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L'equivalenza delle mansioni nel pubblico impiego prima e dopo la “Riforma Brunetta” (nota a Cassazione, sez. lav., 26 gennaio 2017, n. 2011)

GIOVANNI ZAMPINI - Professore associato di Diritto del Lavoro nell'Università Politecnica delle Marche

Corte di cassazione, sez. lav., 26 gennaio 2017, n. 2011

Pres. L. Macioce, Rel. A. Di Paolantonio

Impiegato dello Stato e pubblico in genere - «Ius variandi» - Adibizione a mansioni equivalenti - Legittimità - Condizioni

In materia di pubblico impiego contrattualizzato non si applica l’art. 2103 c.c., essendo la materia disciplinata compiutamente dall’art. 52, d.lgs. n. 165/2001, che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della p.a., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione.

Svolgimento del processo

1. La Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 638/10, ha confermato il rigetto della domanda proposta da Ca. Ad. nei confronti del Comune di (OMISSIS), avente ad oggetto il risarcimento dei danni che il ricorrente, dipendente pubblico con inquadramento in posizione D3, assumeva essergli derivati dal mutamento organizzativo disposto dal Comune nel 2002 in forza del quale era stato spostato dal settore Manutenzione e Ambiente, di cui era responsabile, al settore Protezione civile, Sicurezza del territorio e Tutela del patrimonio, sempre in funzione di preposto.

2. La Corte distrettuale, premesso che nel 2002 il Comune di (OMISSIS) aveva proceduto ad una riorganizzazione interna delle aree, creando un autonomo settore alla cui direzione aveva posto il geom. Ca., ha osservato che non vi era stata né riduzione dello stipendio ne’ variazione del carattere apicale della posizione ricoperta dal funzionario, mentre nessun rilievo potevano avere le circostanze addotte dal­l’ap­pellante a sostegno del prospettato demansionamento, ossia la riduzione del budget di spesa (in precedenza di cospicua entità) e il ridotto organico dell’ufficio (da 5-6 operai ad un solo addetto, ma con attribuzione del coordinamento di un gruppo di 25 volontari per la protezione civile). Ha aggiunto che doveva piuttosto evidenziarsi l’importanza del neo-istituto Settore della Protezione civile, Sicurezza del territorio e Tutela del patrimonio, creato per la gestione degli interventi in caso di calamità naturali e in situazioni di pronto intervento, incidenti sulla salute e l’incolumità pubblica, “a maggior ragione poi in un territorio come quello veneto, assai soggetto ad esondazione dei corsi d’acqua e a fenomeni alluvionali, anche gravi”.

3. Per la cassazione di tale sentenza il Ca. ha proposto ricorso affidato ad un motivo. Resiste il Comune di (OMISSIS) con controricorso.

4. Il ricorrente ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1. Con unico motivo si denuncia violazione dell’articolo 2103 c.c., e vizio di motivazione (articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5) per avere la Corte di appello omesso di individuare il contenuto delle mansioni svolte dal ricorrente in qualità di responsabile dell’Ufficio Manutenzione e Assetto del territorio e di porle a confronto con quelle successivamente attribuite, implicanti la gestione di un limitato portafoglio di spesa, la comprovata riduzione di orario e di impegno lavorativo, il coordinamento di una sola impiegata. Ove il raffronto richiesto dall’articolo 2103 c.c., fosse stato effettuato, il demansionamento sarebbe emerso con certezza.

2. Il ricorso è palesemente infondato.

3.1. La riconduzione della disciplina del lavoro pubblico alle regole privatistiche del contratto e dell’autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario, non ha eliminato la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, per ciò che riguarda l’or­ganizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale. In questa ottica il Decreto Legislativo n. 165 del 2001, ha disciplinato interamente la materia delle mansioni all’articolo 52, e, al comma 1, ha sancito il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi (testo anteriore alla sostituzione operata dal Decreto Legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, articolo 62, comma 1). La lettera del citato articolo 52, com­ma 1, specifica un concetto di equivalenza "formale", ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. Ne segue che, condizione necessaria e sufficiente affinché’ le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A.

