Il lavoro nelle Pubbliche AmministrazioniISSN 2499-2089
G. Giappichelli Editore

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Buon andamento della pubblica amministrazione e diritti e doveri dei lavoratori* (di Lorenzo Zoppoli - Professore ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università di Napoli Federico II)


SOMMARIO:

1. Attualitą e significati del buon andamento della PA (art. 97 Cost.): oltre la distinzione tra legalitą (constraint) e risultati (goals). - 2. Il buon andamento tra legalitą e contrattualitą - 3. Possibili simmetrie e dinamiche delle tecniche regolative: legalitą-do­veri/contrattualitą-diritti; legalitą principi/contrattualitą regole; legalitą-garanzia di diritti costituzionali (dei cittadini e dei lavoratori)/contrat­tualitą-regolazione del punto di equilibrio tra interessi organizzativi e diritti dei lavoratori - 4. Il buon andamento nella (perdurante) stagione della contrattualizzazione - 5. Segue: a) la faticosa teorizzazione del contratto individuale di lavoro nelle pubbliche amministrazioni.Le tendenze neo-pubblicistiche - 6. Segue: b) le tesi privatistiche (non univoche) - 7. Segue: b) il ruolo della contrattazione collettiva tra vincoli di bilancio e vuoti manageriali. Nuovi approdi costituzionali - 8. Istituti paradigmatici: doveri del lavoratore pubblico e sanzioni disciplinari (onestą e proporzionalitą) - 9. Segue: doveri di comportamento, performance e premialitą (la permeabilitą del contratto ai risultati organizzativi) - 10. Considerazioni conclusive - NOTE


1. Attualitą e significati del buon andamento della PA (art. 97 Cost.): oltre la distinzione tra legalitą (constraint) e risultati (goals).

Colgo l’invito a tornare a riflettere su diritti e doveri dei lavoratori pubblici in amministrazioni costituzionalmente indirizzate al buon andamento ponendo in massimo risalto il riferimento contenuto nel titolo della prima sessione pomeridiana alle “risorse umane” nelle pubbliche amministrazioni. Su questa terminologia – di origine “aziendalistica” o, forse meglio dire, “organizzativistica”, e comunque non giuridica [1] – si potrebbero muovere varie obiezioni dall’angolo di osservazione del giurista. Osservazioni che potrebbero prendere curvature diverse a seconda che il medesimo giurista andasse a pescare nel bagaglio dello studioso del diritto pubblico/costituzionale o privato/giuslavoristico, magari rivisitando per l’occasione quel bagaglio e rendendolo il più possibile largo, misto e multicolore. Forse però ne verrebbe fuori un discorso tanto ricco di riferimenti e suggestivo quanto digressivo rispetto al quesito di fondo che mi pare faccia capolino dal titolo che gli organizzatori hanno proposto per questa mia relazione. Il quesito attiene – come sovente capita – ad una relazione/connessione che si assume come problematica: nello specifico al nesso tra buon andamento della pubblica amministrazione e l’insieme dei diritti/doveri dei dipendenti delle medesime amministrazioni, intendendo per tali quelli che costituiscono le “risorse umane” di cui le amministrazioni si avvalgono per perseguire appunto il buon andamento. Esplicitando la questione che si adombra dietro il titolo problematico, si potrebbe dire: quale “dosaggio” di diritti/doveri dei lavoratori è più idoneo ad assicurare il buon andamento delle pubbliche amministrazioni? Le parole sono però veri e propri mondi vitali, colmi di echi e di rimandi. Nel nostro caso il “dosaggio” – venuto fuori da un pensiero personale alla ricerca della migliore porta d’accesso al tema – credo richiami a tutti una nota sentenza della Corte Costituzionale (309/1997 [2]), una sentenza ai primordi della fase legislativa che ha profondamente rivisitato i nessi tra buon andamento e diritti/doveri dei lavoratori guardando proprio allo statuto giuridico dei secondi e consentendo al legislatore una loro collocazione in un contesto “codicistico/privatistico” purché accompagnato da un accorto “dosaggio di [continua ..]


