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La stagione delle riforme: Pubblico e Privato a confronto
Lorenzo Zoppoli - Professore Ordinario di Diritto del lavoro nell’Università di Napoli Federico II
Sommario: 1. Pubblico e privato venticinque anni dopo (1992-2017). - 2. Le tortuose convergenze. - 3. Le materie più “toccate” dalle riforme. - 4. Il punto di maggiore resistenza. - 5. Quali alternative? Quale contratto di lavoro al centro delle riforme? - 6. Manovre di avvicinamento: il sistema di relazioni sindacali. - 7. Segue: il rapporto di lavoro. - 8. Distanze vecchie e nuove. - 9. Una conclusione possibile: divaricazioni incolmabili sul piano micro-organizzativo attraverso la regolazione giuslavoristica. Il ruolo degli “attori”, diversi tra pubblico e privato.
1. Pubblico e privato venticinque anni dopo (1992-2017)
Il bilancio delle riforme in materia di lavoro è un esercizio molto complesso, poco praticato e particolarmente esposto ad una molteplicità di approcci anche metodologici, tutti legittimi ma con esiti potenzialmente diversissimi [1]. Se parliamo di stagione delle riforme legislative pensando ad un confronto tra pubblico e privato dobbiamo a mio parere prendere in considerazione un arco temporale lungo: almeno un quarto di secolo. Anche se nel lavoro pubblico le riforme legislative cominciano prima (1992, rispetto al pacchetto Treu del 1997) e trovano il più recente punto di approdo successivamente (2017 rispetto al Jobs Act del 2015).
Naturalmente in questo periodo sono state fatte tantissime riforme legislative: generali, con riguardo a profili istituzionali, o, più specifiche, ad esempio in materia previdenziale. Oppure sono state fatte profondissime riforme settoriali: si pensi all’assetto degli Enti locali, delle Regioni, della Sanità o alle nostre Università. Una comparazione completa dovrebbe guardare a tutti gli aspetti. Ad esempio nell’ultimo anno sono stati riformati i rapporti di lavoro nelle imprese a partecipazione pubblica (o società controllate: alcune centinaia di migliaia di lavoratori) [2], ma anche negli enti del terzo settore (alcuni milioni di lavoratori, se si considera l’area assai vasta del volontariato) [3].Fare un confronto che comprenda tutte le discipline settoriali non rientra né nei miei intendimenti né nelle mie forze. Qui mi limiterò ad un ragionamento che riguarda le discipline di applicazione tendenzialmente generali, differenziate solo in ragione dell’appartenenza del datore di lavoro alle pubbliche amministrazioni in senso stretto (prima area) o alle imprese con veste giuridica genericamente privatistica (seconda area). Non si terrà dunque conto di specificità settoriali delle discipline generali, sebbene tali specificità assumano talora in concreto una rilevanza primaria.
Insomma l’area del confronto è quella ancora oggi complessivamente indicata dall’art. 2, D.Lgs. n. 165/2001: da un lato i rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche non sottoposti a “regime di diritto pubblico” (art. 3 del D.Lgs. n. 165/2001) e, dall’altro, i rapporti di lavoro nell’impresa, disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo I, libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato (art. 2, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001).
In queste due aree il confronto a valle della stagione delle riforme, appare di notevole interesse scientifico in quanto proprio a partire dal 1992 il legislatore ha voluto porre a base di un sempre più complesso edificio legislativo la medesima categoria giuridica, cioè il contratto di lavoro di diritto civile, pur dando per scontato che tale contratto non potesse e non dovesse avere un’identica regolazione per tutti i relativi istituti. Né che questa identità dovesse esservi per la regolazione proveniente dai contratti collettivi o, su un altro versante, per l’unicità della giurisdizione. Quindi sin dall’origine - 1992-93, ma anche 1997-98 (quando prende corpo la c.d. seconda privatizzazione) - non si pensava ad una medesima disciplina che accomunasse per ogni aspetto lavoro pubblico e lavoro nell’impresa. Piuttosto ad una tecnica di regolazione simile, con contenuti anche significativamente diversi, in ragione delle persistenti peculiarità derivanti da vari elementi esterni al contratto di lavoro: norme Costituzionali (in primis artt. 97-98 Cost.), complessità della figura datoriale, canali di finanziamento, assetti organizzativi, sistemi di controllo, ecc.
Sin dall’inizio però erano chiare due avvertenze: 1. le divergenze non dovevano superare una soglia di guardia, se non si voleva snaturare l’unificazione regolativa intorno alla strumentazione privatistica; 2. la soglia di guardia andava costantemente monitorata su due versanti, quello della disciplina divergente riguardante il lavoro pubblico, ma anche quello di un’eventuale stravolgimento della disciplina del lavoro nell’impresa. In fondo l’unificazione normativa era resa possibile nel 1992/93 perché in era post-costituzionale c’era stata una progressiva ma profonda osmosi sostanziale e normativa tra lavoro pubblico e lavoro nell’impresa [4]. Una osmosi dove il pubblico si era avvicinato al privato (vedi sciopero e contrattazione collettiva, la seconda prima informale e poi formalizzata), non meno di quanto il privato non si fosse avvicinato al pubblico (v. procedimentalizzazione dei poteri datoriali e progressiva limitazione della libera recedibilità).
