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La riforma mancata: il ruolo della dirigenza pubblica nei nuovi assetti

ALESSANDRO BOSCATI – Professore ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università statale di Milano

Sommario: 1. Premessa: specificità e criticità della dirigenza pubblica tra disciplina vigente e prospettive di riforma. - 2. La legge Madia e il decreto delegato di riforma della dirigenza. Gli elementi qualificanti. - 3. Segue: la sentenza n. 251/2016 della Corte Costituzionale ed il ritiro da parte del Governo del decreto delegato appena approvato. - 4. I decreti attuativi della legge delega n. 124/2015 e i riflessi sulla disciplina della dirigenza. Il D.Lgs. n. 74/2017. - 5. Segue: il D.Lgs. n. 75/2017. - 6. Cosa ci lascia la mancata attuazione dell’art. 11 della legge delega n. 124/2015. Che cosa si sarebbe potuto fare? - 7. Segue: indebolimento del principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione nello sche­ma di decreto delegato di riforma della dirigenza. 7.1. Segue: Criticità della disciplina vigente: a) definizione ed assegnazione degli obiettivi. - 7.2. Segue: b) disciplina del conferimento degli incarichi. - 8. Segue: la contrattualizzazione del rapporto di lavoro e l’esercizio dei poteri datoriali. - 9. Riflessioni conclusive.

1. Premessa: specificità e criticità della dirigenza pubblica tra disciplina vigente e prospettive di riforma

È circostanza nota la centralità rivestita dal tema del personale in tutti i processi di riforma della pubblica amministrazione [1]. Ed è del pari indiscusso che nell’am­bito di tali processi un’attenzione particolare sia stata dedicata alla dirigenza. Così è stato fin dal d.P.R. n. 748/1972 con cui la categoria dirigenziale è stata introdotta nel settore pubblico, al tempo rigidamente ancorato al regime pubblicistico anche per quanto concerne la disciplina del rapporto di lavoro, per differenziarne compiti e ruolo rispetto agli altri dipendenti e con cui si è fissato il principio di separazione tra politica ed amministrazione, con attribuzione di compiti di indirizzo alla prima e di gestione alla burocrazia [2]. E lo è stato con ancora maggiore accentuazione a seguito della scelta di contrattualizzare il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, originariamente pensata per il solo personale del comparto e poi immediatamente estesa anche alla dirigenza di base dalla legge delega n. 421/1992 e dal successivo decreto delegato n. 29/1993, per poi ricomprendere, con gli interventi del 1997-1998, anche la dirigenza apicale.

La contrattualizzazione del rapporto di lavoro dell’intera dirigenza costituisce il primo dei due pilastri su cui si fonda la disciplina della categoria dirigenziale; il secondo è rappresentato dal confermato principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione che deve essere letto in continuità con quanto già introdotto dalla riforma del 1972, ma da considerare, quanto per i compiti e per le responsabilità della dirigenza, alla luce della natura privatistica del rapporto di lavoro. Due principi cardine che sono stati in seguito sempre confermati: così la legge n. 145/2002, nell’ambito di un progetto di riforma che ha significativamente ridisegnato le modalità di conferimento degli incarichi, con l’obiettivo (almeno dichiarato) di rafforzare l’autonomia della dirigenza rispetto alla politica [3]; così ancora, il decreto delegato n. 150/2009 (c.d. legge Brunetta) che, con modalità non sempre lineari, ha inteso rafforzare l’autonomia gestionale della categoria dirigenziale e la sua autonomia rispetto alla politica ed alle organizzazioni sindacali, finendo tuttavia nei fatti per limitare la discrezionalità dell’agire a favore della esecuzione puntuale [4]; analogamente l’art. 11 della legge n. 124/2015 e lo schema di decreto delegato che ne costituiva attuazione avevano l’obiettivo (come si avrà modo di esplicitare in seguito, non sempre coerentemente perseguito) di emancipare la dirigenza dalla politica al fine di consentirle di agire in maniera effettivamente autonoma e responsabile per l’at­tuazione delle politiche pubbliche [5].

Tutti i descritti interventi normativi, ancorché espressione di opzioni ideologiche diverse, si sono connotati per l’obiettivo comune (almeno dichiarato) di rafforzare il ruolo della dirigenza, considerata il perno del sistema per migliorare l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’azione della pubblica amministrazione. Un incremento che, tuttavia, in alcuni settori della pubblica amministrazione può risultare di difficile misurabilità in assenza di un mercato con cui confrontarsi. E ciò a prescindere da ogni considerazione relativa alla presenza di congrui sistemi di valutazione, in molti casi presenti solo nelle regolamentazioni degli enti [6].

Altro importante elemento da considerare attiene agli indubbi elementi di specificità della dirigenza pubblica rispetto a quella del settore privato. Al pari del dirigente privato il dirigente pubblico è un prestatore di lavoro, ma nel contempo riveste anche il ruolo di datore di lavoro nei confronti dei dipendenti assegnati al proprio ufficio, sì da essere descritto con la nota figura mitologica del Giano Bifronte.

Il dirigente pubblico “dipendente” è assunto al pari di quello privato con un contratto individuale di lavoro, ma presenta una doppia specificità. La prima è che il contratto di assunzione attribuisce la sola qualifica dirigenziale ed il dirigente nel corso del rapporto sarà destinatario di molteplici incarichi a termine [7]. La seconda è che il dirigente pubblico contrattualizzato è tenuto ad esercitare anche poteri pubblicistici. Di qui l’ampio dibattito nato dall’esigenza di far convivere (e giustificare) in capo alla medesima figura la natura privatistica del rapporto di lavoro con l’eser­cizio di poteri pubblici o, detto diversamente, l’adempimento del contratto di lavoro con l’esercizio della pubblica funzione. La composizione di tale apparente dicotomia si è avuta con il riconoscimento della natura privatistica dell’atto di conferimento dell’incarico quale atto determinativo delle mansioni e di assegnazione alla direzione di una determinata struttura, presupposto per l’esercizio di tutti i poteri, anche quelli pubblicistici, propri dell’ufficio di attribuzione secondo l’articola­zione organizzativa definita ai sensi dell’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001 [8].

Quanto al dirigente pubblico “datore di lavoro” la peculiare connotazione consiste nell’attribuzione di prerogative datoriali diverse (e per taluni profili addirittura più ampie) di quelle proprie del dirigente privato il cui esercizio è però talvolta assoggettato a precisi vincoli tali da limitare l’autonomia d’azione.

