipendente che, originariamente chiamata a svolgere mansioni di elevata responsabilità («partecipava alle riunioni e al processo decisionale, coordinava i dipendenti della struttura, rappresentava l’Ente in occasione degli incontri anche ufficiali con le istituzioni e con i privati»), al rientro dal congedo di maternità viene dapprima adibita alla mera gestione del settore scarichi e poi alla verifica dei controlli periodici sulla potabilità delle acque [1]. Contro tale decisione viene esperito ricorso per cassazione dalla lavoratrice, che lamenta in particolare la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 c.c. (nella versione antecedente rispetto alle modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81) e 52, ccomma 1, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 («nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1») dovuta alla mancata comparazione, da parte del giudice a quo, delle mansioni svolte anteriormente al periodo di congedo con quelle successivamente assegnate [2]. La Corte di Cassazione precisa fin da subito che il rapporto di genus a species che intercorre tra la norma codicistica e quella riservata ai lavoratori della P.A. determina l’inapplicabilità dell’art. 2103 c.c. al settore del pubblico impiego. Detto ciò, concentra l’attenzione sull’art. 52, comma 1, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in riferimento al quale sposa l’interpretazione letterale del testo normativo, secondo cui la definizione dei confini di equivalenza delle mansioni è rimessa alla contrattazione collettiva. Assunta l’esigibilità da parte del datore di lavoro di tutte le mansioni ascrivibili alla medesima categoria di inquadramento a prescindere dal bagaglio professionale del lavoratore, la riconducibilità delle nuove mansioni assegnate dall’A.T.I. all’area d’appartenenza della ricorrente («Funzionario tecnico cat. D3») porta la Corte di cassazione a rigettare il ricorso.


2. L'equivalenza delle mansioni nel pubblico impiego

La fattispecie oggetto della sentenza in esame ricade nella versione previgente dell’art. 52, comma 1, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che riconosceva in capo al prestatore di lavoro pubblico il diritto ad essere adibito «alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi». Secondo l’orientamento maggioritario, al quale aderisce la sentenza in commento, il mancato richiamo alle mansioni «ultime effettivamente svolte», che connota il settore privato, erge le aree professionali, così come individuate in sede collettiva, a parametro inderogabile di equivalenza [3]. Al fine di evitare il rischio di un eccesso di discrezionalità da parte dell’autorità giudiziaria ed ottemperare alle mutevoli esigenze dei vari comparti, la competenza esclusiva in materia di definizione del concetto di equivalenza delle mansioni viene attribuita alle parti sociali [4]. In altre parole, dottrina e giurisprudenza maggioritarie hanno intravisto nella formula legislativa sopracitata un rinvio assoluto alla contrattazione collettiva, che non lascerebbe all’interprete alcun margine per accertare in concreto l’equivalenza in ottemperanza al criterio della professionalità acquisita [5]. Secondo un orientamento rimasto minoritario, invece, l’inciso «considerate e­quivalenti nell’ambito della classificazione professionale» legittimerebbe l’inter­prete ad accertare la conformità delle nuove mansioni rispetto alla professionalità acquisita nella fase precedente del rapporto di lavoro. In altre parole, la definizione ex ante dell’equivalenza delle mansioni in sede negoziale non precluderebbe il vaglio giudiziale ex post,a garanzia del cammino professionale intrapreso. Differentemente da quanto sostenuto in via maggioritaria, il rinvio alla contrattazione collettiva assume natura relativa: il potere riconosciuto in capo alle parti sociali di definire il perimetro del giudizio di equivalenza non preclude al giudice di operare il confronto, dal punto di vista professionale, tra le mansioni a quo e quelle ad quem [6]. Alla luce di tali considerazioni, l’identificazione del bene giuridico tutelato dalla norma nel bagaglio professionale maturato dal prestatore di lavoro comporterebbe la necessità di accertare la [continua ..]


3. Un riavvicinamento dei due sistemi ad opera del Jobs Act?

La sentenza in esame offre l’occasione per riflettere sul rapporto intercorrente fra il diritto di adibizione alle «mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento» sancito dal testo vigente dell’art. 52, comma 1, D.Lgs. 30 marzo 2001, che si colloca nel solco tracciato dal precedente rinvio espresso alla contrattazione collettiva, e la nuova formulazione dell’art. 2103, comma 1, c.c., secondo cui «il lavoratore deve essere adibito a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte». Com’è noto, il testo previgente della norma codicistica riconosceva al prestatore di lavoro privato il diritto ad essere adibito alle «mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte», affidando alla giurisprudenza il compito di stabilire l’equi­valenza delle mansioni sotto il profilo della professionalità spesa dal lavoratore nello svolgimento della prestazione affidatagli. La novità di maggior rilievo risiede, dunque, nella tecnica di limitazione del­l’esercizio dello ius variandi orizzontale, rispetto al quale si assiste al passaggio da una norma inderogabile a precetto generico ad una «deregolazione controllata» mediante il rinvio alla contrattazione collettiva [9]. Investita della responsabilità di eliminare l’incertezza derivante dal vaglio giudiziale di equivalenza, la sfida per la contrattazione collettiva consiste in una definizione chiara dei confini di fungibilità delle mansioni all’interno dei vari livelli di inquadramento. Al contempo, tuttavia, è bene mantenere una certa prudenza nel considerare superato per sempre il parametro della professionalità acquisita; in questo senso, infatti, nulla osta ad una riesumazione del parametro soggettivo dell’e­quivalenza per il tramite dello strumento negoziale, con il risultato di affidare di nuovo al giudice l’ultima parola in materia di mobilità orizzontale [10]. Alla luce di tali considerazioni, si può affermare che la riforma dell’art. 2103 c.c. ad opera dell’art. 3, comma 1, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 ha accorciato le distanze tra i settori privato e pubblico in materia di limiti allo ius variandi del datore di lavoro, senza, però, eliminarle del tutto. Le differenze che ancora permangono [continua ..]


4. Considerazioni conclusive

Un’ultima riflessione è sollecitata dalla circostanza che nel caso di specie lo ius variandi orizzontale è stato esercitato da parte dell’A.T.I. umbra in concomitanza con il rientro al lavoro della lavoratrice dal congedo di maternità. Com’è noto, l’art. 56, comma 1, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 dispone che al termine del congedo le lavoratrici (comprese le «dipendenti […] di amministrazioni pubbliche» ex art. 2, comma 1, lett. e) siano adibite «alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti». Per quanto concerne il rapporto con la disciplina generale sulle mansioni esaminata finora, giova rimarcare come, in ottemperanza al principio di specialità, la particolare fattispecie oggetto di regolazione sia soggetta all’applicazione della norma in esame. Ne consegue che la maggiore discrezionalità derivante dal mancato rinvio alla contrattazione collettiva apre la strada ad una lettura garantista della previsione richiamata, che legittima il giudice di volta in volta interpellato ad accertare l’equivalenza delle mansioni assegnate alla lavoratrice pubblica rientrante dal congedo secondo il medesimo criterio della professionalità acquisita elaborato dalla giurisprudenza in merito alla versione previgente dell’art. 2103 c.c. Ma la decisione in esame non fa alcun riferimento a questa disposizione.


NOTE
Fascicolo 2 - 2019