3.2. A partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n. 8740/08, è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, non si applica l’articolo 2103 c.c., essendo la materia disciplinata compiutamente dal Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 52 (come già detto, nel testo anteriore alla novella recata dal Decreto Legislativo n. 150 del 2009, articolo 62, comma 1, inapplicabile ratione temporis al caso in esame) - che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 17396/11; Cass. n. 18283/10; Cass. S.U. n. 8740/08; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n. 17214 del 2016). Dunque, non è ravvisabile alcuna violazione del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 52, qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni. Restano, dunque, insindacabili tanto l’operazione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l’operazione di verifica dell’equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima declaratoria.

3.3. Condizione necessaria e sufficiente affinché’ le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all’aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico (cfr. Cass. n. 11835 del 2009).

3.4. Tale nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili e l’assegna­zione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro.

3.5. Resta comunque salva l’ipotesi che la destinazione ad altre mansioni comporti il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa. Trattasi di questione che, tuttavia - giova rimarcare - esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, configurandosi nella diversa ipotesi della sottrazione pressoché’ integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonché’ Cass. n. 687 del 2014).

4. Alla stregua della sentenza impugnata, risulta positivamente accertato che la direzione dell’unità denominata Settore 07 Protezione civile, Sicurezza del territorio e Tutela del Patrimonio del Comune di (OMISSIS) corrispondesse ad una posizione organizzativa di categoria D. Pertanto, escluso il diritto del dipendente pubblico a permanere in una determinata posizione alla stregua di una verifica in senso sostanziale della equivalenza, la preposizione a tale unità organizzativa non costituisce violazione del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 52.

5. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del Decreto Ministeriale 10 marzo 2014, n. 55, articolo 2.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.500,00 per compensi professionali e in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 22 novembre 2016. Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2017


Commento

SOMMARIO: 1. Lo jus variandi prima della riforma Brunetta. - 2. Lo jus variandi dopo la riforma Brunetta. Le questioni aperte.

1. Lo jus variandi prima della riforma Brunetta

Il demansionamento Il principio di diritto enunciato nella pronuncia in commento si inserisce in un orientamento giurisprudenziale che sembra ormai consolidato.

La Cassazione osserva come il c.d. processo di privatizzazione che ha interessato il pubblico impiego (inteso come riconduzione alle regole privatistiche del contratto e dell’autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario) non ha eliminato la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico. Quest’ultimo, in particolare, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato per ciò che riguarda l’organizzazione del lavoro, resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale che possono ben giustificare deroghe anche rilevanti alle regole di gestione del rapporto dettate, in generale, dal codice civile [1].

In quest’ottica è letto l’art. 52, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001, che ha disciplinato interamente la materia delle mansioni, sancendo il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi. Secondo i giudici di legittimità, in particolare, la norma citata “specifica un concetto di equivalenza formale, ancorato … ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice”. Ne consegue che, “condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità specifica che il lavoratore possa avere acquisito in una precedente fase del rapporto di lavoro alle dipendenze della p.a.”.

Quanto affermato trova puntuale riscontro nella costante giurisprudenza di legittimità, per la quale in materia di pubblico impiego contrattualizzato, non si applica l’art. 2103 c.c., essendo la materia disciplinata compiutamente dall’art. 52, D.Lgs. n. 165/2001, che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della p.a., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione [2]. Il potere direttivo del datore di lavoro pubblico si considera esercitato correttamente, qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente delle medesime mansioni. Restano, dunque, insindacabili tanto l’opera­zione di riconduzione in una determinata categoria di determinati profili professionali, essendo tale operazione di esclusiva competenza dalle parti sociali, quanto l’o­perazione di verifica dell’equivalenza sostanziale tra le mansioni proprie del profilo professionale di provenienza e quelle proprie del profilo attribuito, ove entrambi siano riconducibili nella medesima declaratoria.

Così stando le cose, condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all’aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico [3]. Tale nozione di equivalenza in senso formale, mutuata dalle diverse norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili e l’assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro.

Questa tesi ha il conforto dell’interpretazione letterale e non identifica alcun limite, né nei confronti del negoziato sindacale, né dei provvedimenti dell’ammini­stra­zione, la quale si deve attenere alle indicazioni degli accordi. Il punto è espresso con chiarezza da questa sentenza, la quale sottolinea non solo la coerenza con i precedenti di legittimità, ma come tali conclusioni siano sorrette dal testo, in modo esatto. Nel declinare l’idea di equivalenza, i contratti del lavoro pubblico non incontrerebbero alcun vincolo, ma sarebbero il libero frutto delle incondizionate scelte degli stipulanti, con una fiducia estrema nei loro confronti dell’art. 52, D.Lgs. n. 165/2001, in nome della pretesa (e, a dire il vero, discutibile) migliore conoscenza da parte delle intese della struttura delle istituzioni e delle esigenze contrapposte [4].