Nonostante i plurimi interventi di riforma le complessità riferite alla figura del dirigente pubblico sono molteplici; la dirigenza rimane continuamente alla ricerca di una propria identità e, facendo proprio quanto già esplicitato da altri, “vive sospesa, in bilico tra pubblico e privato, tra tecnica e politica, tra imparzialità e fiduciarietà” [9].

Nei prossimi paragrafi saranno innanzitutto richiamati, in maniera sintetica, i contenuti dello schema di decreto delegato di riforma della dirigenza approvato dal Governo ed immediatamente ritirato per effetto della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 251/2016 e si analizzeranno i decreti legislativi nn. 74 e 75 del 2017 nelle parti che più direttamente incidono sulla posizione dirigenziale. Tale ricostruzione costituirà la premessa per approfondire due temi centrali, quello della distinzione funzionale tra politica ed amministrazione e quello della contrattualizzazione del rapporto di lavoro della dirigenza e dell’esercizio delle prerogative manageriali, cercando di individuare i profili di criticità e di delineare quello che potrebbe essere l’assetto futuro della dirigenza, riprendendo anche alcune soluzioni tracciate nel recente passato, ma forse troppo presto abbandonate.

2. La legge Madia e il decreto delegato di riforma della dirigenza. Gli elementi qualificanti

L’art. 11 della legge n. 124/2015 recante “Deleghe al Governo in materia di ri­organizzazione delle amministrazioni pubbliche” dedicava una specifica attenzione alla riforma della dirigenza, dettando appositi principi di delega che erano da considerare insieme ad altri contenuti nella medesima legge ed in particolare negli articoli 16 e 17, tra cui spiccava la previsione di un nuovo testo unico in materia di lavoro pubblico. Il progetto di riforma si legava anche alla proposta di modifica costituzionale che prevedeva un nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni in senso fortemente centralista.

Il decreto delegato, approvato dal Governo in via definitiva a novembre 2016 e che recepiva solo in parte alcune marcate critiche espresse dal Consiglio di Stato in sede di redazione del parere consultivo [10], era senza dubbio ambizioso  [11]. Il punto qualificante era dato dalla previsione di un sistema unico per la dirigenza della Repubblica, articolato in tre ruoli (statale, regionale e locale) e dall’abolizione delle due fasce dirigenziali, con inserimento di tutti i dirigenti in un’unica fascia al fine di consentire a tutti di poter ricoprire incarichi apicali [12]. Sulla base di tali principi cardine il decreto delegato ridefiniva il sistema di reclutamento della dirigenza, ribadendo il doppio canale di accesso del corso-concorso e del concorso, ma con rafforzamento del primo e con previsione di immissione dei vincitori del corso-concorso (di cadenza annuale, basato su un anno di corso con esame finale) come funzionari per i primi tre anni (riducibile ad un anno in relazione all’esperienza lavorativa maturata nel settore pubblico o a esperienze all’estero) e successiva immissione in ruolo come dirigenti previa valutazione positiva e per i vincitori del concorso l’as­sun­zione come dirigenti con contratto a termine e successiva immissione in ruolo dopo un triennio, previo superamento di un esame di conferma volto ad accertare la concreta attitudine e capacità manageriale; si proponeva l’obiettivo di rafforzare la for­mazione iniziale ed in itinere della dirigenza ridisegnando la struttura della Scuola Nazionale dell’Amministrazione; interveniva sul sistema di valutazione e di attribuzione e revoca degli incarichi prevedendo l’istituzione di tre commissioni (per la dirigenza statale, regionale e locale) presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri con il compito di definire ex ante una rosa di dirigenti idonei a ricoprire incarichi dirigenziali di direzione di uffici dirigenziali generali e di valutare ex post le scelte compiute dalle amministrazioni pubbliche nel conferimento degli altri incarichi [13] e di esprimere parere obbligatorio e non vincolante sulla decadenza di incarichi dirigenziali in caso di riorganizzazione dell’amministrazione e sui provvedimenti connessi ad un’accertata responsabilità dirigenziale; definiva per tutti gli incarichi dirigenziali una durata quadriennale, con facoltà di proroga per altri due anni nel caso di valutazione positiva o per il solo periodo necessario al completamento delle procedure per il conferimento del nuovo incarico; ammetteva la possibilità di attribuire il medesimo incarico nuovamente allo stesso titolare per altri quattro anni, previo esperimento di una nuova procedura e stante il necessario rispetto del principio di rotazione degli incarichi individuati a rischio di corruzione; disciplinava la condizione del dirigente rimasto privo di incarico sancendone l’obbligo di partecipare ogni anno ad almeno cinque interpelli riferiti a posizioni di cui possedeva le attitudini e le capacità e garantendo per il primo anno la corresponsione del trattamento economico fondamentale, decurtato di un terzo dal secondo anno e con collocamento d’ufficio, su decisione del Dipartimento della Funzione Pubblica, tra i posti vacanti a partire dal terzo anno (diverso il caso del dirigente cui sia stato revocato l’in­carico per responsabilità dirigenziale [14] per il quale era prevista la decadenza dal ruolo se entro un anno non fosse riuscito ad ottenere un nuovo incarico).

3. Segue: la sentenza n. 251/2016 della Corte Costituzionale ed il ritiro da parte del Governo del decreto delegato appena approvato

Il decreto delegato di riforma della dirigenza è stato approvato e ritirato dal Governo nel breve volgere di un giorno a fine novembre 2016, a seguito della pubblicazione, con significativa tempestività, della sentenza della Corte Costituzionale n. 251/2016 con cui veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge delega n. 124/2015, tra cui anche alcune previsioni dell’art. 11 dedicato alla dirigenza [15].

Secondo la Corte nell’indicata pronuncia ha affermato che qualora una previsione normativa riformi istituti incidenti su competenze legislative statali e regionali, che siano tra loro inestricabilmente connesse, sì da impedire di poter stabilire la prevalenza di una materia sulle altre, occorre che il legislatore statale nel rispetto del principio di leale collaborazione appresti adeguati strumenti di coinvolgimento delle regioni a difesa delle loro competenze. Ad avviso della Corte in questi casi - e qui nella soluzione proposta vi è un indubbio elemento di novità solo in apparente continuità con propri precedenti - è necessario ricorrere all’intesa, da adottare al­l’interno della Conferenza Stato-Regioni (e non alla Conferenza Unificata), e non al mero parere, ritenuto non idoneo a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali.