2. Il buon andamento tra legalitą e contrattualitą

Già si è detto che gli obiettivi di efficienza e razionalizzazione del costo e del­l’utilità delle risorse umane devono anche essere perseguiti “applicando condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato” (art. 1, comma 1, lett c), D.Lgs. n. 165/01). Siamo nell’ambito di un principio che, non da ora, informa l’intera disciplina dei rapporti di lavoro pubblico. Un principio molto problematico, ma che con tutta evidenza per primo si riflette su diritti e doveri dei lavoratori pubblici. Senonché l’espressione “condizioni uniformi” rinvia non tanto alle situazioni giuridiche per loro stesse considerate, quanto a contenuti ed oggetti cui fanno riferimento le situazioni giuridiche attive o passive dei lavoratori. Quindi possiamo piuttosto pacificamente assumere che il principio or ora richiamato intanto può realizzarsi in quanto il sistema di disciplina dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni sia strutturato in modo da poter perseguire una qualche uniformità di condizioni tra “lavoro pubblico” e “lavoro privato”. Tralasciando in questa sede la ristretta schiera di rapporti esclusi dal sistema regolativo previsto dal D.Lgs. n. 165/01 (art. 3), si può senz’altro ricostruire come diretta filiazione del principio di cui all’art. 1, comma 1, lett. c) proprio il sistema delle fonti previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 165/01 per la generalità dei dipendenti pubblici. In esso si realizza quel “dosaggio delle fonti” già ricordato. Al centro di tale sistema è posta, com’è noto, la contrattualizzazione dei rapporti di lavoro, sia sotto il versante collettivo sia sotto quello individuale. Intendendo per contrattualizzazione proprio il superamento di un sistema di regolazione affidato a fonti generate unilateralmente dal potere pubblico e rimesso invece a tecniche di normazione consensuale, cioè contrattuali. Tecniche che mai sono state configurate come mero rinvio agli schemi negoziali utilizzati nel lavoro dei privati, ma che indubbiamente assumono questi ultimi come “istituti giuridici” adattabili dal legislatore – sebbene non da qualsiasi disposizione di legge [7] – alle peculiarità del contesto istituzionale in cui devono svolgere la loro funzione regolativa. Proprio la “centralità” [continua ..]


3. Possibili simmetrie e dinamiche delle tecniche regolative: legalitą-do­veri/contrattualitą-diritti; legalitą principi/contrattualitą regole; legalitą-garanzia di diritti costituzionali (dei cittadini e dei lavoratori)/contrat­tualitą-regolazione del punto di equilibrio tra interessi organizzativi e diritti dei lavoratori

Venendo a questo ulteriore aspetto, ci si imbatte sovente in altri limiti di rango costituzionale, che andrebbero proprio ad incidere sul confine tra legge e contratto riguardo alle materie “negoziabili”, cioè a quelle materie in cui, in tutto o in parte, potrebbe essere il contratto – individuale o collettivo – a fissare il grado di uniformità delle condizioni di lavoro con il privato. Si va da limiti ben espliciti in norme costituzionali, come l’art. 97 che fissa il principio del concorso pubblico e che alcune autorevolissime interpretazioni ritengono riferibile anche a vicende diverse, come le dinamiche delle carriere o le sanzioni per il ricorso abusivo ai contratti a termine o flessibili in genere [8]. Fino a chi ritiene che il principio lavoristico impedirebbe in generale di sovraordinare le esigenze della spesa pubblica alla tutela dei diritti dei lavoratori [9]. Salvo i casi in cui si ritrovano precisi limiti in norme della Costituzione (come appunto per il concorso pubblico o le coperture di bilancio) o del D.Lgs. n. 165/01 [10], il bilanciamento tra legge e contratto appare ormai rimesso in larga misura al legislatore, nel rispetto dei nuovi principi posti proprio a partire dalla scelta di superamento della disciplina unilaterale. Poi il confine può essere dinamico e diacronico, purché non contravvenga senza alcuna solida giustificazione all’indirizzo secondo cui le condizioni sostanziali in cui si concretizzano prevalenze o equiparazioni di doveri e diritti dei lavoratori pubblici siano uniformi con quelli dei lavoratori privati. Ne deriva che poco convincenti appaiono quelle ricostruzioni di tipo aprioristico secondo cui il campo dei doveri sarebbe presidiato da un rigido principio di legalità, mentre la fonte contrattuale entrerebbe in gioco qualora si tratti di determinare diritti, segnatamente di tipo economico-retributivo [11]. Oppure che il principio di legalità riguarderebbe esclusivamente i principi, mentre le regole di dettaglio sarebbero il regno delle fonti contrattuali. Se proprio può servire una teorica di tipo generale, direi che, analogamente al privato, la regolazione legale dovrebbe presidiare i diritti costituzionali dei cittadini e dei lavoratori che trascendono le peculiarità organizzative in cui viene svolta la prestazione, mentre alle fonti contrattuali va tendenzialmente affidata la regolazione del [continua ..]


