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Gli infiniti tormenti del lavoro pubblico
ALESSANDRO BELLAVISTA – Professore ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università di Palermo
Cambiano i governi e, purtroppo, in Italia, le cose restano in sostanza uguali, seppure in apparenza ne risulti mutata la forma. Questa purtroppo non è una facile battuta, ma la constatazione di un’amara realtà, specie se si concentra la visuale sulle questioni concernenti le dinamiche del settore del lavoro pubblico, della dirigenza e, più in generale, della ricerca di strumenti atti a migliorare l’efficienza complessiva delle pubbliche amministrazioni. Anzitutto, e per fortuna, il tempo ha dato ragione a chi, nonostante le imperanti narrazioni di stampo neoliberista, ha sempre sostenuto l’importanza della presenza di un ramificato apparato pubblico di erogazione di servizi, per sostenere lo sviluppo del paese, per mantenere la coesione sociale, per soddisfare i bisogni essenziali dei cittadini e per contribuire alla diffusione dell’educazione e della civiltà.
Il problema concreto è, al momento, diventato, infatti, più che la riduzione dello spazio pubblico (di cui in sostanza non si parla più, visto che s’è accertato che il “privato” spesso non è bello come appare nelle favole) quello di aumentare la capacità di risposta delle pubbliche amministrazioni alle esigenze della società e quindi di incrementare ciò che si definisce come efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa. Purtroppo, a questo proposito, i policy makers, in modo bipartisan, continuano a pensare e, soprattutto, a diffondere, con tecniche sempre più fantasiose di marketing elettorale e di storytelling, l’idea che le cose possano cambiare a colpi di mere riforme legislative senza curarsi effettivamente di svolgere azioni di governo nella direzione auspicata. Così, ormai, è prassi abituale che ogni Governo, all’atto del suo insediamento, annunci la necessità di una riforma epocale della pubblica amministrazione.
Di conseguenza, il discorso pubblico è stato (ed è sempre) dominato dal cosiddetto mito della riforma della pubblica amministrazione. Certo, vi sono differenze sostanziale tra i vari periodi temporali. Fino agli novanta del secolo scorso, gli interventi si sono ridotti, in concreto, a piccoli ritocchi dello stato giuridico ed economico del personale; ritocchi che anzi sono stati fortemente influenzati dalle esigenze di quest’ultimo soprattutto nell’applicazione pratica. E anche l’importante provvedimento che ha istituito nel 1972 la dirigenza pubblica statale è stato in sostanza travolto nei fatti (rectius, dalle forze e dagli interessi che si opponevano alla trasformazione); in quanto, come ebbe a dimostrare magistralmente Sabino Cassese, si instaurò immediatamente uno scambio tra potere e sicurezza tra organi politici e dirigenza, a seguito del quale la dirigenza rinunciò a svolgere i compiti affidatigli dalla legge in cambio della garanzia della conservazione della sua posizione privilegiata. I percorsi riformatori avviati a partire dagli anni novanta del secolo scorso sono stati alquanto più radicali dei precedenti e hanno cercato, invero, di risolvere i problemi manifestatisi in passato, tenendo conto di un’importante quantità di studi e di ricerche sul campo. Tuttavia, da allora fino ad oggi, si continua a commettere lo stesso errore. L’innovazione è progettata dall’alto, spesso (ma non sempre) è tecnicamente ben costruita, però si dimentica di creare gli appositi strumenti volti a garantire il rispetto degli obiettivi prefigurati. È mancata, e manca, cioè la capacità di governo, in concreto (day to day), nella direzione dell’effettivo cambiamento. Il che presuppone, come dimostra tutta la letteratura più importante, soprattutto il coinvolgimento attivo delle persone lungo la traiettoria riformatrice. Coinvolgimento che può essere realizzato attraverso una costante opera di formazione del personale, di costruzione della cosiddetta etica del servizio pubblico, di valorizzazione reale della professionalità e del merito. Si tratta cioè di creare un ambiente organizzativo in cui tutti i dipendenti si sentano veri attori protagonisti e non mere comparse. Le persone dovrebbero essere in grado di introiettare, nella loro azione giornaliera, gli obiettivi fondamentali della rispettiva organizzazione, in modo tale che la soddisfazione delle esigenze del cittadino diventi anche gratificazione dello stesso lavoratore. Invece, proprio negli ultimi anni, s’è raggiunto il picco del fallimento. Ciò quando, con la cosiddetta riforma Brunetta, s’è instaurata una sorta di moderna caccia alle streghe, etichettando i pubblici dipendenti come fannulloni da stanare e da obbligare a lavorare con gli antichi metodi da caserma del bastone e della carota. È evidente che con un atteggiamento del genere era impossibile trovare un minimo di condivisione da parte delle maestranze; e infatti tale progetto è stato boicottato in tutti i modi fino a costringere lo stesso Brunetta a repentine marce indietro e a congelare sine die gli istituti più esasperati.