Con specifico riferimento alle disposizioni della legge delega riferite alla dirigenza pubblica la Corte Costituzionale ha ravvisato un concorso di competenze, inestricabilmente connesse, statali e regionali, nessuna delle quali è stata considerata prevalente, in relazione all’istituzione del ruolo unico dei dirigenti regionali e alla definizione, da un lato, dei requisiti di accesso, delle procedure di reclutamento, delle modalità di conferimento degli incarichi, nonché della durata e della revoca degli stessi (aspetti inerenti all’organizzazione amministrativa regionale, di competenza regionale) e, dall’altro, di regole unitarie inerenti al trattamento economico e al regime di responsabilità dei dirigenti (aspetti inerenti al rapporto di lavoro privatizzato e quindi riconducibili alla materia dell’ordinamento civile, di competenza statale) [16].

Ancorché la Corte avesse precisato (al punto 9 del Considerato in diritto) che le illegittimità costituzionali rilevate nella pronuncia “sono circoscritte alle disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015, oggetto del ricorso, e non si estendono alle relative disposizioni attuative” e che “nel caso di impugnazione di tali disposizioni, si dovrà accertare l’effettiva lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione” la scelta del Governo è stata quella di lasciare scadere i termini di delega [17].

Il de profundis (anche politico) della possibilità di riavviare l’iter di riforma della dirigenza è stato segnato dall’esito del referendum popolare confermativo del 4 dicembre 2016 - di pochi giorni successivo alla sottoscrizione in data 30 novembre 2016 dell’Intesa Governo - Sindacati sui rinnovi contrattuali  [18] - con cui non è stato approvato il testo della legge costituzionale di riforma della Carta Costituzionale (e che, come anticipato, contemplava anche la revisione del Titolo V della Costituzione).

Il processo si è arrestato nonostante la Commissione Speciale del Consiglio di Stato con il parere n. 83 del 17 gennaio 2017 avesse espressamente affermato l’im­por­tanza di portare a compimento una riforma organica della dirigenza pubblica ed avesse a tal fine individuato alcuni possibili percorsi. Il primo, e più immediato, era rappresentato dall’adozione di una nuova legge delega conforme ai vincoli procedimentali sanciti dalla Corte Costituzionale; ma erano ipotizzate anche altre modalità di intervento a livello primario, primo fra tutti un disegno di legge governativo avente, almeno in parte, il contenuto del decreto delegato che sarebbe andato a sostituire; un decreto - afferma espressamente il Consiglio di Stato - “che oltre tutto, nella versione finale degli schemi poi decaduti, recepiva anche i pareri delle Commissioni parlamentari”.

Se il processo di riforma della dirigenza si è fermato, l’iter è, invece, continuato sia per i decreti attuativi della legge n. 124/2015 adottati prima del deposito della sentenza n. 251/2016 - tra cui i decreti legislativi n. 116/2016 in materia di licenziamento disciplinare e n. 171/2016 relativo alla dirigenza sanitaria per i quali si successivamente è giunti all’emanazione, previa acquisizione dell’intesa in sede di conferenza unificata, dei relativi decreti correttivi [19] - sia per l’emanazione degli altri decreti delegati per i quali non erano ancora scaduti i termini di delega, da adottare in conformità con le indicazioni dettate dalla Corte Costituzionale. Tra questi, per quello che interessa in questa sede, sono stati emanati i Decreti Legislativi nn. 74 e 75 del 2017: il primo recante modifiche al D.Lgs. n. 150/2009 [“in attuazione dell’articolo 17, comma 1, lettera r) della legge 7 agosto 2015, n. 124] e, dunque, con interventi incidenti sul sistema di misurazione e di valutazione della perfomance; il secondo recante modifiche e integrazioni al D.Lgs. n. 165/2001 [“ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e), e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l), m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124”], con una novella di significativa portata che ha riguardato sia il sistema di relazioni sindacali sia le disposizioni inerenti il rapporto individuale di lavoro, prime fra tutte quelle relative all’esercizio del potere disciplinare.

4. I decreti attuativi della legge delega n. 124/2015 e i riflessi sulla disciplina della dirigenza. Il D.Lgs. n. 74/2017

Se si focalizza l’attenzione sui contenuti dei decreti nn. 74 e 75/2017 - accantonando l’analisi di quanto previsto dal D.Lgs. n. 171/2016 per la dirigenza sanitaria - emergono senza dubbio disposizioni di specifico interesse anche per la categoria dirigenziale.

Si prende innanzitutto in esame il D.Lgs. n. 74/2017 [20] di cui occorre considerare tre ambiti di intervento.

a) Il primo attiene alla riaffermazione della centralità della valutazione sia per il conferimento degli incarichi dirigenziali (art. 3, comma 5, D.Lgs. n. 150/2009), sia per l’accertamento della responsabilità dirigenziale (art. 3, comma 5-bis, D.Lgs. n. 150/2009) [21]. È evidente come tali disposizioni ribadiscano quanto già previsto dal D.Lgs. n. 165/2001, ovvero che “Ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto … dei risultati conseguiti in precedenza nell’am­mi­nistrazione di appartenenza e della relativa valutazione” (art. 19, comma 1), sì da sancire l’esigenza di una precisa coerenza tra l’attribuzione dell’incarico dirigenziale e la valutazione già effettuata; e che “il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, … ovvero l’inos­ser­vanza delle direttive imputabili al dirigente” (art. 21, comma 1) comportano l’appli­cazione delle tre misure previste dalla norma (divieto di rinnovo dell’incarico, revoca dell’incarico e collocamento nei ruoli, recesso), in modo da prevedere uno stretto nesso tra valutazione negativa ed adozione di specifiche misure graduate in ragione della gravità dell’inadempimento.