Anche utile è tener presente che nel progetto di graduale e parziale unificazione normativa del 1992/1993 confluivano anche varie, persino contrapposte, visioni progettuali, all’epoca ben esemplificate da due termini brutali, ma efficaci: aziendalizzazione versus sindacalizzazione del lavoro pubblico [5]. Due prospettive rispetto alle quali pareva opportuno mitigare il carico ideologico della c.d. privatizzazione, optando piuttosto per una più generica ma duttile “contrattualizzazione” - conseguente alla delegificazione organica della materia - da contestualizzare nelle diverse articolazioni dell’assai variegato apparato amministrativo [6].
Che poi il contratto di lavoro venisse anche accreditato nell’ambito del lavoro pubblico di una maggiore vocazione ad esser leva di una innovativa gestione manageriale è senz’altro vero: ma nella consapevolezza che a “maneggiare” quel contratto dovessero esserci soggetti - all’epoca non esistenti - dotati di una moderna cultura, solo superficialmente sintetizzabile come manageriale [7], dovendosi piuttosto avere quei medesimi soggetti, o altri ad essi vicini (e spesso collocati sopra piuttosto che sotto), anche culture politiche, giuridiche, economiche tutte più modernamente attente ai complessi problemi gestionali posti da organizzazioni così delicate e ricche come quelle pubbliche.
2. Le tortuose convergenze
Dunque il contratto di lavoro come luogo o istituto giuridico di nuove plurime convergenze. E questo, si è detto, realizzava già un profondo mutamento del paradigma scientifico per il lavoro pubblico, un paradigma intorno al quale costruiva anzitutto il legislatore a successive riprese ma operando in dialettica sintonia con dottrina e forze sociali, guardati con sospetto da molti altri attori che calcavano la medesima scena (in primis il Consiglio di Stato e la giurisprudenza in genere, scettica sull’abbandono di storiche bipartizioni). A fatica comunque si giunse ad un assetto, tutt’altro che perfetto, ma di corposa sedimentazione del nuovo paradigma nel 2001 con il D.Lgs. n. 165/2001, nel quale confluiva il denso operare anche dei nuovi soggetti del sistema sindacale con i primi contratti collettivi simil-privatistici, siglati a metà degli anni ’90. Qui si può considerare chiusa quella che, con qualche enfasi, potremmo chiamare “la fase eroica” della riforma del lavoro pubblico.
Intanto però la stagione delle riforme aveva avuto un’accelerazione anche nel privato. Con un’impronta per vero abbastanza soft, tant’è che di recente si è parlato di una “razionalizzazione” del modello giuslavoristico imperniato su uno Statuto dei lavoratori sul cui volto cominciavano ad apparire segni di visibile stanchezza (le “rughe” manciniane) [8].
Ciò che poi ha impresso un ritmo ben diverso, e alquanto divaricante tra pubblico e privato, alle stagioni riformatrici sono state le successive tappe. Per il lavoro nell’impresa la razionalizzazione è stata seguita da una destrutturazione lacerante sul piano istituzionale e sindacale (2003-2011) [9]. E la destrutturazione ha poi partorito una stagione di riforme all’insegna del barocchismo manieristico (2012-2013). Alla quale ha fatto seguito - finalmente per certi versi (viva la chiarezza, almeno dei propositi) - una fase che, eccedendo nella brutalità terminologica, possiamo definire di liberalizzazione, seppure tardiva (2015) e per certi versi opaca (l’abbattimento di vincoli all’utilizzazione del fattore lavoro è accompagnato da corposi incentivi a carico delle finanze pubbliche).
Mentre questo accadeva nel privato, alterando in profondità il modello di contratto da cui era partita l’unificazione normativa del lavoro e mettendo alla fine in discussione l’intero paradigma scientifico del diritto del lavoro classico, il pubblico prendeva ben altre strade: incappato prima in un improvvido riassetto istituzionale di stampo federalista (2002/2006), attraversava poi una fase che continuerei a definire “onirica” [10], dove i sogni meritocratici della riforma Brunetta si infrangevano sul congelamento della spesa pubblica (2007-2011). Ai sogni impossibili seguiva una sostanziale fase di distrazione regolativa/gestionale durata un paio di governi (Monti/Letta), per approdare a una nuova riforma (intestata a Marianna Madia) assai sbandierata, ma realizzata a pezzi e bocconi con tempi lenti e ambizioni non proporzionate all’impegno realizzativo, soprattutto per una sopravvalutazione della possibilità di disintermediare la regolazione del lavoro pubblico (ma anche privato) [11].