4. Il buon andamento nella (perdurante) stagione della contrattualizzazione

Da quanto finora detto è agevole desumere che il tema in discussione va tuttora affrontato, senza alcun tentennamento, nell’ambito della cd. stagione della contrattualizzazione del lavoro pubblico, poco avendo fondamento quelle proposte di rilettura del quadro normativo in materia che, rilevando una crescita quantitativa della fonte legale, ritengono in atto un’integrale ri-pubblicizzazione del lavoro con le pubbliche amministrazioni tale da ricondurre tutto nell’originario alveo della disciplina unilaterale. Rilegificazione non equivale infatti né a una rifondazione acontrattuale del lavoro pubblico né al ritorno a fonti e atti di gestione di natura puramente unilaterale, così come nel privato le tante trasformazioni del rapporto tra legge/contratto collettivo/contratto individuale non hanno inciso sul fondamento contrattualistico del nostro ordinamento giuslavoristico [15]. Ciò non toglie però che il gran lavorio intorno al sistema delle fonti che ha caratterizzato il diritto del lavoro privato e pubblico degli ultimi vent’anni abbia portato molto a interrogarsi sulla morfologia della contrattualizzazione del lavoro, pubblico e privato, individuale e collettivo. Molto dunque si è tornato di recente a discutere di alcuni aspetti della stagione della contrattualizzazione che sembravano scontati o, tutto sommato, puramente teorici. Ad assumere crescente rilevanza è stata proprio la riflessione intorno al contratto individuale di lavoro così come emerge dalle più recenti evoluzioni della materia.


5. Segue: a) la faticosa teorizzazione del contratto individuale di lavoro nelle pubbliche amministrazioni.Le tendenze neo-pubblicistiche

Al riguardo si possono utilmente individuare almeno cinque orientamenti ricostruttivi. Potrebbero essere di più o di meno, ma i cinque sui quali mi soffermerò brevemente offrono un panorama esauriente dei dilemmi teorici e delle conseguenze ermeneutico-ricostruttive – talora intuibili talaltra meno autoevidenti – di un nodo cruciale per la chiarezza dello scenario dogmatico in cui va oggi inserita la problematica riguardante il nesso qui indagato (buon andamento/diritti-doveri dei lavoratori pubblici). I primi tre orientamenti sono quelli più permeabili alle tendenze per così dire neo-pubblicistiche alle quali ha dato fiato il legislatore ipertrofico degli ultimi dieci anni. Il primo orientamento è quello che possiamo definire degli scettici, intendendo per talicoloro che hanno sempre ritenuto di scarso rilievo la funzione concretamente disciplinatrice del contratto individuale di lavoro e ne rilevano a maggior ragione la ridotta rilevanza per il lavoro pubblico da sempre e ancor oggi regolato da fonti eteronome. Da questo approccio consegue con tutta evidenza la scarsa attenzione, di recente stigmatizzata, “al tema fondamentale del rapporto tra legge e contratto individuale” [16]. Un atteggiamento scettico o riduttivo è però sicuramente sbagliato, a prescindere dalla possibili concezioni e variazioni della categoria del contratto individuale di lavoro (v. infra), non foss’altro per il fatto che “lo schema contrattuale significa una cornice concettuale e valoriale dentro la quale i diversi punti di vista possono comunque essere contemperati e bilanciati secondo logiche e argomentazioni condivise e sperimentate da vastissime comunità tecnico-professionali” [17]. Il secondo orientamento è quello dei nostalgici, che, valutando negativamente la riforma varata negli anni ’90, vedono una ripubblicizzazione del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni come inevitabile conseguenza di ineliminabili differenze ontologiche tra pubblico e privato. Qui basta il rilievo secondo cui il fondamento acontrattuale del rapporto di lavoro non può essere sostenuto “in barba all’espressa qualificazione contrattuale da un quarto di secolo contenuta, senza variazioni diacroniche, nell’art. 2, c. 3, del D.Lgs. n. 29/93 prima e del D.Lgs. n. 165/01 poi” [18]. Un terzo orientamento poi, che potremmo [continua ..]