Alla luce di quanto sopra, quindi, il punto di partenza essenziale per esaminare la materia nel pubblico impiego e per comprendere quando si è di fronte ad un demansionamento, è dato dalla verifica dell’area professionale e della fascia di appartenenza. In soldoni, il pubblico dipendente, qualora venga adibito a mansioni inferiori ma che rientrino nella stessa area professionale di appartenenza, anche se costretto ad effettuare attività lavorative di minor pregio rispetto, appunto, a quelle precedentemente assegnate, non potrà essere considerato demansionato. Quindi, quando effettivamente il dipendente pubblico potrà dirsi demansionato? Si verificherà un’ipotesi di demansionamento qualora il lavoratore venga adibito a mansioni che rientrino in aree professionali inferiori e che non gli permettano di utilizzare quel corredo di nozioni, esperienza e il bagaglio professionale acquisito sino a quel momento. Resta, inoltre, sempre vietata l’ipotesi di svuotamento totale delle mansioni se si protrae per un lungo lasso temporale.

Dunque, in base a quanto sopra esposto, il pubblico dipendente, per verificare se sia stato demansionato, dovrà confrontare le mansioni relative all’area professionale di appartenenza con le mansioni che effettivamente svolge. Ove ritenga che le attività svolte siano relative ad aree professionali inferiori, oppure si sia operato nei suoi confronti lo svuotamento della mansione costringendolo all’assoluta inattività, allora il dipendente potrà intraprendere un’azione giudiziale affinché possa essere riconosciuto il danno da perdita di chance. La risarcibilità del danno è parametrata alla retribuzione di riferimento e quantificata in misura percentuale rispetto al tipo e all’entità del demansionamento, cosicché la richiesta risarcitoria si concretizzerà con l’applicazione di una percentuale sulla retribuzione mensile.

La Cassazione, tuttavia, non esclude del tutto un possibile ruolo ai poteri di accertamento e valutazione del giudice, poiché fa comunque salva l’ipotesi - vietata anche nell’ambito del pubblico impiego - che la destinazione ad altre mansioni comporti il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa. Si tratta certo di una questione diversa, dove il tema dell’equivalenza mansionaria è, in realtà, un pretesto per nascondere operazioni di emarginazione del dipendente (quando non di vero e proprio mobbing), tesi a svuotarne la professionalità mediante la sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere [5].

È stato anche precisato che, nell’ambito del giudizio di responsabilità per risarcimento del danno da demansionamento arrecato dall’amministrazione ad un proprio lavoratore, il giudice contabile è chiamato a valutare la portata del decisum giusvaloristico relativo a tale danno, da cui scaturisce il conseguente danno erariale azionato dalla Procura contabile, laddove per demansionamento (o dequalificazione) si intende la sottrazione, da parte del datore di lavoro, di alcune delle mansioni originariamente assegnate al lavoratore (c.d. demansionamento quantitativo), la diminuzione della rilevanza e della qualità professionale di tali mansioni, ovvero l’attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle svolte inizialmente (per queste ultime due ipotesi si parla di c.d. demansionamento qualitativo); tale danno da demansionamento va considerato in una cornice unitaria, al cui interno vanno presi in considerazione diversi pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, tutti accomunati dal fatto di derivare da un’illegittima condotta datoriale che, andando a ledere il combinato disposto degli artt. 2103 e 2087 c.c., fa sorgere una responsabilità contrattuale in capo al datore di lavoro pubblico per inadempimento di un’obbligazione di non fare (non adibire, appunto, il lavoratore a mansioni inferiori) [6].

2. Lo jus variandi dopo la riforma Brunetta. Le questioni aperte

Va segnalato, però, che la sentenza in commento si riferisce ad una controversia instaurata nel 2002; dunque ben prima dell’entrata in vigore della c.d. riforma Brunetta. È ragionevole sostenere che l’attuale formulazione dell’art. 52, D.Lgs. n. 165/2001, novellato da tale riforma (art. 62, comma 1, D.Lgs. n. 150/2009), possa rimettere in discussione le conclusioni a cui sono giunti i giudici di legittimità.