Cosicché oggi siamo a fare bilanci di una riforma sostanzialmente partorita ben 25 anni fa con una semantica coperta dalla polvere del tempo e propositi sbiaditi, consegnati a memorie per lo più labili o disinteressate. E magari scopriamo - con malcelata sorpresa - che si trattava di una “privatizzazione impossibile” [12]. A me pare francamente una conclusione troppo facile, ma, soprattutto, un po’ irresponsabile. Benché il problema principale per gli studiosi non sia quello di tenersi lontani dalle responsabilità, anzi. Però, sempre nella prospettiva di continuare ad approfondire gli studi in materia, può essere più interessante, come dicevo all’inizio, riguardare la vicenda sotto il profilo delle acquisizioni scientifiche che riguardano la nostra disciplina. E chiederci, a valle di una stagione riformatrice che ha fatto saltare, seppure in modo asincrono, due paradigmi scientifici, cosa oggi è e a cosa può ancora servire il contratto di lavoro subordinato nel pubblico e nel privato?
3. Le materie più “toccate” dalle riforme
In questa prospettiva la “stagione delle riforme” è stata - ed è tuttora - un grande laboratorio dentro il quale osservare come il legislatore ha scomposto e ricomposto i vari ingranaggi che fanno funzionare, più o meno bene, il sofisticato sistema di regolazione del contratto di lavoro.
Che la strada di ingresso delle innovazioni legislative sia stato il pubblico o il privato, ad essere profondamente rivisitati sono state in questo ventennio un’infinità di materie e istituti. A fare una mera elencazione già ci si può rendere conto dell’enorme opera compiuta. Sono stati rivisti - a volte anche profondamente: le fonti [13]; gli assetti organizzativi (specie nel pubblico, ma non solo: per il privato si pensi ai contratti di rete) [14]; la figura datoriale con i conseguenti poteri (anche nel privato: si pensi alla somministrazione) [15]; il sistema di relazioni sindacali dentro e fuori i luoghi di lavoro, ivi comprese le regole sul conflitto [16]; i sistemi di reclutamento (nel 1992 nel privato esisteva ancora il collocamento statale) [17]; la struttura stessa del contratto di lavoro (si pensi alle nozioni di subordinazione e collaborazione o alla disciplina del licenziamento) [18]; la tipologia contrattuale, specie quella orientata alla flessibilità [19]; il sistema dei trattamenti economici (in sintesi si è passati dalla scala mobile al welfare aziendale) [20]; le normative sulla sicurezza nei luoghi di lavoro [21]; l’ambito e il ruolo della giurisdizione [22]; le tecniche di deflazione del contenzioso [23].
Tutte queste materie sono profondamente mutate tanto nel pubblico quanto nel privato. Certo non tutte nella medesima misura e direzione. A fare una drastica sintesi direi che nel pubblico si collocano in un punto assai più distante rispetto agli assetti del 1992 le regole in materia di fonti, relazioni sindacali e giurisdizione. Nel privato invece le maggiori distanze si registrano in tema di flessibilità in ingresso, lavori flessibili e licenziamento, ma anche in ordine a ruolo e poteri dei giudici. Solo che, quanto alla giurisdizione, la grande differenza è che nel privato si è di recente assistito ad un vero e proprio crollo del contenzioso che non sembra toccare in egual misura il pubblico [24].
4. Il punto di maggiore resistenza
Comparando gli equilibri che oggi risultano dalla disciplina del contratto di lavoro nel pubblico e nel privato, la mia impressione è che, pur in una unificazione parziale delle regole, la funzione prevalente del contratto di lavoro continui ad essere sensibilmente diversa. Nel pubblico si registra un persistente effetto di tutela del lavoratore, per molti versi diversa rispetto al passato e con consistenti eccezioni (come l’area del precariato [25]), ma radicata in un contesto organizzativo caratterizzato da attività dominate dalla routine e scarsamente dinamico. Nel privato invece il contratto di lavoro risulta sempre più sbilanciato nel senso dello squilibrio tra le parti, con un’accentuazione dell’unilateralità dei poteri datoriali e vincoli decrescenti al licenziamento [26]. Se si considera che le organizzazioni dell’impresa privata hanno avuto e hanno tratti di assai più accentuato dinamismo esogeno (mercati globali) e endogeno (riassetti organizzativi e tecnologici), non è difficile cogliere come un medesimo orientamento regolativo volto ad accentuare l’uso “disciplinare” del contratto di lavoro, cioè la sua curvatura a farne uno strumento di disciplinamento della forza lavoro ai fini del conseguimento del risultato, non produca e non possa produrre un impatto analogo.
5. Quali alternative? Quale contratto di lavoro al centro delle riforme?
Ma, in fondo, questo era ben noto. Quando gli amministrativisti - anche quelli di scuola più moderna, sensibile alla scienza dell’amministrazione - ammonivano che l’organizzazione viene prima della regolazione dei rapporti di lavoro [27], in fondo non dicevano che questo: inutile illudersi che regolando i rapporti di lavoro si regoli l’organizzazione. Pur essendo senz’altro vero anche l’assunto dei giuslavoristi passati per il bagno degli economisti organizzativi secondo cui il contratto di lavoro svolge un’indiscutibile funzione organizzativa al fine di tenere insieme e far marciare l’impresa. Però il motore delle organizzazioni complesse, quanto alla loro efficienza/efficacia, non sta tanto o solo nelle regole del contratto di lavoro [28].
