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L'equivalenza "formale" delle mansioni dal lavoro pubblico al lavoro privato

Alberto Tampieri

Sommario:

1. La disciplina del mutamento di mansioni: dal lavoro pubblico a quello privato - 2. L'equivalenza “formale” delle mansioni: gli orientamenti della giurisprudenza - 3. Segue: le posizioni della dottrina - 4. Il presunto “schematismo” del lavoro pubblico - 5. Il valore “recessivo” della professionalità acquisita dal lavoratore - 6. L'equivalenza formale come limite al potere del datore di lavoro - 7. L'equivalenza formale come limite al sindacato del giudice - 8. Il ruolo dei contratti collettivi - 9. Considerazioni conclusive - Note


1. La disciplina del mutamento di mansioni: dal lavoro pubblico a quello privato

Nel lavoro pubblico, tra le poche materie costantemente divergenti rispetto alla corrispondente disciplina del lavoro privato, sin dalla “prima privatizzazione” del pubblico impiego degli anni Novanta, vi è l’esercizio dello ius variandi datoriale. Queste brevi riflessioni sono dedicate, in particolare, alla nozione di equivalenza tra le mansioni in caso di variazione “orizzontale”; nozione che, com’è noto, è cambiata di recente nel lavoro privato, per effetto dell’art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015 – che ha riscritto l’art. 2103 c.c. [1] – avvicinandosi notevolmente a quella vigente nel lavoro pubblico. Nel pubblico impiego “privatizzato”, per consolidata giurisprudenza, formatasi sin dalla prima stagione di riforme, “il testo dell’art. 56, D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29” (poi divenuto art. 52, D.Lgs. n. 165/2001) “non garantisce al pubblico dipendente il diritto a [continua ..]

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2. L'equivalenza “formale” delle mansioni: gli orientamenti della giurisprudenza

L’elaborazione giurisprudenziale da tempo formatasi nel lavoro pubblico esclude, come si è visto, il diritto del lavoratore a una corrispondenza necessariamente “professionale” tra mansioni di provenienza e mansioni di destinazione. Essa accoglie infatti una nozione “formale” di equivalenza delle mansioni, in contrapposizione al lavoro privato, nel quale, fino alla modifica del 2015, era predominante in giurisprudenza il concetto di equivalenza “professionale” o sostanziale. Infatti un noto e consolidato indirizzo della Suprema corte sosteneva che, “ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, deve essere valutata dal giudice di merito … la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto [continua ..]

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3. Segue: le posizioni della dottrina

Così come in giurisprudenza, anche in dottrina da tempo si era notato come la diversità di formulazione tra l’art. 52, comma 1 (all’epoca ancora art. 56, D.Lgs. n. 29/1993) e l’art. 2103 c.c. rivelasse una “netta divaricazione” tra lavoro pubblico e privato [10]. Quest’ultimo, a differenza del primo, vedeva la “preminenza del contratto reale su quello formale”, mentre nel lavoro pubblico la soluzione era opposta, essendo richiesto un particolare formalismo, sia dal rispetto del principio di imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), sia dal rigido sistema di inquadramento dei dipendenti, sia, ancora, dalla stretta connessione tra quest’ultimo e la dotazione organica dell’ente [11]. Secondo alcuni, lo stretto formalismo che caratterizzava questa nozione di equivalenza tra le mansioni era assai penalizzante per la posizione del pubblico dipendente, oltre a costituire un limite [continua ..]

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4. Il presunto “schematismo” del lavoro pubblico

Tornando alla Corte di cassazione, essa accoglie la distinzione (elaborata in dottrina) tra contratto di lavoro “reale” e contratto “formale” nel lavoro pubblico. Premesso infatti che “la lettera del citato art. 52 sembra far proprio un concetto di equivalenza “formale, ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice”, la Corte conclude che “condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita dal lavoratore”[17]. Ancor più esplicitamente, si è detto che “il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, impone nei confronti del prestatore di lavoro pubblico il mantenimento delle mansioni per le quali è stato assunto o di quelle ‘considerate equivalenti [continua ..]