La novella in questione si inserisce nell’ambito di una riforma caratterizzata dal ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva e dalla rilegificazione di una parte notevole della disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici [7]. Per modellare il lavoro nelle p.a. all’insegna dell’efficienza dell’azione amministrativa e della professionalità dei suoi dipendenti, il legislatore del 2009 dichiara, sin dalla legge delega 4 marzo 2009, n. 15, di voler riprodurre fedelmente le logiche manageriali e di competitività che animano l’agire imprenditoriale, iniettando al­l’in­terno dell’apparato amministrativo una più avanzata cultura aziendalistica ed ulteriori margini di flessibilità gestionale (cfr. l’art. 2, comma 1, lett. a), legge n. 15/2009, che indica tra gli obiettivi del legislatore delegato la convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico con quelli del lavoro privato, con particolare riferimento al sistema delle relazioni sindacali). In questo rinnovato contesto, l’at­tua­le formulazione dell’art. 52, D.Lgs. n. 165/2001 prevede che «il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, ovvero alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento». Le modifiche apportate dalla riforma Brunetta sono dunque due, e consistono nella soppressione del termine «considerate», sinora richiamato per desumere l’integrale devoluzione del giudizio di equivalenza alle determinazioni di fonte collettiva, e nella sostituzione dell’am­bito di riferimento entro cui effettuare la comparazione tra le mansioni, dapprima individuato più genericamente nel sistema di classificazione professionale previsto dai contratti collettivi, adesso circoscritto all’area di inquadramento.

Il nuovo comma 1-bis dell’art. 52 (anch’esso introdotto dall’art. 62, D.Lgs. n. 150/2009) stabilisce, poi, che “i dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle accademie, conservatori e istituti assimilati sono inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali”. Si tratta di una previsione che non presenta particolari profili di novità, in quanto nei principali contratti di comparto l’articolazione del personale è già articolata su un minimo di tre aree, ma che tuttavia sembra cristallizzare i sistemi di inquadramento su un modello predefinito, riducendo in tal modo l’ambito di intervento dell’autonomia collettiva alla delimitazione dei confini interni delle aree e al raggruppamento delle prestazioni professionali ivi catalogate [8]. Dal combinato disposto delle due norme alcuni hanno dedotto che nulla sarebbe cambiato rispetto al passato: il restyling normativo della mobilità orizzontale non avrebbe prodotto conseguenze pratiche di rilievo, mantenendo l’attualità delle conclusioni sinora raggiunte dalla giurisprudenza maggioritaria circa la insindacabilità dei rapporti di equivalenza fra tutte le mansioni rientranti nelle singole aree di inquadramento contrattuale. L’unica differenza consisterebbe nel fatto che adesso il referente del giudizio di comparazione sarebbe divenuto più ristretto, in quanto non più esteso all’intero sistema di classificazione professionale, ma confinato all’interno della singola area [9].

A questa tesi, tuttavia, se ne può opporre una diversa, ritenendo che col venir meno dell’espresso rinvio legislativo alle valutazioni operate dalle parti sociali l’equivalenza sia tornata ad essere, anche nel lavoro pubblico contrattualizzato, una caratteristica suscettibile di valutazione giudiziale come nell’impiego privato [10]. La riforma Brunetta ha rilegificato la materia della mobilità orizzontale, “in modo che la funzione ora attribuita alla contrattazione collettiva è tornata ad essere quella di delimitare il perimetro invalicabile (l’area) entro cui l’interprete è chiamato ad accertare la sussistenza in concreto dei rapporti di equivalenza professionale. Ne consegue che è venuto meno ogni automatismo derivante dalla mera collocazione delle mansioni nel medesimo «contenitore» endocategoriale, a vantaggio di un parziale recupero del principio di effettività anche nel lavoro nelle p.a.” [11]. È dunque condivisibile l’interpretazione secondo cui “il dato letterale della (nuova) disposizione fa propendere per una lettura limitativa, nel senso che sono esigibili, tra le mansioni previste nella stessa area, solo ed esclusivamente quelle ritenute, dal giudice e non più dal contratto collettivo, equivalenti” [12]. Per lo stesso motivo, ragionando a contrario, si può escludere la possibilità di stabilire un rapporto di equivalenza fra gruppi di mansioni classificate in aree funzionali differenti.