Se questo è vero, resta aperto un robusto problema di tipo teorico: quale contratto di lavoro porre al centro del paradigma regolativo di un moderno diritto del lavoro comune a pubblico e privato? Quello “paritario” del diritto del lavoro classico? O quello sbilanciato e asimmetrico che legittima vecchie e nuove supremazie individuali? Pure ammesso che quest’ultimo paradigma sia quello intorno a cui si ristruttura la disciplina del lavoro nell’impresa (Jobs Act) e che questo paradigma resista ai vincoli di sistema, possiamo essere abbastanza certi che esso svolga adeguatamente la sua funzione organizzativa nel lavoro pubblico? Saremmo poi così distanti dal rapporto speciale di diritto amministrativo che garantiva però l’obbedienza “politica” più che l’efficacia dell’azione amministrativa? Se il problema è il ripristino dell’autorità, non è questa oggi garantita più da un’integrale privatizzazione che da un ritorno al diritto pubblico con tutti i suoi apparati protettivi?
Per converso il laboratorio di questi 25 anni ci dice che è impossibile importare nel pubblico un contratto di lavoro di stampo imprenditoriale senza che ci sia l’imprenditore, o i suoi stretti “collaboratori”, a gestirlo. Tutt’al più si ripristina l’autoritarismo di burocrazie autoreferenziali (i poteri deontici [29]); ma non necessariamente l’efficienza/efficacia di stampo imprenditoriale (quello utile al benessere generale).
Resterebbe un diritto pubblico che, invertendo il corso della storia, riproponga l’annullamento del rapporto di servizio nel rapporto organico. Ma chi è capace di riportare tanto indietro le lancette della storia? Io penso che sia più realistico continuare ad interrogarsi su dove abbiamo sbagliato nel regolare il contratto di lavoro di diritto civile in modo da renderlo più funzionale ad un miglior funzionamento delle organizzazioni pubbliche. Insomma occorrono analisi tecnico-giuridiche più sofisticate.
6. Manovre di avvicinamento: il sistema di relazioni sindacali
Si può allora, evitando però gli eccessi di schematismo ragionieristico, fare il punto su quanto hanno funzionato le manovre di avvicinamento tra le due aree.
Un po’ a sorpresa io direi che hanno funzionato più del previsto quanto ai rapporti collettivi e alla contrattazione collettiva. So che questa può apparire quasi una bestialità per chi guarda al dato formale, alle regole previste dalla legge. E qui non può non risaltare la distanza ancora marcata tra il sistema del D.Lgs. 165/01 e quello, abbozzato e per molti versi contraddittorio, risultante dagli artt. 8 della legge 148/2011 e 51 del D.Lgs. 81/2015 (richiamato da molte altre disposizioni successive). Però la dottrina - specie quella giussindacale - non può fermarsi al mero raffronto tra testi di legge. E se si considera quanto c’è dietro e oltre quelle norme, mi pare difficile negare che sempre più il sistema giuridico delle relazioni sindacali italiano vada nel senso di una riunificazione tra pubblico e privato, specie se si considera il punto di rottura verso cui precipitano entrambi i mondi alle prese con problemi vecchi e nuovi. Anzitutto sul ruolo di un autonomo ordinamento intersindacale, che venticinque anni fa esisteva ancora nel privato, sebbene in crisi, ma non era mai esistito nel pubblico, dove era appunto necessaria una compiuta disciplina dei circuiti di legittimazione e vincolatività giuridica per la contrattazione collettiva. Mentre ora anche nel privato l’autonomia dell’ordinamento intersindacale ha mostrato più volte la corda - logorata dai molti tentativi di eliminare i corpi intermedi nella disciplina del lavoro - e oggi quell’ordinamento prova a rialzare la testa con un crescente (sebbene poco lucido) intervento legislativo e mutuando tecniche di legittimazione (si pensi al noto testo unico del 2014) proprio dalla legislazione sul lavoro pubblico (ovviamente con i necessari adattamenti) [30].
Ma le manovre di avvicinamento vanno anche oltre, per chi sa guardare oltre le cronache delle evidenti patologie quotidiane (purtroppo in crescita). Così è sempre più chiaro che se una contrattazione collettiva deve restare tra le fonti del diritto del lavoro non è sostenibile una totale libertà privata di organizzare gli ambiti della contrattazione nazionale. Occorre qualche regola o criterio predeterminato che ponga un limite alla proliferazione dei contratti di categoria [31]. Anche in questo il privato andrà verso un sistema più regolato, anche se non sarà certo possibile risolvere il sempre più grave problema della rappresentatività delle imprese con la creazione di un soggetto come l’Aran.
Infine c’è un altro grande tema che fa convergere pubblico e privato: quello della partecipazione dei lavoratori e dei loro sindacati nella gestione delle organizzazione. Un tema antico in entrambe le aree, che nella prassi ha presentato vizi gravi per difetto o per eccesso, ma che oggi richiede di essere nuovamente affrontato con una nuova strumentazione sia nel lavoro pubblico - dove la colorazione ancora fortemente labour intensive impone un coinvolgimento non passivo dei lavoratori - sia nel lavoro nelle imprese, dove il crescente individualismo digitale rischia di disperdere il grande potenziale dell’apporto umano alla produttività complessiva dei sistemi organizzativi.
