1. Premessa - 2. Cenni al sistema dei permessi di cui all’art. 33, comma 3 della legge n. 104 del 1992 - 3. Il concetto di “ricovero a tempo pieno” dell’assistito - NOTE
Approda dinanzi alla Suprema Corte un caso quanto mai insolito che vede coinvolto un dipendente di una Asl piemontese, licenziato per giusta causa per avere affermato, con dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. n. 445/2000 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa), che la madre disabile, per la quale egli fruiva dei permessi mensili retribuiti regolati dall’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 (“Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”), non era ricoverata stabilmente presso alcuna struttura, quando, invece, a seguito di controlli, era emerso che la stessa soggiornava presso una residenza alberghiera. È bene sottolineare che una delle condizioni che il dettato normativo impone affinché il lavoratore che assiste un familiare affetto da handicap grave possa beneficiare di tre giorni di permesso retribuito, per ciascun mese, coperti da contribuzione figurativa, è il mancato ricovero a tempo pieno dell’assistito. Come si desume dalla sentenza, a carico dell’interessato si era profilata una responsabilità penale in virtù di quanto disposto dall’art. 76 del Testo unico n. 445/2000 secondo cui chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal testo unico, è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia. Tale procedimento penale, però, veniva archiviato, non potendo attribuire al lavoratore alcuna falsa dichiarazione, dal momento che si era ritenuto che il termine “ricovero”, di cui al comma 3 dell’art. 33 della legge n. 104, fosse da riferirsi soltanto a strutture di tipo sanitario e non a quelle di tipo alberghiero, come risultava essere quella in cui si trovava la madre dell’interessato. Diversamente, in sede di procedimento disciplinare, la condotta del lavoratore, che aveva comunicato al datore di lavoro, nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, un dato non vero, era stata considerata come idonea ad integrare un illecito talmente grave da compromettere in modo irreparabile il vincolo fiduciario con il datore di lavoro destinatario e giustificare il recesso immediato dal rapporto di lavoro. Il licenziamento era poi stato dichiarato legittimo sia dal Tribunale di primo grado che [continua ..]
Per impostare il commento, va premesso che il diritto al permesso mensile retribuito si inserisce nel novero di quegli interventi economici, di carattere socio-assistenziale [1], che vanno a sostegno delle famiglie che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave [2]. L’istituto, come ha affermato la Corte costituzionale [3], è strettamente collegato alle finalità della legge n. 104 del 1992, che sono quelle di tutela della salute psico-fisica della persona con handicap – è tale il soggetto che «presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione» [4] – e di promozione della sua integrazione nella famiglia. Proprio a quest’ultima, in particolare, viene riconosciuto un ruolo centrale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap, specie nel soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione quale fondamentale fattore di sviluppo della personalità e idoneo strumento di tutela della salute del disabile intesa nella sua accezione più ampia [5]. Ai sensi della legge n. 104, chi presta assistenza ai familiari disabili, oltre a permessi retribuiti, vanta anche il diritto di scelta della sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, nonché quello a non essere trasferito senza consenso (entrambe le previsioni sono contenute nell’art. 33 comma 5 della L. n. 104). La disciplina dei permessi per assistenza è stata oggetto, nel corso del tempo, di alcune riscrizioni ad opera del legislatore [6], nonché di vari chiarimenti forniti dalla prassi amministrativa, che hanno provveduto a precisare le condizioni cui è subordinato il godimento del diritto a fruire dell’agevolazione e, soprattutto, i soggetti che ne sono titolari. Su quest’ultimo aspetto, si osserva che, allo stato attuale, la misura spetta a tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, che debbano assistere un familiare portatore di handicap grave, che sia legato da un vincolo di matrimonio, di convivenza more uxorio [7], di parentela o affinità entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge del soggetto in difficoltà abbiano [continua ..]
Proprio sul concetto di ricovero a tempo pieno, di cui all’art. 33, comma 3 della legge n. 104, si soffermano i giudici della Corte di Cassazione nella sentenza in esame. Essi, innanzitutto, prendendo le mosse dalla giurisprudenza costituzionale sul tema [16], affermano che la ratio dell’istituto dei permessi retribuiti mensili consiste nel favorire l’assistenza al soggetto in condizione di handicap grave in ambito familiare, e che risulta incompatibile con la fruizione del diritto all’assistenza da parte del disabile solo quella situazione nella quale l’assistenza è garantita in un ambiente ospedaliero o del tutto similare. Infatti, precisa la Corte, solo le strutture ospedaliere o simili possono farsi integralmente carico sul piano terapeutico ed essenziale delle esigenze dell’handicappato e rendere, quindi, non più indispensabile l’intervento dei familiari. Il ricovero a tempo pieno – che come detto sopra preclude la fruizione dei permessi mensili – può essere, dunque, solo quello presso strutture ospedaliere (pubbliche o private) che siano in grado di garantire un’assistenza sanitaria continuativa, nonché assicurare al disabile grave tutte le prestazioni richieste dal suo stato di salute; qualora, invece, la struttura ospitante non sia attrezzata per fornire prestazioni sanitarie, «si interrompe la condizione del ricovero a tempo pieno in coerenza con la ratio dell’istituto dei permessi (…) che è quella di consentire l’assistenza della persona invalida che non sia altrimenti garantita o per i periodi in cui questa non lo sia». Attraverso un articolato e condivisibile percorso interpretativo, i giudici giungono a sostenere che il lavoratore ha la possibilità di usufruire dei permessi per prestare assistenza ad un suo congiunto anche quando questi è ricoverato presso strutture residenziali di tipo sociale, quali case-famiglia, comunità-alloggio o case di riposo, poiché queste non forniscono assistenza sanitaria continuativa; diversamente non può spettare il beneficio in caso di ricovero dell’assistito presso strutture ospedaliere o comunque strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria continuativa. Tale approccio, oltre ad essere conforme alla prassi amministrativa già ricordata sopra [17], è in continuità con [continua ..]