1. Le questioni in campo - 2. La prova nel lavoro alle dipendenze della p.a.: il regime privatistico e gli elementi di parziale specialità tra legge e contrattazione collettiva - 3. Sulla contestualità della motivazione come condizione di efficacia dell’atto risolutivo: osservazioni critiche - 4. Politica e amministrazione nel recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale durante il periodo di prova - 5. Motivazione del recesso in prova vs giustificazione del licenziamento: la diligenza come parametro di valutazione dell’idoneità professionale del lavoratore - 6. Le conseguenze del recesso illegittimo: tutele contro i licenziamenti o rimedi di diritto comune? - NOTE
Le sentenze in commento esaminano da angolazioni differenti la questione dei limiti al potere di recesso della p.a. durante il periodo prova cui sono sottoposti ex lege i dipendenti pubblici privatizzati. Segnatamente, la prima pronuncia ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato da una Azienda sanitaria a un dirigente medico in prova poiché il provvedimento estintivo non conteneva alcuna indicazione circa l’esito negativo dell’esperimento, limitandosi a fare rinvio a una delibera del Direttore Generale mai comunicata all’interessata. Nel prospettare l’esistenza di un obbligo di contestualità tra comunicazione del recesso e motivazione, la Corte ha in particolare escluso che l’amministrazione possa indicare le ragioni del mancato superamento della prova per relationem, a meno che gli atti e i documenti richiamati siano già stati preventivamente comunicati al lavoratore, ovvero siano già nella sua disponibilità, o comunque siano riprodotti nel loro contenuto essenziale nell’atto di recesso. Con la seconda pronuncia, invero più articolata, la Corte ha invece confermato la legittimità della determinazione con cui il Segretario Generale del Comune di Parma aveva risolto il rapporto di lavoro del Comandante del Corpo di Polizia Municipale, richiamando fra l’altro il contenuto delle relazioni sull’andamento della prova stilate dal Sindaco e dall’Assessore al ramo. La pronuncia offre una lettura meno rigorosa del peculiare obbligo della p.a. di motivare il recesso per mancato superamento del periodo di prova, precisando altresì che l’assenza di diligenza nell’esecuzione della prestazione può costituire un elemento in grado di qualificare il giudizio negativo sull’esperimento, senza che ciò conduca ad attribuire alla valutazione di inidoneità rilevanza disciplinare o sanzionatoria.
Entrambe le sentenze ricostruiscono l’istituto della prova nel lavoro alle dipendenze della p.a. in termini privatistici, pur rilevando che la disciplina vigente in tale ordinamento presenta alcuni tratti di specialità rispetto a quella dettata dall’art. 2096 c.c. [1]. La differenza di regolazione tra settore pubblico e settore privato attiene innanzitutto alla fonte che determina l’assoggettamento del lavoratore al periodo di prova. Nell’ambito dei rapporti privati, l’art. 2096, comma 1, c.c., prevede che l’assunzione in prova debba risultare da un atto scritto, la cui assenza determina la costituzione del rapporto in modo stabile sin dall’origine [2]. La clausola di prova ha pertanto natura negoziale e il suo impiego è rimesso ad una scelta discrezionale delle parti. Nell’ambito del lavoro alle dipendenze della p.a., al contrario, la disciplina dell’assunzione in prova presenta alcune deviazioni che la allontanano da quella dell’art. 2096 c.c., e che trovano fondamento nella clausola di salvaguardia di cui all’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001. L’istituto è tuttora regolato dall’art. 17, d.P.R. n. 487/1994, richiamato dall’art. 70, comma 13, D.Lgs. n. 165/2001. Nella specie, l’art. 17 del Regolamento sui concorsi pubblici stabilisce che «i candidati vincitori […] sono assunti in prova nel profilo professionale di qualifica o categoria per il quale risultano vincitori. La durata del periodo di prova è differenziata in ragione della complessità delle prestazioni professionali richieste e sarà definita in sede di contrattazione collettiva». In questo caso la prova trae legittimazione da una previsione di fonte legale e non da un patto individuale inserito nel contratto di lavoro, mentre il ruolo dell’autonomia collettiva, ancorché previsto, è limitato alla determinazione della durata dell’esperimento [3]. Pur rimanendo all’interno della cornice privatistica, si è dunque in presenza di una disciplina speciale che rende «l’esperimento della prova elemento essenziale per il perfezionarsi del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, senza peraltro escludere l’applicabilità di altre disposizioni contenute nell’art. 2096 c.c. al rapporto stesso» [4]. La seconda peculiarità riguarda il [continua ..]