7. Segue: il rapporto di lavoro
Quanto al rapporto di lavoro, le manovre di avvicinamento hanno riguardato più le tecniche regolative di fondo che le specifiche discipline degli istituti, via via divaricatisi specie a seguito della deriva ultraliberistica impressa alla riforma della disciplina del lavoro privato. Però gli avvicinamenti non vanno sminuiti.
Pur nella permanenza del principio costituzionale del concorso - che molto ha condizionato e condiziona - vari sono stati gli snellimenti riguardanti le procedure di stipulazione del contratto, specie per consentire di utilizzare modalità di lavoro non standard (termine, somministrazione, part-time, collaborazioni).
Costanti - sebbene per lo più frustrati - sono stati anche i tentativi per evitare reclutamenti che prescindessero da una migliore utilizzazione del personale in servizio, anche presso amministrazioni diverse da quelle con carenze di personale.
I sistemi di inquadramento, sempre alla rincorsa di professionalità in evoluzione, sono stati però adeguati con l’occhio rivolto ai sistemi più avanzati in uso nel privato (almeno fino a quando c’è stata una contrattazione nazionale).
I poteri datoriali sono stati regolati sulla falsariga di quelli privatistici, per quanto consentito dalla peculiare configurazione della figura datoriale e dell’organizzazione dell’esercizio dei poteri stessi.
I sistemi di retribuzione sono stati configurati in modo da dare sempre più spazio - almeno teorico - al salario variabile e, soprattutto, si è in tutti i modi cercato di far penetrare nella gestione del personale la tecnica di una periodica e specifica valutazione delle performance.
Tutti gli istituti riguardanti il tempo di lavoro e non lavoro sono regolati in modo sostanzialmente uniforme tra pubblico e privato e non vi è tecnica di flessibilizzazione o controllo dell’orario che non venga utilizzata - o non possa essere utilizzata - anche nel pubblico [32].
8. Distanze vecchie e nuove
Le distanze che permangono sono ancora tante sia nelle relazioni collettive sia nel rapporto di lavoro. Ma non mi paiono prevalenti e, comunque, sono da analizzare attentamente.
Sul piano delle relazioni collettive, non v’è dubbio che il sistema regolato interamente per legge produce maggiore rigidità Ad esempio è bastato bloccare la contrattazione per legge per determinare un’irradiazione di nuovo immobilismo in tutto il sistema di gestione del personale. Qui però il blocco della contrattazione è stato utilizzato per ridurre il costo del lavoro. Non il costo del lavoro per unità produttiva (c.d. clup), ma i costi complessivi per il personale, che infatti risultano sensibilmente ridotti (anche grazie al blocco del turn-over). Questo ha prodotto effetti paradossali: ad esempio gli spazi di residua libertà lasciati alla contrattazione integrativa nel pubblico non sono stati utilizzati per far crescere la produttività del lavoro (come nel privato si deve presumere), ma per tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni.
Sul piano dei rapporti di lavoro, forse il dato più eclatante si ritrova nella disciplina del licenziamento, dove forti sono le divergenze sia sul piano delle regole sostanziali sia sui rimedi. Da ultimo risalta la conferma, con alcune non marginali modifiche, della reintegrazione (art. 63, D.Lgs. n. 75/2017) mentre il D.Lgs. n. 23/2015 l’ha ridotta al lumicino nel privato.
Però neanche quest’ultima pare da enfatizzare perché nel privato una parte di licenziamenti illegittimi (non solo nulli) rimane coperta da tutela reintegratoria e non è quantitativamente insignificante (tutti i rapporti nati prima del 7 marzo 2015, quando è stato introdotto il catuc, ovvero il contratto a tutele crescenti); mentre per converso anche la conservazione di una più ampia tutela reintegratoria nel lavoro pubblico si accompagna a tutele meno vantaggiose rispetto all’area del lavoro privato in cui permane l’applicazione dell’art. 18 nell’originaria versione (ad esempio nei tetti apposti al risarcimento del danno) [33]. E perché anche laddove la reintegrazione appare per tabulas ridimensionata o marginalizzata occorre vedere in concreto come procederà la metabolizzazione di queste recentissime riforme nel sistema giuridico complessivo [34].
9. Una conclusione possibile: divaricazioni incolmabili sul piano micro-organizzativo attraverso la regolazione giuslavoristica. Il ruolo degli “attori”, diversi tra pubblico e privato
Dunque tornando al nostro contratto di lavoro subordinato di diritto civile, mi pare si possa dire che, nonostante una crescente divaricazione di discipline per le due aree prese in considerazione, esso resti uno strumento unitario posto al centro di due universi organizzativi nei quali risulta impiegata la maggior parte del lavoro subordinato o parasubordinato.
Le divergenze hanno superato la soglia di guardia che consente di parlare di un’unica fattispecie tipica, seppure con peculiarità di regole legali riguardanti alcuni istituti o frammenti di istituto? Io darei una risposta negativa, anche perché le regole speciali - in un senso o in un altro rispetto al modello originario di riferimento degli anni ’90 - rispondono ad esigenze e finalità spesso diverse e altrettanto spesso estrinseche alla regolazione del tipo contrattuale in quanto tale.