Tuttavia nella novella del 2017 vi sono anche alcuni profili innovativi, peraltro, a ben vedere, più di forma che non di sostanza. In primo luogo le nuove previsioni sono inserite nell’art. 3 del D.Lgs. n. 150/2009 rubricato “Principi generali”, sì da esplicitare e rafforzare la rilevanza della valutazione nell’ambito del sistema lavoro pubblico. In stretto legame vi è la previsione del novellato comma 5 secondo cui l’attribuzione di incarichi dirigenziali (in ciò accomunati all’erogazione di premi e componenti del trattamento accessorio, all’attuazione delle progressioni economiche, all’attribuzione di incarichi di responsabilità al personale) è condizionata al rispetto di tutte le disposizioni del secondo titolo del decreto 150 concernente “Misurazione, Valutazione e Trasparenza della performance”. Posto che sul piano qualificatorio la condizione in parola deve qualificarsi come condizione sospensiva, riferita cioè ad atti successivi all’entrata in vigore della riforma del 2017, non potendo la norma, con tutta evidenza, incidere su decisioni organizzativo-gestionali già assunte, due sono le riflessioni che scaturiscono dalla sua analisi. La prima, di carattere generale, attiene alla difficoltà di ravvisare la mancata attuazione delle previsioni del Titolo II del decreto 150/2009 [22]. Se si escludono casi eclatanti, la previsione si configura più per la sua portata di norma simbolo che non per la sua effettiva cogenza. La seconda, di carattere specifico e riferita agli incarichi dirigenziali, concerne un problema di coordinamento tra la nuova disposizione e la durata necessariamente temporanea degli incarichi dirigenziali. La previsione per cui in caso di mancato rispetto delle disposizioni del Titolo II del decreto 150 non si possa procedere all’attribuzione di incarichi dirigenziali produce quale effetto implicito la conservazione degli incarichi in essere oltre il limite legislativo di durata con l’effetto di realizzare nella sostanza l’effetto paradossale di rendere inoperante la regola della temporaneità.

b) Il secondo attiene alla nuova articolazione degli obiettivi, ridefiniti dalla riforma del 2017 nel novellato articolo 5 del D.Lgs. n. 150/2009 in obiettivi generali e in obiettivi specifici di ogni amministrazione. Se l’introduzione degli obiettivi generali costituisce il tentativo di uniformare e coordinare l’azione amministrativa tra i diversi enti e amministrazioni, gli obiettivi specifici, da individuarsi in coerenza con gli obiettivi generali ed i programmi determinati dagli organi di indirizzo della singola amministrazione, costituiscono i “classici” obiettivi di ogni singola amministrazione definiti in coerenza con gli obiettivi di bilancio individuati dai documenti di programmazione ed inseriti nel piano della perfomance. Si ribadisce anche in questa norma che il conseguimento degli obiettivi “costituisce condizione per l’ero­gazione degli incentivi previsti dalla contrattazione integrazione”, da intendersi, per la dirigenza, quale condizione per la corresponsione della retribuzione di risultato.

Con riguardo agli obiettivi specifici il novellato comma 1 dell’art. 5 ribadisce quanto già “genericamente” affermava la previgente formulazione dell’art. 5, ovvero che gli obiettivi sono programmati “sentiti i vertici dell’amministrazione che a loro volta consultano i dirigenti o i responsabili delle unità organizzative”. Tale pre­visione è da leggere in connessione con quanto previsto dall’art. 14 del D.Lgs. n. 165/2001 secondo cui l’attività di indirizzo politico deve essere svolta “anche sulla base delle proposte dei dirigenti di cui all’art. 16”. Nondimeno l’art. 16, comma 1, lett a) del D.Lgs. n. 165/2001 stabilisce che i dirigenti degli uffici dirigenziali generali “formulano proposte ed esprimono pareri al Ministro, nelle materie di sua competenza” [23]; mentre l’art. 17, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 165/2001 prevede che i dirigenti “di base” “formulano proposte ed esprimono pareri ai dirigenti degli uffici dirigenziali generali”.

Con tali disposizioni il legislatore attribuisce alla dirigenza di più alto livello solo un potere propositivo che non può incidere sulla autonoma determinazione finale dell’indirizzo politico che compete in via esclusiva agli organi politici. Con tutta evidenza - fermo quanto si dirà nei prossimi paragrafi in merito alla tempestiva attribuzione degli obiettivi e ad loro formulazione - la circostanza che i dirigenti apicali debbano essere solo sentiti esclude la possibilità di addivenire a qualsivoglia negoziazione in merito ai contenuti dell’atto di indirizzo ed alla successiva definizione degli obiettivi. È, tuttavia, del pari indubbio che i vertici burocratici, ed a cascata i dirigenti o i responsabili delle unità organizzative, siano tenuti a fornire il loro contributo. La mancata cooperazione configura, senza dubbio, un inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare; ma anche un incongruo apporto che assume certamente rilievo quale elemento sintomatico di inadeguatezza del dirigente a ricoprire il ruolo assegnatoli. Nondimeno non è irrilevante che gli obiettivi definiti dall’organo di indirizzo politico ricalchino o meno le indicazioni fornite dai vertici burocratici. Nel primo caso il mancato raggiungimento degli obiettivi potrà essere unicamente giustificato da una inadeguata assegnazione di risorse o da una presenza di sopravvenute circostanze esterne impeditive. Qualora, invece, la determinazione degli obiettivi si discosti dalle indicazioni fornite dal dirigente, questi potrà anche dimostrare la non realisticità e/o l’incoerenza degli obiettivi assegnati.

c) Il terzo attiene al doppio ruolo rivestito dal dirigente, come valutatore e come valutato, ribadito anche dalla novella del 2017, ma con alcune significative novità, alcune delle quali difficilmente integrabili con le restanti previsioni normative.

Quanto al dirigente valutatore, ne viene confermato l’inserimento tra i soggetti chiamati a valutare la performance: a seguito della novella del 2017 insieme agli altrettanto “confermati” organismi interni di valutazione e ai “nuovi” cittadini o altri utenti finali in rapporto alla qualità dei servizi resi dall’amministrazione che sostituiscono il ruolo in precedenza assegnato alla Civit, prima, e all’Autorità Nazionale Anticorruzione, poi. Si specifica [cfr. novellata lett. b) del comma 2 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 150/2009] che il compito dei dirigenti concerne la valutazione della performance organizzativa e di quella individuale (“dai dirigenti di ciascuna amministrazione, secondo quanto previsto dagli articoli 8 e 9”) con una previsione più puntuale del più generico richiamo ai compiti del dirigenti fissati dal D.Lgs. n. 165/2001 contenuto nella previgente formulazione della norma [“dai dirigenti di ciascuna amministrazione, secondo quanto previsto agli articoli 16 e 17, comma 1, lettera e-bis), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”] [24]. Infine l’art. 12 del decreto 150/2009 nel confermare i dirigenti, unitamente agli organismi indipendenti di valutazione e agli organi di indirizzo politico di ciascun amministrazione tra i soggetti del processo di misurazione di valutazione della perfomance, inserisce il Dipartimento della Funzione Pubblica quale “titolare delle funzioni di promozione, indirizzo e coordinamento, esercitate secondo le previsioni del decreto adottato ai sensi dell’articolo 19, comma 10, del decreto-legge n. 90 del 2014” in luogo della Civit [25].