Nel delineare la portata dell’obbligo di motivazione introdotto dai contratti collettivi del settore pubblico, la sentenza n. 15638/2018 precisa che le disposizioni del Ccnl dirigenza medico-veterinaria vanno interpretate nel senso di imporre la comunicazione dei motivi contestualmente al recesso. La statuizione viene argomentata facendo leva sulla natura giuridica del negozio estintivo, che in quanto atto unilaterale recettizio «deve essere completo in ogni sua parte al momento della ricezione da parte del destinatario». La conclusione cui perviene il Collegio è particolarmente rigorosa, specialmente ove si consideri la maggiore elasticità consentita dalla stessa giurisprudenza di legittimità con riferimento alla possibilità di indicare per relationem le mansioni che formano oggetto del patto di prova, le quali sono determinabili anche mediante rinvio ad un profilo professionale specifico del sistema di classificazione di fonte collettiva [18]. D’altra parte, l’asserito legame tra motivazione contestuale e natura recettizia dell’atto di recesso appare poco convincente. Al riguardo, è sufficiente osservare che quest’ultima caratteristica delimita il modo e il momento di produzione degli effetti del negozio giuridico, i quali si verificano quando l’atto perviene a conoscenza del destinatario, qualunque ne sia il contenuto. Condizionare l’efficacia del provvedimento risolutivo alla conoscenza delle motivazioni da parte del destinatario significa sovraccaricare l’art. 1334 c.c. di una funzione ulteriore che non gli è propria. Seppure non emerga dalla motivazione, è possibile che la Corte abbia inteso proporre una simmetria fra la disciplina del recesso in prova e l’attuale formulazione dell’art. 2, comma 2, legge n. 604/1996, che in seguito alle modifiche operate dalla legge n. 92/2012 impone che «la comunicazione del licenziamento debba contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato». Tuttavia, la già segnalata distinzione fra la struttura causale del licenziamento e quella discrezionale del recesso durante il periodo di prova ostacolano qualunque possibilità di ricercare una analogia tra le due fattispecie. Occorre peraltro considerare che l’art. 2, comma 2, legge n. 604/1966, costituisce norma di stretta interpretazione, trattandosi di un’eccezione alla regola [continua ..]
La seconda sentenza in commento (n. 22396/2018) si segnala anzitutto per alcune interessanti variazioni sull’individuazione dell’organo competente a irrogare il recesso ex art. 2096, comma 3, c.c., nei confronti della dirigenza degli enti locali. In primo luogo la Corte respinge la censura del ricorrente riguardante la violazione del principio di separazione fra politica e amministrazione, non ravvisando alcuna indebita ingerenza del Sindaco e dell’Assessore al ramo sulla formazione del provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro del Comandante del Corpo di Polizia municipale. La titolarità a esercitare il potere di recesso al termine del periodo di prova viene attribuita condivisibilmente al Segretario Generale, figura che sarebbe stata egualmente legittimata in caso di riqualificazione dell’atto risolutivo come licenziamento disciplinare, secondo la tesi prospettata dal ricorrente [28]. Ed infatti, ferma restando la competenza dell’Upd per lo svolgimento della fase istruttoria, l’art. 55, comma 4, D.Lgs. n. 165/2001, stabilisce che «per le infrazioni disciplinari ascrivibili al dirigente ai sensi degli articoli 55-bis, comma 7, e 55-sexies, comma 3, […] le determinazioni conclusive del procedimento sono adottate dal dirigente generale o titolare di incarico conferito ai sensi dell’articolo 19, comma 3». Tale disposizione va coordinata con quanto previsto per gli enti locali dall’art. 97, comma 4, D.Lgs. n. 267/2000, il quale stabilisce che il «Segretario generale sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l’attività, quando non sia stato nominato un Direttore generale». L’assetto normativo appena delineato conferma pertanto che all’interno dei Comuni le funzioni apicali di dirigente generale possono essere incardinate sul Segretario Generale, ancorché tale figura abbia natura ibrida e compiti più ampi di quelli di direzione, provenendo da un albo specifico che abilita allo svolgimento di funzioni notarili, consultive, referenti e di assistenza agli organi collegiali dell’ente [29]. Per quanto concerne il caso di specie, l’asserita ingerenza da parte degli organi di indirizzo politico è stata esclusa giacché il Segretario Generale aveva effettuato una autonoma ed esaustiva valutazione sull’esito della prova, laddove il Sindaco e [continua ..]