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5. Il valore “recessivo” della professionalità acquisita dal lavoratore

Il suddetto orientamento giurisprudenziale, sulla nozione di equivalenza “formale”, è poi molto interessante – per non dire sorprendente – nella parte in cui si riferisce all’effetto (addirittura) potenzialmente “recessivo”, almeno nel pubblico impiego, della valorizzazione della professionalità acquisita dal lavoratore. Una “squalificazione” (indebita) del valore della professionalità acquisita era stata denunciata, in sede dottrinale, al tempo della “seconda privatizzazione” del pubblico impiego, di fine anni Novanta. Si disse, all’epoca, che la dichiarata “indifferenza” delle mansioni contrattualmente ascrivibili ad ogni categoria, nascondeva, in realtà, il rischio di una dequalificazione “legittimata” in sede negoziale. “Il contratto, di fatto” – secondo questa opinione – “vuole permettere sostanziali dequalificazioni; la [continua ..]

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6. L'equivalenza formale come limite al potere del datore di lavoro

Ci si può chiedere, a questo punto, a chi si rivolga il limite dell’equivalenza formale, ormai generalizzato: e in particolar modo se esso sia indirizzato al datore di lavoro (pubblico o privato), andando a vantaggio del dipendente, ovvero piuttosto se debba essere inteso come limite al sindacato del giudice. Secondo la giurisprudenza riferita al lavoro pubblico, l’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001 sarebbe “connotato dal carattere di imperatività”, che risulterebbe, oltre che dal tenore letterale del comma 1, “anche dal dettato del comma 6, laddove se ne sancisce la sua immodificabilità ad opera della contrattazione collettiva”[29]. Ebbene, l’imperatività della norma sul mutamento di mansioni, nel senso sopra ricordato, fa sì che, secondo la Cassazione, “le disposizioni del comma 1 dell’art. 52 non possano essere superate da atti unilaterali di gestione del rapporto da parte del datore di lavoro [continua ..]

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7. L'equivalenza formale come limite al sindacato del giudice

L’introduzione del concetto di equivalenza formale delle mansioni si traduce, più concretamente e verosimilmente, in un limite al sindacato giurisdizionale. Nelle decisioni più recenti della Suprema corte, in materia di lavoro pubblico, si precisa infatti che al giudice del lavoro è preclusa una valutazione “in concreto” – e cioè a prescindere dalle declaratorie contrattuali – dell’equivalenza delle mansioni svolte, sotto l’aspetto della professionalità acquisita dal dipendente[32]. Il giudice può (e deve) unicamente verificare, sulla base della declaratoria contrattuale, se le mansioni di destinazione possano essere ricomprese nella medesima area di quelle di provenienza. Il limite al sindacato del giudice sarebbe un diretto portato della natura pubblica del datore di lavoro, e dalle sue caratteristiche “istituzionali”: in sostanza, l’irri­levanza della professionalità [continua ..]

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8. Il ruolo dei contratti collettivi

Le sezioni unite della Suprema corte hanno ribadito, anche nel contesto che ci occupa, l’importanza strategica della contrattazione collettiva nella determinazione dell’equivalenza delle mansioni. Infatti – si è affermato – è “ben possibile che il contratto collettivo accorpi nella stessa qualifica mansioni diverse che esprimono distinte professionalità. Nulla esclude che queste professionalità costituiscano lo sbocco di percorsi formativi distinti, in ipotesi anche di livello diverso”. In questo caso, “l’equivalenza contrattuale sta a significare che la disciplina collettiva che fa riferimento alla qualifica si applica di norma a tutte tali mansioni così accorpate, ancorché espressione di diverse professionalità”[33]. In questo ambito, si è parlato in dottrina di “compito impegnativo” per l’au­to­nomia collettiva, osservando come gli attori sociali [continua ..]

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9. Considerazioni conclusive

Come si è visto, le giustificazioni fornite dalla giurisprudenza per avallare la scelta legislativa nel senso dell’equivalenza formale delle mansioni, sono discutibili sotto diversi aspetti. In primo luogo, ingiustificato – almeno nel pubblico impiego – è il richiamo al­l’interesse pubblico preminente per sancire l’irrilevanza della professionalità soggettivamente acquisita dal lavoratore. Ciò perché – come si è già detto – tale affermazione si appoggia sulla natura (ancora) pubblica del datore di lavoro, che però è fuori luogo in questa sede, dato che la privatizzazione del rapporto di lavoro consente di configurare come atto privatistico “di gestione” l’eventuale variazione delle mansioni del dipendente, indipendentemente dalla natura giuridica del datore di lavoro. In secondo luogo, il richiamo allo “schematismo” che caratterizzerebbe [continua ..]

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Note

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