Significative sono, invece, le novità riferite al dirigente come soggetto valutato, non tanto per quanto concerne l’individuazione del soggetto chiamato alla sua valutazione, ove non si registrano modifiche alla disciplina previgente [26], quanto per l’oggetto della valutazione. Così nel novellato art. 9, D.Lgs. n. 150/2009 a fianco di alcune disposizioni confermate, ovvero il rilievo assegnato al raggiungimento di specifici obiettivi individuali [art. 9, comma 1, lett. b)] e alla capacità di valutazione dei propri collaboratori dimostrata tramite una significativa differenziazione dei giudizi [art. 9, comma 1, lett. d)], si inseriscono due importanti specificazioni. Si prevede così l’attribuzione di un peso prevalente nella valutazione complessiva agli indicatori di perfomance relativi all’ambito organizzativo di diretta responsabilità [art. 9, comma 1, lett. a)] e si aggiunge alla valutazione della qualità del contributo assicurato alla perfomance generale della struttura, alle competenze professionali e manageriali dimostrati quella relativa ai comportamenti organizzativi richiesti per il più efficace svolgimento delle funzioni assegnate [art. 9, comma 1, lett. c)].

Si tratta di novità senza dubbio significative. Il rilievo prevalente assegnato agli indicatori di performance relativi all’ambito organizzativo di diretta responsabilità segna un evidente spostamento dall’individuale al collettivo, da leggere in connessione con i novellati artt. 19, comma 1, D.Lgs. n. 150/2009 e 40, comma 3-bis, D.Lgs. n. 165/2001. La prima disposizione prevede che il contratto collettivo nazionale “nell’ambito delle risorse destinate al trattamento economico accessorio collegato alla performance ai sensi dell’articolo 40, comma 3-bis, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, stabilisce la quota delle risorse destinate a remunerare, rispettivamente, la performance organizzativa e quella individuale” [27]; a sua volta l’art. 40, comma 3-bis, D.Lgs. n. 165/2001 prevede che la contrattazione collettiva integrativa assicuri “adeguati livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici, incentivando l’impegno e la qualità della performance, destinandovi, per l’ottimale perseguimento degli obiettivi organizzativi ed individuali, una quota prevalente delle risorse finalizzate ai trattamenti economici accessori comunque denominati”. Dal combinato disposto delle due disposizioni, ancorché riferite a diversi livelli di contrattazione, emerge che la quota prevalente di risorse deve essere destinata a remunerare la performance. Il che di per sé potrebbe apparire neutro, non emergendo alcun elemento a favore di quella collettiva o, viceversa, di quella individuale. Tuttavia se si considera la novellata previsione del comma 3-bis dell’art. 40 alla luce della precedente formulazione della stessa norma emerge una chiara discontinuità atteso che la disposizione previgente prevedeva la destinazione “al trattamento economico accessorio collegato alla performance individuale una quota prevalente del trattamento accessorio complessivo comunque denominato” [28].

Del pari rilevante è l’esplicitazione della valutazione dei comportamenti organizzativi, prevista espressamente per la dirigenza dalla riforma del 2017, mentre in precedenza era richiamata solo per i dipendenti senza particolari ruoli di responsabilità. È opportuno ricordare come la letteratura manageriale differenzi tra competenza e comportamenti organizzativi. Mentre la prima concerne l’insieme delle conoscenze, capacità ed esperienze del singolo, i secondi attengono alla considerazione delle azioni realizzate. Secondo tale classificazione la richiesta capacità di valutazione dei propri collaboratori dimostrata tramite una significativa differenziazione dei giudizi è senza dubbio riconducibile al comportamento organizzativo. Ne deriva un’esigenza di avere riguardo anche al come sono state poste in essere certe azioni e non solo al che cosa è stato realizzato. Si tratta, con tutta evidenza, di una previsione che si pone in continuità con quanto previsto dall’art. 5, D.Lgs. n. 286/1999 (“Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59”, abrogato dal D.Lgs. n. 150/2009) ove si faceva riferimento per i dirigenti anche alla valutazione dei “comportamenti relativi allo sviluppo delle risorse professionali, umane e organizzative ad essi assegnate”.

Alcune perplessità reca la previsione del nuovo comma 1-bis dell’art. 9, D.Lgs. n. 150/2009 ove si precisa che per i dirigenti apicali (ovvero per quelli titolari degli incarichi di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 19, D.Lgs. n. 165/2001) la misurazione e la valutazione della perfomance individuale è collegata sia al raggiungimento degli obiettivi individuati nella direttiva generale per l’azione amministrativa e la gestione e nel Piano della performance, sia all’adempimento degli obiettivi specifici definiti nel contratto individuale. Se il riferimento agli obiettivi individuati nella direttiva e a quelli indicati nel Piano della perfomance appare del tutto congruo e conforme al quadro normativo di riferimento (cfr. art. 19, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001), perplessità suscita il riferimento agli obiettivi definiti nel contratto individuale. Ciò non tanto per le ragioni indicate dal Consiglio di Stato [29] e riferite ad una asserita genericità degli obiettivi, se non ad un mero rinvio ai compiti dell’ufficio, quanto per la circostanza che nel contratto individuale gli obiettivi non sono definiti. E questo vale sia per il contratto di assunzione che conferisce la sola qualifica dirigenziale, sia per l’accordo accessivo sul trattamento economico che segue l’atto unilaterale di conferimento dell’incarico. Nella definizione dei contenuti dell’ac­cor­do economico le parti non hanno alcuna capacità di effettiva negoziazione, sia per quanto concerne il trattamento fondamentale (quantificato sulla base delle previsioni della contrattazione collettiva), sia per quanto concerne il trattamento accessorio, sia per la parte correlata alle funzioni attribuite (retribuzione di posizione), sia per la parte connessa alle responsabilità e risultati (retribuzione di risultato) [30] la cui quantificazione è definita unilateralmente dall’amministrazione nel rispetto dei criteri fissati dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Sicché sarebbe affermazione non realistica quella che giungesse ad affermare una negoziabilità degli obiettivi ricavandola da una negoziabilità sulla quantificazione della retribuzione di risultato.