D’altra parte, è ormai consapevolezza comune che l’azione pubblica è un elemento indispensabile per lo sviluppo e la crescita economica. Ma, per raggiungere risultati virtuosi, è necessaria una pubblica amministrazione che si muova proprio nella direzione del soddisfacimento degli interessi della collettività. E un tassello di un’effettiva strategia di rilancio dell’azione amministrativa è rappresentato da una politica di reale coinvolgimento e motivazione dei dipendenti pubblici in modo chiaro e trasparente. Tutto questo richiede che il ceto politico di governo si faccia carico dell’imprescindibile esigenza della rimodulazione della macchina amministrativa in funzione degli interessi generali e abbandoni la prassi prevalente di considerarla come struttura servente per il soddisfacimento delle ragioni particolaristiche e clientelari.
Anche in tempi recenti l’azione politica ha manifestato tutta una serie di ambiguità. Il governo Renzi aveva lanciato, con un’ampia pubblicità su tutti i media e con un ingente schieramento di forze d’assalto, una vastissima campagna riformatrice di ogni settore della pubblica amministrazione che ancora, al di là della mutazione formale di alcune regole, proprio sul piano della realtà effettuale non ha prodotto alcun effetto. Per giunta, la revisione della disciplina della dirigenza pubblica è stata bloccata dalla Consulta a causa di un grave errore procedurale del Governo che non aveva raggiunto, con le regioni, l’accordo preventivo sul testo da varare definitivamente.
Così, scaduta la delega per la dirigenza pubblica, ogni prospettiva riformatrice in quest’ambito è stata rinviata a data da destinarsi, visto anche la prossima scadenza dell’attuale legislatura. Invece, sono stati definiti i decreti concernenti la modifica della disciplina del lavoro pubblico (D.Lgs. n. 75/2017) e del sistema di valutazione (D.Lgs. n. 74/2017).
Orbene, non è questa la sede per soffermarsi sui dettagli tecnici di tali provvedimenti (cosiddetta riforma Madia), ma è necessario svolgere alcuni considerazioni essenziali.
L’impressione generale è quella che il Governo si sia mosso in una direzione, in sostanza, influenzata dal soffio del vento delle incipienti elezioni (stante che, come s’è appena detto, la legislatura volge comunque al termine). E quindi l’operazione è stata quella di tentare di riconquistare il consenso perduto, nel settore del lavoro pubblico, e specie presso le grandi organizzazioni sindacali, di cui la sconfitta referendaria dello scorso dicembre ne è un chiaro esempio. D’altra parte, il Governo di centro-sinistra, fin dai suoi albori, non ha avuto un buon rapporto con le rappresentanze del mondo del lavoro, in quanto deprecava, a chiare lettere, le prassi concertative e teorizzava apertamente la cosiddetta disintermediazione. Lo stesso Governo ha rallentato il più possibile l’avvio della contrattazione collettiva, specie per il rinnovo della parte economica degli accordi (ormai bloccata dal 2010), nonostante la censura della Consulta (sentenza n. 178/2015). Sorprendentemente, però, esso ha cominciato in concreto a porre in essere i primi passi, per la riapertura dei tavoli di contrattazione, appena prima del referendum costituzionale, con un apposito accordo ai massimi livelli (il 30 novembre 2016), con l’ulteriore promessa di restituire all’azione sindacale alcune competenze sottratte dalla precedente riforma Brunetta.