Impostata in questi termini - come è stato sottolineato - “la questione dell’e­qui­valenza nel pubblico impiego segna dunque un ulteriore passo in avvicinamento rispetto al settore privato. In entrambi gli ordinamenti, la contrattazione collettiva è chiamata ad interpretare il ruolo di interlocutore privilegiato della giurisprudenza, ma le sue determinazioni sui rapporti di equivalenza dovranno comunque sottostare ad una valutazione di coerenza rispetto ai valori costituzionali protetti dalla disciplina legale, mediata dai criteri di ragionevolezza e buona fede” [13]. Inoltre, ritenendo che il principio di equivalenza non debba più essere veicolato dalla mediazione dell’autonomia collettiva, si guadagnano spazi di flessibilità prima ritenuti (paradossalmente) inesistenti: anche nell’eventuale silenzio delle parti sociali, infatti, sarà possibile modificare in orizzontale le mansioni del lavoratore, superando l’effetto paradossale (già sostenuto in dottrina) di ritenere precluso l’esercizio dello jus variandi in mancanza di una sua regolazione anche minima in sede sindacale [14]. Ma la conclusione - come è stato notato - “finiva per riportare l’assetto regolativo indietro nel tempo, allorquando la mancata previsione di una specifica disciplina sulla mobilità orizzontale all’interno del T.U. n. 3/1957 veniva intesa come sinonimo del­l’impossibilità di attuare spostamenti al di fuori delle mansioni ricomprese nella qua­lifica inizialmente assegnata al lavoratore” [15]. Questa soluzione appariva dunque tecnicamente imposta dalla lettera del vecchio art. 52, D.Lgs. n. 165/2001, ma conduceva ad esiti non sempre coerenti con le finalità della privatizzazione, segnatamente quelle di una più efficace organizzazione del lavoro).

Dall’altro lato, non tutte le decisioni hanno accettato l’idea di una completa devoluzione al contratto collettivo della definizione delle mansioni equivalenti, sebbene tale tesi sia stata maggioritaria. Le resistenze si sono concentrate in ordine alla protezione della vocazione professionale del prestatore di opere e del relativo impatto negoziale, con l’identificazione del fare nell’intesa individuale. A prescindere dalle formule, si è ritenuto impossibile che il potere della P.A. determinasse una innovazione sul senso complessivo del lavoro concordato, anche nella sua lettura sociale.

Ed infatti, ancor prima che l’art. 62, D.Lgs. n. 150/2009 modificasse l’art. 52 cit., esisteva già una corrente interpretativa che riteneva necessaria una lettura della norma orientata a consentire la salvaguardia della professionalità effettiva anche dei lavoratori pubblici. Si era così sostenuto, che “l’area delineata dalla contrattazione è l’ambito entro il quale si svolge il giudizio, ma l’appartenenza alla medesima area non sostituisce il giudizio. Essa costituisce un confine, un perimetro non valicabile, oltre il quale sicuramente non può esservi equivalenza, ma all’interno di una medesima area non è detto che tutte le mansioni siano equivalenti e che quindi un lavoratore possa essere spostato indistintamente da una mansione all’altra”. La legittimità del mutamento di mansioni dovrà costituire oggetto di un accertamento concreto condotto case by case e tarato sulla professionalità concretamente spendibile dal lavoratore nella posizione di destinazione [16].

[1] Cfr. sul punto Sgarbi, Mansioni e inquadramento dei dipendenti pubblici, Padova, 2004, 27 ss.

[2] Cass., 19 agosto 2011, n. 7396; Cass., 5 agosto 2010, n. 18283, in RFI 2010, voce Impiegato dello Stato e pubblico [3440], n. 500; Cass., S.U., 4 aprile 2008, n. 8740, in questa Rivista, 2008, 351, con nota di Murrone, in MGL, 2008, 952, con nota di Pisani, in RIDL, 2008, II, 801, con nota di Diamanti; v. più recentemente, Cass., 25 marzo 2014, n. 7106; Cass., 13 giugno 2016, n. 12109; Cass., 19 agosto 2016, n. 17214, in RFI, 2016, voce Sentenza civile [6100], n. 80).

[3] Cfr. Cass., 21 maggio 2009, n. 11835, in FI, 2010, I, 78, in Adl, 2010, 232, con nota di Villa, in Mgl, 2010, 222, con nota di Pisani.