La sentenza n. 22396/2018 conferma che il patto di prova mira ad accertare non solo la capacità tecnica del lavoratore, ma anche la sua personalità e, in genere, l’idoneità dello stesso ad adempiere gli obblighi di fedeltà, diligenza e correttezza [37]. Si tratta di parametri valorizzati dalla Corte costituzionale con la già citata sentenza n. 189/1980, la quale aveva espressamente collegato la valutazione dell’imprenditore alla capacità e al comportamento professionale del lavoratore, ammettendo pertanto un giudizio negativo fondato sulla misurazione dell’adempimento. Tenuto conto di tale finalità, è corretto ritenere che tra i motivi del mancato superamento della prova possa essere addotto l’insufficiente livello di diligenza rispetto allo standard professionale atteso o richiesto dalla natura della prestazione dovuta. La pronuncia in commento segue questa linea per escludere che il riferimento all’art. 2104 c.c., contenuto nella lettera di recesso, costituisse un elemento idoneo ad attribuire rilievo disciplinare al provvedimento estintivo. Viene in questo modo tracciata una netta linea di demarcazione tra l’obbligo di motivazione per esito negativo della prova e quello di giustificazione imposto in caso di licenziamento per colpa. Al contempo, il sindacato giudiziale è incentrato sul nesso di causalità fra le ragioni indicate dal datore di lavoro e l’effettivo andamento della prova, sì da non oscurare il carattere pienamente discrezionale della scelta risolutiva. Da questo punto di vista, si può sostenere che il regime di libera recedibilità previsto dall’art. 2096 c.c., così come filtrato attraverso i limiti elaborati dalla giurisprudenza, presenti una fisionomia regolativa molto più simile a quella del licenziamento per motivo oggettivo che a quella del licenziamento disciplinare, condividendo con il primo l’esclusione del sindacato di merito sulle scelte datoriali e l’ammissibilità del controllo giudiziale sulla sola esistenza della motivazione e sul suo rapporto di causalità con il recesso. Ed infatti, se il giudice potesse indagare il contenuto o l’opportunità dell’apprezzamento discrezionale del datore di lavoro, si finirebbe inevitabilmente per sovrapporre la motivazione del recesso per mancato superamento della prova alla giusta causa o al [continua ..]
Nessuna delle due sentenze affronta espressamente il tema delle conseguenze dell’invalidità o dell’inefficacia del recesso durante il periodo di prova. Sul questo specifico aspetto, in realtà, la giurisprudenza non ha ancora raggiunto un definitivo punto di assestamento [39]. Nella specie, non sembra potersi dubitare che la nullità della prova per motivo illecito o discriminatorio, ovvero per mancata determinazione dei compiti su cui verte l’esperimento, dia luogo all’applicazione della tutela contro i licenziamenti illegittimi ed in particolare del rimedio reintegratorio oggi previsto dall’art. 63, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, essendo venuto meno il potere di recesso libero [40]. In caso di vizi funzionali (prova non consentita; durata eccessivamente breve; prova superata; adibizione a mansioni diverse da quelle convenute come oggetto della prova), si registrano invece due orientamenti: un primo filone ritiene applicabile la disciplina limitativa dei licenziamenti [41]; un secondo propende per il ricorso ai rimedi civilistici contro l’inadempimento, consentendo al lavoratore di optare ove possibile per la prosecuzione della prova fino al termine, ovvero di richiedere il risarcimento del danno [42]. Chi scrive propende per la prima soluzione: il mancato esperimento, la durata eccessivamente breve o l’adibizione a mansioni radicalmente diverse da quelle che dovrebbero formare oggetto dell’apprezzamento datoriale spezza il nesso di causalità che deve sussistere tra recesso e oggetto della prova, ponendosi in violazione della regola contenuta nell’art. 2096, comma 2, c.c., secondo cui «l’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova». Venuta meno la causa del negozio, non possono che applicarsi le tutele previste in materia di licenziamenti, potendosi discutere semmai, nel settore privato, sulla fattispecie in cui sussumere l’invalidità dell’atto estintivo e sul tipo di tutela applicabile a seconda dei casi (art. 8, l. n. 604/1966; art. 18, comma 4 o comma 5, legge n. 300/1970, art. 2, comma 1, o 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015). L’opposta tesi dei rimedi civilistici, d’altra parte, appare eccessivamente penalizzate per il lavoratore, sul quale graverebbe non solo l’onere di provare [continua ..]