In quest’ottica di palese scambio politico, possono essere lette le novelle normative volte a consentire alla contrattazione collettiva di recuperare un po’ di spazio di azione rispetto alla legge e alla regolazione unilaterale. Si tratta di innovazioni che vanno valutate positivamente, perché annullano il tentativo della riforma Brunetta di eliminare una fonte indispensabile della disciplina del lavoro pubblico, vale a dire la contrattazione collettiva. La situazione appare, tuttavia, paradossale, perché dalla lettura della legge delega (legge n. 124/2015) poteva desumersi un’intenzione affatto contraria. E cioè, per quanto molti dei principi della legge delega fossero alquanto generici e indeterminati, non era difficile ricavare da essi una forte continuità con la riforma Brunetta circa il mantenimento di rigide restrizioni alla contrattazione collettiva e la considerazione di quest’ultima con estrema diffidenza, come occasione di costi e di inefficienza e non come importante risorsa organizzativa per le amministrazioni. Il che è confermato dal fatto che, secondo una diffusa opinione, la nuova disposizione dell’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 è viziata di illegittimità costituzionale per eccesso di delega. La novella riporta i rapporti tra regolazione unilaterale e contrattazione collettiva al momento antecedente la riforma Brunetta. Infatti, essa oggi consente alla contrattazione collettiva nazionale (successiva) di derogare alle fonti unilaterali che, in precedenza, abbiano introdotte discipline speciali per i lavoratori pubblici. Il che ristabilisce la giusta primazia della contrattazione collettiva come fonte generale delle regole del lavoro pubblico ed evita il rischio di “leggine” particolari e di privilegio, a meno che ovviamente non sia il legislatore stesso ad assumersi la responsabilità di dichiarare le sue norme inderogabili da parte della contrattazione collettiva. Tuttavia, delle possibilità di operare un intervento sul sistema dei rapporti tra regolazione unilaterale e contrattazione collettiva non v’è alcuna traccia nella legge delega, mentre quando il legislatore della riforma Brunetta volle intervenire sul punto introdusse, nella legge n. 15/2009, un’esplicita previsione. Tutto ciò avvalora l’idea che il rapido cambio di rotta sia stato causato soprattutto da ragioni prettamente politiche e non da una seria ponderazione sul valore aggiunto del dialogo con le rappresentanze del lavoro, pur ovviamente nella reciproca distinzione di ruoli.
Per il resto, gran parte delle innovazioni apportate dai due decreti hanno un valore puramente simbolico, come, per esempio, alcune disposizione in tema di contrattazione collettiva che avrebbero potuto tranquillamente costituire oggetto di apposite direttive all’Aran, senza la necessità di cristallizzarle in formule legislative. Preoccupante è però la complessa disciplina della sanatoria della contrattazione integrativa che abbia sfondato i limiti di spesa ad essa imposti. Cosa è questa?, se non l’ammissione del fallimento di un’impostazione che cerca aprioristicamente di ingabbiare dinamiche che vanno al di là di qualunque tentativo dirigistico e che sono basate su logiche di scambio politiche ed elettorali? Singolare è che il legislatore invece di tentare di evitare l’enfatizzazione di queste dinamiche, di fatto le legittima.
Inoltre, non è apparente, bensì reale, l’allargamento dello spazio della partecipazione sindacale operato dalla riforma Madia rispetto alla situazione precedente. Apprezzabile è sicuramente il fatto che le associazioni sindacali abbiano la possibilità di essere consultate circa le scelte gestionali delle amministrazioni e di potere esprimere il loro punto di vista. Tuttavia, è altresì importante che il nuovo sistema di relazioni sindacali, che va costruito dalla contrattazione collettiva nazionale in itinere, non costituisca l’occasione per introdurre nuovamente, in modo surrettizio, momenti di cogestione (com’è accaduto in passato con la cosiddetta concertazione) e di contrattazione occulta nell’area dell’organizzazione amministrativa che non può che rimanere una prerogativa esclusiva del management pubblico, come si verifica nel settore privato.