[4] Ricciardi, I nuovi sistemi di classificazione del personale nei rinnovi contrattuali 1998 - 2001, in in questa Rivista, 1999, 2, 263 ss.

[5] Cass., 21 maggio 2009, n. 11835, cit., Cass., 11 maggio 2010, n. 11405, in Ridl, 2011, II, 149, con nota di Tampieri; Cass., 15 gennaio 2014, n. 687, in Rfi, 2014, voce Impiegato dello Stato e pubblico [3440], n. 175.

[6] Corte dei Conti, Sez. Giur. Lombardia, 29 dicembre 2008, n. 991.

[7] Cfr. Bellavista-Garilli, Riregolazione legale e decontrattualizzazione: la neoibridazione normativa del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in questa Rivista, 2010, I, 1 ss.; Sordi, Il sistema delle fonti della disciplina del lavoro pubblico (dopo il d.lgs. n. 150 del 2009), ivi, 2010, 805; D’orta, L’organizzazione delle p.a. dal diritto pubblico al diritto privato: il fallimento di una riforma, ivi, 2011, 391; Talamo, Pubblico e privato nella legge delega per la riforma del lavoro pubblico, in gda, 2009, 468; D’Auria, Il nuovo sistema delle fonti: legge e contratto collettivo, Stato e autonomie territoriali, ivi, 2010, 5; Melis, La pubblica amministrazione: una riforma mancata, ivi, 2012, 101; Cassese, Dal­l’impiego pubblico al lavoro con le pubbliche amministrazioni: la grande illusione?, ivi, 2013, 313).

[8] Gargiulo, Merito e premialità nella recente riforma del lavoro pubblico, in IF, 2009, 5/6, 929.

[9] Cfr. Ferrante, Nuove norme in tema di inquadramento e di progressione di carriera dei dipendenti pubblici, in Garilli-Napoli (a cura di), La terza riforma del lavoro pubblico tra aziendalismo e autoritarismo, Padova, 2013, 463, secondo cui “l’assenza del riferimento alle mansioni effettivamente svolte, confermata ancora oggi dal permanere della clausola di chiusura del comma 1, non può che confermare che l’equivalenza si valuta sul piano degli inquadramenti e dei giudizi formulati dalla contrattazione collettiva ai fini della attribuzione della retribuzione, di modo che al giudice non è dato sovrapporre la propria, alla valutazione formulata in sede collettiva”; Pecoraro, La mobilità orizzontale nel lavoro pubblico: tra equivalenza formale e sostanziale, in questa Rivista, 2012, I, 219; A. Miscione, Mansioni, progressioni professionali e altri strumenti premiali, in F. Carinci, Mainardi (a cura di), La terza riforma del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commentario al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, Milano, 2011, 123 ss. Dubitativamente Esposito, Ordinamento professionale e disciplina delle mansioni nel lavoro pubblico, cit., 171; Vendramin, La equivalenza delle mansioni nel lavoro pubblico privatizzato all’indomani della riforma Brunetta tra modelli negoziali e interpretazioni giudiziali, in questa Rivista, , 2009, I, 997).

[10] Cfr. Viscomi, Il pubblico impiego: evoluzione normativa e orientamenti giurisprudenziali, in DLRI, 2013, 64.

[11] Riccobono, Ancora sull’equivalenza delle mansioni nel lavoro pubblico e privato: interferenze reciproche e circolazione dei modelli regolativi nella più recente evoluzione normativa, in ADL, 2014, 6, 1348.

[12] Pisani, La rilegificazione della equivalenza delle mansioni nel lavoro pubblico contrattualizzato, in MGL, 2012, 828 ss.

[13] Riccobono, op. cit., 1355.

[14] In precedenza si riteneva che l’eventuale silenzio delle parti sociali avrebbe precluso qualsiasi tipo di mobilità interna all’area: cfr. Pisani, La regola dell’“equivalenza” delle mansioni nel lavoro pub­blico, in ADL, 2009, 67.

[15] Riccobono, op. cit., 1355.

[16] Curzio, Pubblico impiego: sospensioni, congedi, aspettative, mutamenti di mansioni, promozioni, in RCDL, 2002, 247 ss.; Perrino, Il rapporto di lavoro pubblico, Padova, 2004, 219 ss.; Clarich-Iaria, La riforma del pubblico impiego, Rimini, 1999, 482 ss.