5. Segue: il D.Lgs. n. 75/2017

Anche il D.Lgs. n. 75/2017 contiene alcune disposizioni normative riferibili al ruolo ed ai compiti della dirigenza [31]. Gli ambiti di rilievo sono anche in questo caso tre, i primi due riguardanti in via prevalente il dirigente nella sua veste di datore di lavoro, il terzo il dirigente quale dipendente.

a) Innanzitutto si considerano le modifiche apportate al sistema di relazioni sindacali. La novella del 2017, nel mantenere ferma la distinzione tra forme di partecipazione sindacale e contrattazione, ne ha ridisegnato gli ambiti con la volontà di ripensare alcune soluzioni restrittive introdotte dalla riforma Brunetta [32].

La linea ispiratrice della recente riforma è senza dubbio volta a riattribuire uno spazio regolativo alla contrattazione collettiva, anche in ragione dell’esigenza di dare attuazione ad alcuni precisi impegni formalizzati nella già richiamata Intesa Governo - Sindacati del 30 novembre 2016. Non meno rilevanti sono le modifiche relative ai principi che disciplinano le forme di partecipazione sindacale.

a.1) Con riferimento all’ambito di regolazione della contrattazione collettiva, il novellato comma 1 dell’art. 40, D.Lgs. n. 165/2001 dispone che essa “disciplin(i) il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali”. Tale formulazione, nel riecheggiare quella originaria del 2001, delinea una “competenza” più ampia di quella prevista dal testo introdotto dalla Riforma Brunetta del 2009 secondo cui spettava alla contrattazione collettiva “determina(re) i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali”. La norma ribadisce poi quanto già affermato dalle disposizioni previgenti in merito all’elenco di materie escluse dalla contrattazione collettiva e a quelle per le quali la contrattazione può esplicarsi nei limiti previsti dalla legge, sì da preservare esplicitamente le prerogative unilaterali della dirigenza [33].

Il modificato articolo 40 deve essere letto anche alla luce del pure novellato secondo periodo del comma 2 dell’art. 2 del D.Lgs. n. 165/2001 con cui si è riesteso lo spazio regolativo della fonte negoziale nelle materie disciplinate da leggi speciali relative ai soli pubblici dipendenti, ma limitatamente alle materie affidate alla contrattazione collettiva [34].

La novella del 2017 ribadisce il vincolo reale sussistente tra contrattazione nazionale e contrattazione integrativa. Conferma, altresì, la facoltà dell’ammini­stra­zio­ne di agire in via unilaterale qualora a livello decentrato le parti non riescano a raggiungere l’accordo, ferma l’applicabilità anche agli atti adottati unilateralmente delle procedure di controllo di compatibilità economico-finanziaria previste dall’art. 40-bis, D.Lgs. n. 165/2001 (novellato comma 3-ter, dell’art. 40, D.Lgs. n. 165/2001). La nuova formulazione - che ricalca quanto previsto dall’intesa del 30 novembre 2016 e che per quanto concerne l’assoggettamento dell’atto unilaterale alle procedure di controllo conferma la precedente disposizione - si presenta più articolata rispetto alla previgente. Mentre la vecchia norma riconosceva la possibilità di agire in via unilaterale “al fine di assicurare la continuità e il migliore svolgimento della funzione pubblica” e, dunque, con una lettera di chiara proiezione positiva tale da consentire l’introduzione di previsioni idonee a modificare in senso migliorativo l’esistente, il testo vigente nel riferirsi ad un “protrarsi delle trattative (che) determini un pregiudizio alla funzionalità dell’azione amministrativa” pare seguire una prospettiva significativamente diversa, ovvero la possibilità di agire unilateralmente solo in presenza di un possibile pregiudizio. In altri termini una proposta migliorativa dell’amministrazione può condurre ad un’azione unilaterale solo qualora vi sia un contestuale pregiudizio. Il mutamento di prospettiva si desume anche dall’ob­bligo imposto all’amministrazione di “prosegu(ire) le trattative al fine di pervenire in tempi celeri alla conclusione dell’accordo”, fermo restando che l’atto unilaterale - come già previsto dalla disciplina previgente - resta fino a quel momento produttivo di effetti. La norma sancisce così un chiaro obbligo a trattare in capo alle parti che nel corso del confronto devono - per espresso richiamo dei principi generali - rispettare i principi di correttezza e buona fede. .

Dalle disposizioni sopra richiamate deriva con tutta evidenza un ridimensionamento dell’autonomia decisionale della dirigenza a favore della condivisione negoziale. La dimostrazione dell’esistenza di un pregiudizio atto a legittimare l’azione unilaterale dell’amministrazione oltre a poter essere difficoltosa è senza dubbio idonea ad agevolare il contenzioso giudiziale in presenza di relazioni sindacali tese, cioè in presenza delle stesse tensioni negoziali che il più delle volte sono alla base del mancato perfezionamento dell’accordo.

È importante considerare che il regime desumibile dalle citate disposizioni normative può essere allentato dalla contrattazione collettiva nazionale. Il comma 3-ter dell’art. 40 prevede, infatti, la possibilità per i contratti di comparto di individuare un termine minimo di durata delle sessioni negoziali in sede decentrata, decorso il quale l’amministrazione interessata potrà in ogni caso provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo [35]. Con tutta evidenza la relativa determinazione è stata rimessa dalla legge alla contrattazione collettiva al fine di rispettare il principio di libertà sindacale. Si ritiene, tuttavia, che qualora il contratto nazionale abbia previsto un termine minimo di durata delle sessioni negoziali, il suo superamento legittimi l’amministrazione ad agire in via unilaterale, a prescindere dalla dimostrazione della sussistenza di un pregiudizio e ferma l’esigenza di un riavvio del confronto sindacale al fine di verificare il possibile raggiungimento del­l’accordo.