In effetti, ciò che, però, il legislatore dimentica (o fa finta di dimenticare) è che una vera contrattazione collettiva nel mondo del lavoro pubblico (che non sia collusiva e a danno degli interessi dei cittadini) può esistere solo se effettivamente lì ci sia un vero datore di lavoro, che sia in conflitto d’interessi con la controparte e che possa quindi realmente contrattare. Ma dove è il datore di lavoro pubblico? L’attuale disciplina dei rapporti tra politica e amministrazione rende la dirigenza ostaggio del potere politico e quindi subalterna ai suoi voleri. Lo schema di riforma della dirigenza cassato dalla Consulta avrebbe peggiorato le cose, perché la dirigenza sarebbe divenuta ancora più precaria e quindi più debole. E una dirigenza debole non è in grado di agire con autonomia e responsabilità, di affermare le superiori esigenze degli interessi pubblici nei confronti dei lavoratori, delle loro organizzazioni e dello stesso potere politico.
La verità è che, come dimostra la lunga storia dei tormentati rapporti tra politica e amministrazione, il potere politico non può (si potrebbe dire, ontologicamente) tollerare una dirigenza veramente autonoma e imparziale, perché essa sarebbe di ostacolo alla perversa tendenza del primo di invadere l’amministrazione e di usarla a proprio uso e consumo; e quindi di raccogliere consenso elettorale e, sul piano delle relazioni di lavoro, di flirtare con i lavoratori e le rispettive organizzazioni. Pertanto, è indispensabile iniziare dalla testa e non dai piedi del sistema.
Va così ripetutamente sottolineato che la questione dei rapporti tra politica e amministrazione è il problema dei problemi di ogni serio tentativo di riforma dell’intero sistema delle pubbliche amministrazioni. Ma, come si vede, questa imprescindibile consapevolezza non trova ascolto nelle sedi decisionali, dove invece vengono adottate scelte del tutto inefficienti e soprattutto si preferisce (in modo bipartisan) preservare lo status quo. Sicché, l’alternativa è chiara e non ammette soluzioni ambigue. Un’opzione può essere quella di portare a termine l’idea ispiratrice delle riforme avviate negli anni novanta del secolo scorso e quindi di introdurre effettivamente quelle garanzie che permettano alla dirigenza amministrativa di svolgere in pieno le proprie funzioni di datore di lavoro, senza subire le indebite pressioni del potere politico al momento titolare dell’illimitato potere di decidere su ogni aspetto della carriera dei dirigenti e che quindi ha su di essi un sostanziale ius vitae ac necis. Oppure, si prenda atto che, al momento, il reale datore di lavoro pubblico è costituito dagli organi politici di vertice delle amministrazioni e che costoro, proprio in quanto sono istituzioni politiche, sono esposti a vincoli ed incentivi di tipo elettorale ben lontani da quelli che operano nel mercato privato e concorrenziale. Da tempo si riflette sugli strumenti più opportuni per ridurre l’influenza del mercato elettorale sugli organi politici. A questo proposito, nei documenti programmatici che illustravano gli aspetti generali del suo intervento riformatore, il Ministro Brunetta parlava della necessità di introdurre un istituto come il cosiddetto “fallimento politico”: e cioè un apparato di sanzioni a carico degli organi politici che avessero scelto dirigenti non in grado di garantire l’efficienza delle rispettive amministrazioni o che si fossero resi direttamente autori di decisioni a danno delle medesime. Ma poi di tutto ciò non si fece nulla. E oggi come prima l’unica forma di responsabilità a cui restano assoggettati gli organi politici è quella elettorale che, com’è noto, in un paese come l’Italia, è del tutto inefficace, per un vario ordine di motivi.
La stessa risolutezza andrebbe adottata sul piano macro della contrattazione collettiva nazionale, cercando di allontanare sempre di più le perverse istanze della politica dai tavoli contrattuali, con un vero rafforzamento dell’autonomia d’azione del negoziatore pubblico, che dovrebbe avere la possibilità di muoversi, nell’interesse generale, tenendo conto delle direttive delle amministrazioni rappresentate, senza però essere costretto ad accettare indicazioni esorbitanti dai vincoli legislativi e finanziari. Basti pensare, infatti, che le passate tornate contrattuali hanno prodotto contratti nazionali zeppi di disposizioni contra legem e che sfondavano i liniti di spesa. E ciò è dipeso dalla circostanza che le amministrazioni interessate, per mezzo dei rispettivi comitati di settore, imponevano all’Aran di accettare gli accordi sottobanco già preventivamente realizzati con le organizzazioni sindacali per evidenti motivi elettorali e di acquisizione del consenso, in pieno dispregio delle ragioni della collettività e degli utenti dei servizi pubblici.
