1. La vicenda giudiziaria - 2. L'equivalenza delle mansioni nel pubblico impiego - 3. Un riavvicinamento dei due sistemi ad opera del Jobs Act? - 4. Considerazioni conclusive - NOTE
La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza n. 151 emessa in data 9 agosto 2012, riforma la condanna al risarcimento del danno a titolo di demansionamento pronunciata dal Tribunale di Perugia nei confronti dell’A.T.I. (Ambito Territoriale Integrato) umbro, ente pubblico dedito alla gestione della rete idrica in ambito regionale. La vicenda riguarda una dipendente che, originariamente chiamata a svolgere mansioni di elevata responsabilità («partecipava alle riunioni e al processo decisionale, coordinava i dipendenti della struttura, rappresentava l’Ente in occasione degli incontri anche ufficiali con le istituzioni e con i privati»), al rientro dal congedo di maternità viene dapprima adibita alla mera gestione del settore scarichi e poi alla verifica dei controlli periodici sulla potabilità delle acque [1]. Contro tale decisione viene esperito ricorso per cassazione dalla lavoratrice, che lamenta in particolare la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 c.c. (nella versione antecedente rispetto alle modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81) e 52, ccomma 1, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 («nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1») dovuta alla mancata comparazione, da parte del giudice a quo, delle mansioni svolte anteriormente al periodo di congedo con quelle successivamente assegnate [2]. La Corte di Cassazione precisa fin da subito che il rapporto di genus a species che intercorre tra la norma codicistica e quella riservata ai lavoratori della P.A. determina l’inapplicabilità dell’art. 2103 c.c. al settore del pubblico impiego. Detto ciò, concentra l’attenzione sull’art. 52, comma 1, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in riferimento al quale sposa l’interpretazione letterale del testo normativo, secondo cui la definizione dei confini di equivalenza delle mansioni è rimessa alla contrattazione collettiva. Assunta l’esigibilità da parte del datore di lavoro di tutte le mansioni ascrivibili alla medesima categoria di inquadramento a prescindere dal bagaglio professionale del lavoratore, la riconducibilità delle nuove mansioni assegnate dall’A.T.I. all’area d’appartenenza della ricorrente («Funzionario tecnico cat. D3») porta la Corte di cassazione a rigettare il ricorso.
La fattispecie oggetto della sentenza in esame ricade nella versione previgente dell’art. 52, comma 1, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che riconosceva in capo al prestatore di lavoro pubblico il diritto ad essere adibito «alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi». Secondo l’orientamento maggioritario, al quale aderisce la sentenza in commento, il mancato richiamo alle mansioni «ultime effettivamente svolte», che connota il settore privato, erge le aree professionali, così come individuate in sede collettiva, a parametro inderogabile di equivalenza [3]. Al fine di evitare il rischio di un eccesso di discrezionalità da parte dell’autorità giudiziaria ed ottemperare alle mutevoli esigenze dei vari comparti, la competenza esclusiva in materia di definizione del concetto di equivalenza delle mansioni viene attribuita alle parti sociali [4]. In altre parole, dottrina e giurisprudenza maggioritarie hanno intravisto nella formula legislativa sopracitata un rinvio assoluto alla contrattazione collettiva, che non lascerebbe all’interprete alcun margine per accertare in concreto l’equivalenza in ottemperanza al criterio della professionalità acquisita [5]. Secondo un orientamento rimasto minoritario, invece, l’inciso «considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale» legittimerebbe l’interprete ad accertare la conformità delle nuove mansioni rispetto alla professionalità acquisita nella fase precedente del rapporto di lavoro. In altre parole, la definizione ex ante dell’equivalenza delle mansioni in sede negoziale non precluderebbe il vaglio giudiziale ex post,a garanzia del cammino professionale intrapreso. Differentemente da quanto sostenuto in via maggioritaria, il rinvio alla contrattazione collettiva assume natura relativa: il potere riconosciuto in capo alle parti sociali di definire il perimetro del giudizio di equivalenza non preclude al giudice di operare il confronto, dal punto di vista professionale, tra le mansioni a quo e quelle ad quem [6]. Alla luce di tali considerazioni, l’identificazione del bene giuridico tutelato dalla norma nel bagaglio professionale maturato dal prestatore di lavoro comporterebbe la necessità di accertare la [continua ..]
La sentenza in esame offre l’occasione per riflettere sul rapporto intercorrente fra il diritto di adibizione alle «mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento» sancito dal testo vigente dell’art. 52, comma 1, D.Lgs. 30 marzo 2001, che si colloca nel solco tracciato dal precedente rinvio espresso alla contrattazione collettiva, e la nuova formulazione dell’art. 2103, comma 1, c.c., secondo cui «il lavoratore deve essere adibito a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte». Com’è noto, il testo previgente della norma codicistica riconosceva al prestatore di lavoro privato il diritto ad essere adibito alle «mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte», affidando alla giurisprudenza il compito di stabilire l’equivalenza delle mansioni sotto il profilo della professionalità spesa dal lavoratore nello svolgimento della prestazione affidatagli. La novità di maggior rilievo risiede, dunque, nella tecnica di limitazione dell’esercizio dello ius variandi orizzontale, rispetto al quale si assiste al passaggio da una norma inderogabile a precetto generico ad una «deregolazione controllata» mediante il rinvio alla contrattazione collettiva [9]. Investita della responsabilità di eliminare l’incertezza derivante dal vaglio giudiziale di equivalenza, la sfida per la contrattazione collettiva consiste in una definizione chiara dei confini di fungibilità delle mansioni all’interno dei vari livelli di inquadramento. Al contempo, tuttavia, è bene mantenere una certa prudenza nel considerare superato per sempre il parametro della professionalità acquisita; in questo senso, infatti, nulla osta ad una riesumazione del parametro soggettivo dell’equivalenza per il tramite dello strumento negoziale, con il risultato di affidare di nuovo al giudice l’ultima parola in materia di mobilità orizzontale [10]. Alla luce di tali considerazioni, si può affermare che la riforma dell’art. 2103 c.c. ad opera dell’art. 3, comma 1, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 ha accorciato le distanze tra i settori privato e pubblico in materia di limiti allo ius variandi del datore di lavoro, senza, però, eliminarle del tutto. Le differenze che ancora permangono [continua ..]
Un’ultima riflessione è sollecitata dalla circostanza che nel caso di specie lo ius variandi orizzontale è stato esercitato da parte dell’A.T.I. umbra in concomitanza con il rientro al lavoro della lavoratrice dal congedo di maternità. Com’è noto, l’art. 56, comma 1, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 dispone che al termine del congedo le lavoratrici (comprese le «dipendenti […] di amministrazioni pubbliche» ex art. 2, comma 1, lett. e) siano adibite «alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti». Per quanto concerne il rapporto con la disciplina generale sulle mansioni esaminata finora, giova rimarcare come, in ottemperanza al principio di specialità, la particolare fattispecie oggetto di regolazione sia soggetta all’applicazione della norma in esame. Ne consegue che la maggiore discrezionalità derivante dal mancato rinvio alla contrattazione collettiva apre la strada ad una lettura garantista della previsione richiamata, che legittima il giudice di volta in volta interpellato ad accertare l’equivalenza delle mansioni assegnate alla lavoratrice pubblica rientrante dal congedo secondo il medesimo criterio della professionalità acquisita elaborato dalla giurisprudenza in merito alla versione previgente dell’art. 2103 c.c. Ma la decisione in esame non fa alcun riferimento a questa disposizione.