a.2) Sul piano delle forme di partecipazione sindacale non è stato modificato l’art. 9, D.Lgs. n. 165/2001 che continua a recitare “fermo restando quanto previsto dall’articolo. 5, comma 2, i contratti collettivi nazionali disciplinano le modalità e gli istituti della partecipazione”. Di rilievo sono proprio le modifiche apportate al com­ma 2 dell’art. 5. Resta confermato che le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro ed, in particolare, la direzione e l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici, sono assunti dai dirigenti (“organi preposti alla gestione”) con la capacità del privato datore di lavoro, sì da confermare in tali ambiti non solo la natura privatistica degli atti, ma anche la non negoziabilità del potere datoriale. Tuttavia, vi è un ampliamento della possibile partecipazione delle organizzazioni sindacali nella fase propedeutica all’assun­zio­ne delle decisioni. Infatti, mentre la formulazione previgente (quale risultante dalla modifica apportata dal D.L. n. 95/2012) prevedeva “la sola” informazione ai sindacati per le determinazioni relative all’organizzazione degli uffici e, limitatamente, alle misure riguardanti i rapporti di lavoro l’esame congiunto ove previsto dai contratti di comparto, quella odierna consente ai medesimi contratti di comparto di estendere l’informazione e le altre forme di partecipazione sindacale (“fatte salve la sola informazione ai sindacati ovvero le ulteriori forme di partecipazione, ove previsti nei contratti di cui all’articolo 9”) [36].

L’ampliamento dell’ambito di esplicazione delle forme di partecipazione sindacale non deve essere considerato come un ridimensionamento delle prerogative dirigenziali, atteso che la dirigenza rimane la responsabile ultima delle decisioni nelle materia oggetto di confronto sindacale. Senza dubbio si può concretizzare un rallentamento decisionale posta la potenziale esigenza di attivare un tavolo sindacale per l’analisi di questioni in precedenza escluse. Ma ciò non deve essere necessariamente valutato negativamente in ragione della possibilità di acquisire in tale sede la consapevolezza di utili esperienze maturate altrove

b) Il secondo ambito concerne la modifica delle disposizioni relative all’eser­cizio del potere disciplinare e, segnatamente, il sostanziale superamento della titolarità pluriarticolata del potere suddivisa tra dirigenti ed Ufficio per i procedimenti disciplinari [37]. A seguito della novella del 2017 al responsabile della struttura (non necessariamente di qualifica dirigenziale) rimane attribuita la sola competenza per l’irrogazione della sanzione del rimprovero verbale, con devoluzione all’Ufficio per i procedimenti disciplinari della competenza a comminare tutte le altre sanzioni conservative ed estintive.

Occorre chiedersi se tale modifica possa incidere in maniera positiva sull’am­plia­mento delle competenze manageriali della dirigenza.

In senso negativo si potrebbe affermare che in realtà nulla cambia in quanto il responsabile della struttura deve segnalare (immediatamente e, comunque, entro dieci giorni) all’ufficio per i procedimenti disciplinari i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare di cui abbia avuto conoscenza (cfr. art. 55-bis, comma 4, D.Lgs. n. 165/2001). E ad avvalorare l’assenza di cambiamento si potrebbe aggiungere la conferma della responsabilità disciplinare del dirigente (e più in generale del responsabile della struttura) in caso di ritardo senza giustificato motivo nella segnalazione all’Ufficio per i procedimenti disciplinari o nell’ipotesi di “valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza dell’illecito in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza discipli­nare” (art. 55-sexies, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001). In sostanza anche la nuova disciplina avrebbe ribadito la sostanziale obbligatorietà dell’avvio del­l’azione disciplinare.

Tuttavia la circostanza che il dirigente non sia più competente ad irrogare le sanzioni disciplinari (tranne il caso del rimprovero verbale) porta a ravvisare un potenziale ampliamento del margine di esercizio del potere direttivo per una possibile composizione della situazione sul piano organizzativo senza l’attivazione di un procedimento disciplinare. Con tutta evidenza la considerazione non è riferibile alle ipotesi di macroscopico inadempimento e, quindi, in concreto, ai casi di potenziale applicabilità delle sanzioni più gravi. Tuttavia nei casi “minori”, a fronte di una rapida e proficua soluzione sul piano organizzativo, si potrebbe ravvisare senza dubbio un “giustificato motivo” idoneo ad escludere una possibile responsabilità del dirigente (e più in generale del responsabile della struttura) per mancato avvio del procedimento disciplinare. Ciò ovviamente sulla base della prova dell’avvenuta soluzione della criticità o, comunque, della dimostrazione della congruità della soluzione ipotizzata. Il che potrebbe (o meglio, dovrebbe) avere un riscontro positivo anche sul piano della valutazione del dirigente che abbia privilegiato la soluzione direttiva in luogo di quella disciplinare.

Si aggiunga che mentre la precedente formulazione attribuiva rilievo disciplinare alle “valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate” la nuova fa riferimento a “valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza dell’illecito”, sì da ampliare gli spazi per una eventuale giustificazione della ritenuta insussistenza di una condotta disciplinarmente rilevante idonea ad attivare la segnalazione disciplinare.

Dunque, se alcuni margini di maggiore autonomia gestionale sono ravvisabili in capo ai dirigenti, è del pari ovvio che l’inerzia non può trovare neppure nelle novellate disposizioni alcuna giustificazione.

c) Il terzo ambito concerne la tutela da riconoscere al dirigente illegittimamente licenziato. Dopo un contrasto giurisprudenziale e dottrinale che vedeva contrapposti coloro che propendevano per l’applicabilità del nuovo articolo 18 dello Statuto, ancorché per taluni limitatamente alla c.d. tutela reintegratoria forte, e coloro che, invece, postulavano l’applicabilità dell’art. 18 pre-Fornero [38], il legislatore del 2017 è intervenuto prevedendo l’applicazione di una speciale tutela reintegratoria a favore di tutti i pubblici dipendenti illegittimamente licenziati. Il novellato secondo comma dell’art. 63 del D.Lgs. n. 165/2001 prevede che il giudice con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento condanna l’amministrazione alla re­in­te­grazione del lavoratore nel posto di lavoro e alla corresponsione a suo favore di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo decorrente dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Tale indennità - specifica ancora la norma - non può essere superiore alle ventiquattro mensilità e deve essere dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d. aliunde perceptum). Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali [39].