Nel pubblico ad esempio molte regole - oltre alle originarie peculiarità - hanno dovuto affrontare il problema del pareggio di bilancio introdotto in Costituzione: per cui il contenimento complessivo della spesa pubblica ha fatto premio sulla regolazione più fine in grado di puntare ad un incremento della produttività conseguente ad una migliore gestione delle risorse umane. Anche gli insoddisfacenti risultati - spesso lamentati - sul piano del dinamismo organizzativo, non sono riconducibili alla regolazione del contratto di lavoro, ma a ben altri profili disfunzionali, in primis riguardanti i vertici politici e amministrativi; o la rete dei controlli; o l’invadenza giudiziaria favorita dalla ancora alta proceduralizzazione delle decisioni; o la dilagante corruzione che porta addirittura il giudice penale a occuparsi spesso di scelte amministrative. Alla radice di molte regole che differenziano pubblico e privato vi è ad esempio la persistente difficoltà di inserire nelle organizzazioni pubbliche figure dirigenziali competenti e autonome nella gestione dinamica delle svariate risorse dell’amministrazione e, innanzitutto, del personale.
Invece nel privato all’origine di molte regole, ben lontane dagli equilibri giuslavoristici dei primi anni ’90, sono giustificate dall’emergenza occupazionale e dall’obiettivo di regolare il mercato del lavoro, piuttosto che il contratto di lavoro in sé e per sé. Anche qui i nessi esistono e come: riduzione del costo del lavoro e potenziamento dell’effetto disciplina possono infatti “liberare” molte scelte organizzative a livello di ciascuna impresa. Però - mentre lungo questa linea si rischia di tralasciare principi, valori e vincoli ancora presenti in Costituzione - tutt’altro che chiaro e dimostrato è se la riforma legislativa del contratto di lavoro subordinato e dintorni abbia un positivo impatto su quantità e qualità dell’occupazione [35]. Intanto quel proposito giustifica nel privato determinate politiche del diritto che imprimono una particolare curvatura al contratto di lavoro nell’impresa, curvatura che invece non ha alcun senso nel pubblico (l’effetto occupazionale perseguito nel pubblico è stato di segno diametralmente opposto: ridurre gli occupati, contenere il turn-over per gli effetti immediati sulla spesa pubblica).
Osservando queste dinamiche incrociate, potrebbe dirsi che una significativa differenza tra pubblico e privato che si può cogliere sul piano ordinamentale è quella di una più incisiva costituzionalizzazione della disciplina del contratto nel pubblico in presenza di un linea di alleggerimento della recezione di principi costituzionali nella legislazione lavoristica di stampo squisitamente privatistico. Potrebbe essere questa una direzione di ripubblicizzazione innovativa, caratterizzata da un contratto di lavoro che nel pubblico viene non sgravato ma gravato di ulteriori valori di rilievo costituzionale (per esemplificare alla stabilità si aggiunge il pareggio di bilancio), mentre nel privato si va nel senso contrario. Sarebbe però a ben guardare una linea di riflessione che fa riverberare sul piano del contratto individuale esigenze sistematiche che non dovrebbero entrare nella regolazione conforme a Costituzione della struttura tipica del rapporto di lavoro subordinato (e dintorni, ma i dintorni sarebbero da capire meglio).
Comunque quest’ultima riflessione ci consente di formulare una conclusione (forse) di qualche rilievo teorico. Lo schema del contratto di lavoro subordinato come contratto di scambio con finalità organizzative contenute dall’esigenza di tutela complessiva della persona del lavoratore pare ancora posto giustamente al centro della legislazione sul lavoro privato e pubblico. Esso indubbiamente si differenzia per molte regole legali specifiche di varia ispirazione e finalità. Molte di queste regole potrebbero essere ulteriormente sottoposte ad una prova di resistenza e eventualmente modificate in un senso o nell’altro. Però sovraccaricare la disciplina legale del contratto per garantirne specifiche finalità organizzative non sembra la via più coerente con l’equilibrio funzionale della fattispecie. In essa devono confluire sì esigenze organizzative di vario genere - anche orientate a realizzare diritti costituzionali e interessi pubblici - ma attraverso il concreto esercizio dei poteri riconosciuti al creditore nel rispetto degli interessi della controparte e sempreché il substrato organizzativo sia idoneo a realizzare quegli interessi. Se le esigenze organizzative non vengono soddisfatte essenzialmente per problemi riguardanti il substrato organizzativo in senso stretto, a nulla serve accanirsi sulla disciplina del contratto o del rapporto di lavoro del dipendente. Occorre intervenire - con la regolazione, anche legislativa, o altrimenti - sul substrato organizzativo, calibrando regole e interventi sulle specifiche esigenze di ottimizzazione del contesto organizzativo (nel quale qui ricomprendo anche la regia soggettiva e i sistemi di valutazione [36]).
La regolazione giuslavoristica poi contiene adeguati strumenti per adattare anche in una certa misura la disciplina dei contratti di lavoro alle specifiche esigenze micro-organizzative, a cominciare da una corretta contrattazione integrativa. Bisogna far funzionare tali strumenti.