6. Segue: b) le tesi privatistiche (non univoche)

Anche tra gli studiosi che concordano sul punto appena ricordato oggi però spesso viene in discussione la configurazione strutturale del contratto di lavoro posto a base della disciplina del lavoro pubblico e privato e, in particolare, la sua configurazione causale. Questo è ben visibile nel più recente dibattito dottrinale tra i giuslavoristi, che vede un progressivo arricchimento delle posizioni in campo. Pur tenendo conto di ciò, e semplificando alquanto, io individuerei il quarto orientamento dottrinale in tema di teorica del contratto individuale del lavoratore pubblico negli studiosi che, fedeli alle origini, continuano a ritenere che lo schema causale sia rimasto invariato rispetto al codice civile del 1942, così come risulta dalle rivisitazioni del ventennio post-costituzionale, approdate ad una concezione non univoca ma maggioritaria, sulla quale poco o niente hanno inciso le riforme degli ultimi 20 anni. Potremmo definire questo orientamento come continuista, proprio in quanto assume lo schema concettuale di matrice civilistica preesistente alla legislazione sulla contrattualizzazione del lavoro pubblico come lo schema ancora attuale per ricavare i principi necessari ad armonizzare la regole speciali con lo schema concettuale [21]. Tale schema è quello del contratto di scambio così come definito e caratterizzato dall’art. 2094 c.c. Al riguardo però c’è da fare un’importante precisazione di carattere strutturale e generale, venuta in risalto con specifico riguardo alle figure della corrispettività in relazione alla causa del contratto. Il tema è trattato in particolare nella recente e bella monografia di Marco Barbieri sulla sinallagmaticità del contratto di lavoro pubblico. Barbieri ricostruisce la corrispettività inerente alla causa contrattuale come funzione economico-sociale di scambio di utilità che prescinde dalla concreta caratterizzazione degli interessi delle parti del medesimo. A sostegno della sua tesi invoca tanto un diritto civile asettico e “puro” quanto la concezione di autorevoli studiosi come Massimo Severo Giannini e Andrea Orsi Battaglini, secondo i quali l’or­ganizzazione in rapporto ai rapporti di lavoro contrattualizzati avrebbe una sua “neutralità”, cioè estraneità rispetto all’interesse pubblico che è sempre e solo interesse [continua ..]


7. Segue: b) il ruolo della contrattazione collettiva tra vincoli di bilancio e vuoti manageriali. Nuovi approdi costituzionali