Altresì importante è ribadire con forza che le pubbliche amministrazioni sono al servizio dei cittadini e quindi della collettività che, di fatto, rappresentano i loro veri padroni. Così, è imprescindibile l’attivazione di effettivi ed oggettivi sistemi di valutazione sull’efficacia e sull’efficienza delle politiche pubbliche, sull’impatto dei relativi servizi e perciò sui livelli di soddisfazione degli utenti e dei cittadini. Solo grazie alla disponibilità di un siffatto patrimonio conoscitivo è poi possibile attivare idonei meccanismi di valutazione della dirigenza e del resto del personale e comunque adottare le opportune scelte strategiche ed organizzative orientandole verso un miglioramento della performance complessiva. Ma anche qui si assiste, nel discorso pubblico, ad un profondo iato tra gli annunci e le realizzazioni concrete. Lunga è la catena delle responsabilità di questo deprecabile ordine di cose che favorisce il mantenimento di una sorta di armistizio tra le varie “voci di dentro” e gli “spiriti animali” delle pubbliche amministrazioni. Tuttavia, è evidente che per primo sul banco degli imputati dovrebbe salire il ceto politico di governo che disdegna ogni forma di valutazione sul proprio operato che non sia quella dell’ordalia elettorale. Sicché, solo una grande mobilitazione della società e della parte migliore degli attori presenti all’interno delle pubbliche amministrazioni potrà indurre lo stesso ceto politico ad allentare tale resistenza. Un evidente esempio della tendenza della politica a difendere strenuamente la sua autoreferenzialità è offerto dal rilievo che, in breve tempo, negli ultimi anni, amministrazioni non espressione di rappresentanza politica, come quelle delle università, sono state sottoposte ad intensissimi e pervasivi (e talvolta eccessivi) processi di valutazione su tutte le loro attività. Mentre in tutte le amministrazioni controllate direttamente dalla politica, come s’è appena detto, gli obblighi imposti dalla legge di introdurre simili forme di valutazione non sono mai stati sostanzialmente rispettati.
È quasi superfluo osservare che l’ultima riforma qui in esame non affronta, se non con estrema superficialità, il tema cruciale della valutazione in tutti gli ambiti poc’anzi esaminati. Ci si limita, infatti, da un lato, quanto al personale, ad abbattere la “gabbia d’acciaio” della riforma Brunetta e a rivitalizzare l’intervento della contrattazione collettiva in ordine ai criteri per la differenziazione dei giudizi sui singoli lavoratori. Dall’altro, ad aggiornare direttive già contenute nella medesima riforma Brunetta tra cui quelle volte a prevedere la partecipazione dei cittadini al processo di misurazione delle performance organizzative e l’introduzione di sistemi di rilevazione del grado di soddisfazione degli utenti e dei cittadini in relazione alle attività e ai servizi erogati da parte delle amministrazioni. Solo il futuro consentirà di verificare se tale novella troverà effettiva applicazione o se verrà del tutto congelata com’è già accaduto in precedenza.
Un’ultima osservazione. Anche la stessa ossessione governativa sui lavoratori assenteisti ovvero i cosiddetti “furbetti del cartellino” può essere letta in termini di pura strategia di marketing elettorale e di diffusione dell’illusione circa le virtù taumaturgiche della legislazione. In pratica, il potere politico necessita di sedurre gli elettori, scontenti delle inefficienze di alcuni uffici delle pubbliche amministrazioni e comunque colpiti dagli effetti della crisi che mette in dubbio tante certezze esistenziali. In questo modo, parlando degli assenteisti, della propria volontà di colpire chi non vuole lavorare, e introducendo nuove norme in materia disciplinare, il Governo distoglie l’attenzione del pubblico sui reali problemi della società italiana che forse proprio lo stesso Governo non vuole o non può risolvere. In effetti, anche prima di tutte le novelle degli ultimi tempi, licenziare gli assenteisti era estremamente semplice, purché lo si fosse voluto effettivamente. Ma chi ha protetto (e non è detto che non continui a farlo) gli assenteisti? La risposta è facile, a dir poco ovvia: il potere politico che ha la guida delle amministrazioni e che, molto difficilmente, tende ad inimicarsi i suoi elettori più facilmente conquistabili.