A mio parere ciò che è venuto a mancare negli ultimi 10 anni nel lavoro pubblico è stato, come ho detto anche altre volte [37], la consapevolezza della centralità della dimensione micro-organizzativo nella garanzia della funzionalità delle amministrazioni. E questa consapevolezza deve accomunare tutti gli attori che possono intervenire in quella dimensione. Che oggi, dopo la riforma Madia, sono i soliti, ma con un maggior peso riconosciuto a vertice politico e, in misura minore, ai soggetti sindacali.
Nel privato gli attori sono ben diversi, con una crescente prevalenza del soggetto imprenditoriale, specie se di adeguato dimensionamento complessivo, che oggi trova nel diritto del lavoro un sostegno plurimo (meno vincoli legali e minore costo del lavoro). Senza però che le finalità perseguite della sua organizzazione siano granché condizionate dalla realizzazione di risultati di interesse generale.
Ne consegue che la responsabilità del funzionamento ottimale delle organizzazioni, almeno sotto il profilo organizzativo, grava su soggetti diversi nel pubblico e nel privato. E questa mi pare, al netto della libertà di perseguimento dei risultati (massima nel privato, giustamente ridotta nel pubblico), ancora la maggiore differenza a valle della complessa e tortuosa stagione delle riforme in grado di ripercuotersi profondamente sugli assetti regolativi dei rapporti di lavoro.
[1] Con un approccio del tutto diverso v., ad esempio, Tosi, Le novelle legislative sul lavoro privato e pubblico privatizzato tra armonizzazione e diversificazione, in RIDL, I, 2018.
[2] V., da ultimo anche per i riferimenti bibliografici, Ferrara M.D., Organizzazione e gestione del personale nelle società in controllo pubblico e in house tra mercato e interessi generali, in Esposito, Luciani, Zoppoli A., Zoppoli L. (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2018 (in corso di pubblicazione).
[3] V. Zoppoli L., Volontariato e diritti dei lavoratori tra Jobs Act e codice del terzo settore, in Olivieri U.M., Zoppoli L. (a cura di), Lavoro volontariato e dono tra globalizzazione e nuova regolazione, Lecce, 2018 (in corso di pubblicazione).
[4] V. Rusciano, L’impiego pubblico in Italia, Bologna, 1978.
[5] V. Cassese, Il sofisma della privatizzazione del pubblico impiego, in CG, 1993, p. 401 ss.; Romagnoli, La revisione della disciplina del pubblico impiego: dal disastro verso l’ignoto, in LD, 1993, 231 ss.
[6] V. Rusciano-Zoppoli L. (a cura di), L’impiego pubblico nel diritto del lavoro, Torino, 1993; Carinci F. (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Commentario al d.lg. 29/1993, Milano, 1995; D’Antona, Le fonti privatistiche. L’autonomia contrattuale delle pubbliche amministrazioni in materia di rapporti di lavoro, in FI, V, comma 29 ss.
[7] V. Zoppoli A., Dirigenza, contratto di lavoro e organizzazione, Esi, 2000. E, più di recente, dello stesso autore I chiaroscuri della disciplina degli incarichi nella “privatizzazione” della dirigenza pubblica, in Fiorillo-Perulli (a cura di), Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Torino, 2013, 845 ss.
[8] V. Cazzetta, Trent’anni di Lavoro e diritto, in LD, 2016, 580.
[9] Una destrutturazione i cui rischi venivano messi in luce in Cester, La norma inderogabile: fondamento e problema del diritto del lavoro, in DLRI, 2008, 341 ss.
[10] V. Zoppoli L., Bentornata realtà: il lavoro pubblico dopo la fase onirica, in Jus, 2013.
[11] Più diffusamente v. il mio La Riforma Madia del lavoro pubblico, in Il libro dell’anno del diritto, Roma, 2018.
[12] È il titolo di un convegno tenuto in Cassazione nel novembre 2017, ma v. già Pileggi, Efficienza della pubblica amministrazione e diritto del lavoro, Roma, 2004.
[13] V. Zoppoli L., Le fonti: recenti dinamiche e prospettive, in Santoro Passarelli G., Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Milano, 2017.
[14] Carinci M.T. (a cura di), Dall’impresa a rete alle reti d’impresa. Scelte organizzative e diritto del lavoro, Atti del convegno internazionale di studio tenutosi all’Università degli studi di Milano il 26-27 giugno 2014, Milano, 2015.
[15] Barbera, L’idea di impresa. Un dialogo con la giovane dottrina giuslavorista, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT - 293/2016; Bellavista, La figura del datore di lavoro pubblico, in DLRI, 2010, p. 87 ss.; Speziale, Il datore di lavoro nell’impresa integrata, in DLRI, 2010, 1 ss.
[16] Per tutti v. Zoppoli L.-Zoppoli A.-Delfino (a cura di), Una nuova Costituzione per il sistema di relazioni sindacali?, Napoli, 2014.
[17] V. Sartori, Servizi per l’impiego e politiche dell’occupazione in Europa. Idee e modelli per l’Italia, Maggioli, 2013; Valente, La riforma dei servizi per il mercato del lavoro. Il nuovo quadro della legislazione italiana dopo il D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 150, Milano, 2016.