Solo di recente si è anche recuperata una qualche chiarezza su spazio e ruolo che deve avere la contrattazione collettiva nel dosaggio di fonti legali e negoziali attraverso cui le pubbliche amministrazioni devono contemperare buon andamento e diritti/doveri dei lavoratori. Dal 2010 fino al 2017 infatti questo elemento cruciale della tematica in esame sembrava destinato ad un oscuramento tanto necessitato da ragioni economico-finanziarie quanto poco meditato sotto il profilo dei principi e delle regole ordinamentali. Infatti, com’è noto, la contrattazione collettiva per il lavoro pubblico – che ha motore e mappa direzionale nella contrattazione nazionale – è stata congelata dal 2007/8 fino al 2018. Dieci anni in cui, con sintesi brutale, può dirsi che il buon andamento si è sostanzialmente esaurito nel porre tetti generalizzati (lineari, si è detto) a quasi tutte le pubbliche amministrazioni (tranne quelle, davvero poche, che – per virtù progettuali, genialità, fantasia o spregiudicatezza – hanno saputo andare oltre la mera gestione dei tagli). A mettere ordine è stata la Corte costituzionale con la sentenza 178/2015, senza farsi intimidire dalle intenzioni manifestate dal legislatore ancora nell’agosto 2015, che con la legge delega 124 aveva messo in cantiere una riforma in cui le sorti della contrattazione nazionale erano quanto meno dubbie [37]. E va dato merito a questa giurisprudenza di aver spostato le colonne d’Ercole del dosaggio delle fonti, collocando la contrattazione per il lavoro pubblico al di qua dell’area protetta da tutele di rango costituzionale non solo nazionali. Però nella giurisprudenza della Corte Costituzionale va visto tutto quel che c’è: e c’è anche un significativo sostegno a quelle letture del buon andamento che, anche in considerazioni delle modifiche apportate nel 2012 all’art. 97, consentono di porre limiti invalicabili alle negoziazioni dei diritti (retributivi) dei lavoratori pubblici (così come ragioni di interesse generale possono giustificare tetti alla contrattazione nel settore privato, secondo ormai risalenti arresti della medesima Corte Costituzionale). Purché, dice la Corte, ciò non si sostanzi in un blocco della contrattazione per un periodo indefinito. Questo principio consente di ritenere riaperta anche la strada [continua ..]


8. Istituti paradigmatici: doveri del lavoratore pubblico e sanzioni disciplinari (onestą e proporzionalitą)

Può essere utile a questo punto analizzare qualcuno degli istituti più problematici nell’ottica del dosaggio delle fonti calibrato sul rapporto tra vincoli legislativi e gestione micro-organizzativa. Il primo istituto attiene all’area dei doveri e delle sanzioni disciplinari. Qui a mio parere c’è da fare più attentamente i conti con una novità normativa introdotta nel D.Lgs. n. 165 nel 2012 con la normativa anticorruzione. Con il novellato art. 54 si attribuisce direttamente al Governo il potere di emanare un codice di comportamento che sconfina nella materia disciplinare, pescando tra l’altro in un ambito di doveri abbastanza ampio. Le precipue finalità del codice nazionale sono infatti quelle di “assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico” (art. 54, comma 1). In particolare sia la collocazione legislativa della novella nell’ambito della legge n. 190/2012 – che fonda tutto l’impianto del sistema italiano per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione – sia la seconda parte dell’art. 54, comma 1, rendono ben evidente come la metamorfosi del codice di comportamento sia soprattutto da ricondurre alla connessione con la disciplina anticorruzione [43]. Appare coerente con questa evoluzione anche il diverso involucro formale e la diversa vincolatività del codice: un regolamento governativo – proposto dal Ministro per la pubblica amministrazione ed emanato con Decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e previa intesa in sede di Conferenza unificata – pubblicato in Gazzetta Ufficiale; e, inoltre, espressamente qualificato “fonte di responsabilità disciplinare”, nonché rilevante – in quanto produttivo di “doveri” derivanti da fonti unilaterali – ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile. Nell’insieme la disposizione sul codice di comportamento nazionale pare caratterizzarsi per una sovrabbondanza tanto di contenuti che di effetti. Talora inutili: come quando (tralaticiamente) si prevede che il codice “va anche consegnato al dipendente, che lo sottoscrive [continua ..]