[18] Zoppoli L., Giustizia distributiva, giustizia commutativa e contratti di lavoro, in DLM, 2017, 279 ss.
[19] V. per tutti Magnani-Pandolfo-Varesi (a cura di), I contratti di lavoro, Torino, 2016.
[20] Zoppoli L., La retribuzione, in Trattato di diritto del lavoro, a cura di Romei, Milano, vol. II, in corso di pubblicazione.
[21] Sul punto v. Natullo-Saracini (a cura di), Salute e sicurezza sul lavoro. Regole, organizzazione, partecipazione, Quaderno di DLM, 3, 2017.
[22] V. il numero speciale di LD, 2-3, 2014 dedicato al tema Il lavoro e la giustizia. Interpretare. Argomentare. Decidere.
[23] V., da ultimo, Riccio, I principali profili teorici e pratici della certificazione dei contratti di lavoro, in DLM, 2017, 3; Zoppoli A., Istituti per la prevenzione delle controversie giudiziali. La conciliazione. L’arbitrato, in Esposito-Gaeta-Santucci-Viscomi-Zoppoli A.,-Zoppoli L., Istituzioni di diritto del lavoro e sindacale, III, Il rapporto di lavoro, II edizione, Torino, 2015, 420 ss.
[24] V. Baratta L., La vera “rivoluzione” del Jobs Act: aver ridotto le cause di lavoro, in Linkie
sta.it del 5 dicembre 2017.
[25] V., da ultimo, V. Pinto, Le assunzioni a termine nelle pubbliche amministrazioni: specialità della disciplina e criticità irrisolte, in Saracini-Zoppoli L. (a cura di), Riforme del lavoro e contratti a termine, Napoli, 2017, 225; Menghini L., I contratti a tempo determinato, in Esposito-Luciani-A. Zoppoli-L. Zoppoli (a cura di), op. cit. (in corso di pubblicazione).
[26] Più dettagli in Zoppoli L., Giustizia distributiva, cit., 279 ss.
[27] Giannini, Impiego pubblico (profili storici e teorici), in ED, XX, 1970; Cassese, L’amministrazione pubblica in Italia, in RTSA, 1985, 3 ss.; Torchia (a cura di), Il sistema amministrativo in Italia, Bologna, 2009.
[28] Mercurio-Esposito, La valutazione delle strutture: il punto di vista dello studioso di organizzazione, in Zoppoli L. (a cura di), Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, Napoli, 2011, 231 ss.
[29] V. Zoppoli L., Bentornata realtà, cit.
[30] Sul Testo unico del 2014 v. Zoppoli L., Sindacati e contrattazione collettiva: vecchi stereotipi o preziosi ingranaggi delle moderne democrazie?, in LD, 2015, 415 ss.
[31] V. il rapporto del Cnel del 5 dicembre 2017 sui contratti nazionali ormai giunti al numero spropositato di 868, di cui solo una ventina riguardano il lavoro pubblico, ben regolato su questo punto da molti anni e anzi oggetto di un riassetto ulteriormente restrittivo avviato dalla riforma del 2009 e finalmente realizzato nel 2016.
[32] Su tutti gli aspetti menzionati in questo paragrafo v. di recente i contributi raccolti in Santoro Passarelli G. (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Milano, 2017; e in Esposito-Luciani-Zoppoli A.-Zoppoli L. (a cura di), op. cit. (in corso di pubblicazione); da ultimo, in chiave manualistica, Fiorillo L., Il diritto del lavoro nel pubblico impiego, Padova, 2018.
[33] V. Cester, Lavoro pubblico e licenziamento illegittimo davanti alla corte di cassazione, in RIDL, 2016, II, 383 ss.; Luciani, Il licenziamento illegittimo del dipendente pubblico e la tutela reintegratoria “universale”, in Esposito-Luciani-Zoppoli A.-Zoppoli L., op. cit. (in corso di pubblicazione).
[34] Sul regime del licenziamento illegittimo introdotto nel 2015 pende una questione di costituzionalità sollevata da Trib. Roma, ordinanza del 26 luglio 2017, su cui v. Fontana, Le questioni di costituzionalità del contratto a tutele crescenti, in DLM, 2017, 3. Più in generale v. Speziale, La mutazione genetica del diritto del lavoro, in Quaderni di DLM, 2, 2016.
[35] V. Zoppoli A., Legittimità costituzionale del contratto di lavoro a tutele crescenti, tutela reale per il licenziamento ingiustificato, tecnica del bilanciamento, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT - 260/2015.
[36] V. Zoppoli L., Retribuzione e ruolo unico: filosofie organizzativo-istituzionali e tecniche regolative, in questa Rivista, 2016, 43 ss.; Nicosia, Controllori e controllati; amministratori e amministrati: i percorsi di apprendimento organizzativo tracciati dalla riforma Madia del 2017 e Monda, La valutazione delle performance: programmazione degli obiettivi e gestione premiale, in Esposito-Luciani-Zoppoli A.-Zoppoli L., op. cit.
[37] Da ultimo nel saggio appena citato.