9. Segue: doveri di comportamento, performance e premialitą (la permeabilitą del contratto ai risultati organizzativi)

Un problema diverso si pone con riferimento agli intrecci tra doveri disciplinari e ciclo delle performance. Qui abbiamo accennato al fatto che l’originaria convergenza soggettiva in capo ad un unico organismo centrale della funzione regolativo/gestionale in materia di trasparenza/anticorruzione/performance – maturata con tratti di evidente approssimazione – è stata quasi del tutto superata tra il 2012 e il 2014. Ciononostante restano echi di quella convergenza: nell’art. 54, comma 6, del D.Lgs. n. 165/01, che assegna anche all’OIV – in quanto struttura di controllo interno – il compito di svolgere attività di supervisione sull’applicazione dei codici; nelle norme del codice nazionale [58]; nelle linee guida ANAC del 2013, che in materia di controlli sull’attuazione e sul rispetto dei codici accentuano i nessi tra codici e valutazione delle performance [59]. Tali residui della precedente stagione regolativa si possono cogliere anche in disposizioni riguardanti il potere disciplinare che paiono configurare in termini di diligenza disciplinarmente sanzionabile la mancata realizzazione dei risultati di performance dovuta a tutti gli “obblighi concernenti la prestazione lavorativa”, con ricorso al licenziamento in caso di “reiterata violazione” (v. art. 55-quater del D.Lgs. n. 165/2001 e 3, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 150/2009, inserito dal D.Lgs. n. 74/2017). In tal modo continuano a realizzarsi pericolose sovrapposizioni tra diversi ambiti di responsabilità, intrecciandosi confusamente inadempimenti, infrazioni e raggiungimenti di determinati livelli prestazionali [60]. Per fugare tali confusioni assai opportuna è la precisazione sui diversi ambiti in cui si pone l’adempimento contrattuale e la relativa diligenza rispetto all’infrazione – che deve sempre essere valutata e non è automatica – e alla mancata realizzazione del risultato [61]. Il tema consente anche qualche precisazione sulla compatibilità tra discipline speciali sulla performance e causa sinallagmatica del contratto individuale di lavoro, sopra trattato. Al riguardo il rispetto dei doveri previsti dai codici di comportamento non può essere confuso con la realizzazione degli obiettivi di performance, attenendo il primo all’adempimento necessario dei doveri [continua ..]


10. Considerazioni conclusive

In conclusione oggi più di ieri le nuove/vecchie frontiere del buon andamento hanno un impatto notevole sul sistema di disciplina dei diritti/doveri dei dipendenti pubblici. Per molti versi si ampliano i rischi di disorientamento, tanto per un legislatore che ancora volesse mettere mano alla materia quanto per gli interpreti. E questi rischi sembrano assai concreti in questi giorni. Tuttavia le pagine che precedono dovrebbero confortare sul fatto che, pur nelle temperie di stagioni riformatrici molto dinamiche e assai poco sistematiche [62], alcuni capisaldi permangono nell’ordinamento giuridico del lavoro pubblico e possono servire per migliorare la realizzazione di tutti i profili di buon andamento individuati. Le esigenze di equilibrio di bilancio e controllo della spesa pubblica sono crescenti, ma adeguatamente presidiati. Anzi per certi versi può dirsi che sono state strabordanti, al punto da rendere difficoltoso il perseguimento degli altri profili del buon andamento e segnatamente di quello che rinvia ai miglioramenti di efficacia dell’a­zione pubblica [63]. Questa frontiera del buon andamento va presidiata però con regole su diritti e doveri dei lavoratori ben calibrate sulle specifiche realtà ed esigenze organizzative, seppure nel rispetto di diritti fondamentali che le leggi e i contratti nazionali possono ben garantire. Dalle problematiche esaminate emerge come siano poche le certezze e poco condivisibili le rigidità; sono quanto mai visibili poi crescenti linee di divergenza tra disciplina del lavoro privato e pubblico. Il quadro generale insomma può essere molto migliorato. Non si dovrebbe però debordare da due acquisizioni: la contrattualizzazione, come veicolo di un adeguato mix tra ordine universalistico, e le differenziazioni organizzative. La contrattazione resta un canale di utile delegificazione, se accompagnata da una regia nazionale accorta e attrezzata politicamente e tecnicamente. La contrattazione decentrata o integrativa, insieme a modalità relazionali più ricche, può essere una canale di adattamento micro-organizzativo dei contenuti negoziabili dei doveri come dei diritti dei lavoratori, nonché un modo per migliorare l’effettività delle regole e degli indirizzi di buon andamento. Sbaglierebbe a mio avviso un legislatore che volesse alterare la fisionomia di questo sistema ancora in fase di [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2019