Il legislatore con la sopra richiamata disposizione ha introdotto una tutela reintegratoria speciale che apre molteplici questioni interpretative non affrontabili in questo scritto. Ciò che assume rilievo ai fini dell’analisi che si sta compiendo è l’af­fermato principio di stabilità reale che è riferibile senza alcun dubbio anche alla dirigenza. Il legislatore ha inteso così marcare anche sul piano delle tutele una netta differenza rispetto al settore privato. Infatti se era ormai chiaro che per il dirigente pubblico non potesse valere il regime legale di libera recedibilità, restava dibattuto il tema delle tutele per il caso di illegittimo licenziamento [40]. Una problematica che aveva ricadute anche sui ragionamenti riferiti al concreto atteggiarsi del rapporto tra organi di indirizzo e vertici burocratici e, segnatamente, sulla possibile monetizzazione di una decisione politica volta ad allontanare illegittimamente un dirigente. L’e­spressa presa di posizione del legislatore supera in radice questa ipotesi e si pone quale ulteriore “paletto” a garanzia dell’autonomia della dirigenza rispetto alla politica.

6. Cosa ci lascia la mancata attuazione dell’art. 11 della legge delega n. 124/2015. Che cosa si sarebbe potuto fare?

Occorre ora chiedersi se la mancata riforma della dirigenza pubblica debba essere considerata come un’occasione persa o se, al contrario, come un pericolo scampato. Anche se gli indici a favore della seconda soluzione paiono prevalere una presa di posizione netta sarebbe errata. A parere di chi scrive il testo approvato dal Governo e poi ritirato presentava molteplici aspetti non condivisibili; però, è del pari, indubbio che proprio quel testo ha permesso il riavvio di una discussione che si spera possa proseguire e possa essere interessante e proficua.

Le considerazioni che seguono hanno l’obiettivo di approfondire le criticità relative al ruolo manageriale del dirigente esaminando partitamente le difficoltà riferibili all’attuazione del principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione e quelle connesse alla contrattualizzazione del rapporto di lavoro e all’eser­cizio delle prerogative dirigenziali. I due profili saranno considerati distintamente e con riguardo ad entrambi si porranno in luce quelle che apparivano le parti problematiche del testo approvato a novembre 2016 e si indicheranno de iure condendo alcune propsote circa i possibili futuri interventi.

7. Segue: indebolimento del principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione nello schema di decreto delegato di riforma della dirigenza

Se si dà uno sguardo d’insieme al testo di riforma della dirigenza approvato a fine novembre 2016 pare emergere un duplice limite.

Il primo limite concerne il rafforzamento del legame della dirigenza con la politica. Le norme di riforma della dirigenza tendevano a realizzare un risultato diverso rispetto a quello prefigurato dall’esecutivo. Non si afferma certamente nulla di nuovo se si sottolinea che il testo approvato dal Governo, in continuità con quanto era già desumibile dalla legge delega, in concreto rafforzasse il legame dell’alta dirigenza con la politica e, a cascata, di tutti i dirigenti. La burocrazia non usciva affrancata dalla politica, tutt’altro. Emblematico di ciò erano le previste modalità di conferimento degli incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali. Secondo il sistema ipotizzato l’organo politico si sarebbe dovuto limitare a scegliere, nell’am­bito di una ristretta rosa di nomi elaborata da una apposita commissione, il dirigente ritenuto più idoneo, con una valutazione prettamente soggettiva, senza alcun ulteriore filtro oggettivo. Solo per l’attribuzione degli incarichi dirigenziali di base era prevista una verifica ex post da parte della medesima commissione nazionale circa la scelta compiuta dai dirigenti incaricati della direzione di uffici dirigenziali generali.

Il secondo limite - da leggere sempre nella logica di rafforzamento del rapporto di dipendenza del vertice burocratico rispetto alla politica - attiene alla prevista a­bolizione delle due fasce dirigenziali ed alla costituzione di tre ruoli in cui i dirigenti sarebbero stati originariamente inseriti in ragione della provenienza o della specifica procedura concorsuale di assunzione. Dopo il primo inserimento ne era però prevista una piena fungibilità attesa la prevista possibilità per le singole amministrazioni di attribuire gli incarichi ai dirigenti dei tre ruoli. La scelta del legislatore aveva senza dubbio alcuni punti forti, primo fra tutti la possibilità di attuare effettivamente il principio di rotazione degli incarichi, richiesto anche dall’Autorità Anticorruzione, nella sostanza non realizzabile nelle amministrazioni che presentano un numero limitato di dirigenti. Tuttavia il modello conteneva alcuni punti deboli e palesi incongruità.

Quanto ai primi faceva venir meno il diritto all’incarico. Il dirigente, ancorché valutato positivamente, poteva rimanere senza incarico e dopo un certo periodo essere obbligato, pena l’estinzione del rapporto di lavoro, ad accettare una qualsivoglia tipologia di incarico in qualsiasi amministrazione anche geograficamente molto distante. Il che ovviamente finiva per rafforzare la posizione della politica.

Quanto alle incongruità, da un lato si prevedeva una selezione per l’accesso diversificata per ruolo, sì da presupporre una differenziazione nelle competenze richieste e, dall’altro lato, si postulava una completa fungibilità tra gli appartenenti ai ruoli, sì da dare per presupposto proprio la sufficienza del possesso di competenze manageriali trasversali.

L’idea di ritenere tutti i dirigenti fungibili può essere condivisa solo ad una prima e marginale valutazione. La categoria dirigenziale è unitaria, ma è chiamata a svolgere compiti specifici in ragione della tipologia di amministrazione in cui opera. È unitaria per l’omogeneità degli elementi strutturali del rapporto di lavoro: per tutti i dirigenti di ruolo vi è la scissione tra il contratto di assunzione a tempo indeterminato con cui si acquisisce la qualifica e gli incarichi a termine che si succedono nel corso del rapporto di lavoro. È, altresì, indiscussa l’esigenza di tenere separato il piano della funzione, ovvero dell’attività istituzionale propria delle varie amministrazioni da quello relativo all’esecuzione del contratto di lavoro per il raggiungimento degli obiettivi definiti dagli organi di indirizzo politico-amministrativo. Resta però una specificità professionale del dirigente che deriva dal contesto in cui egli opera e che merita di essere valorizzata anziché appiattita. Proprio tali specificità il testo di riforma del 2016 pareva invece ridimensionare se non addirittura cancellare. Ciò sull’implicito presupposto che un dirigente è tale in quanto è idoneo a dirigere; e questo a prescindere dal contesto in cui si trova ad operare.

Il percorso ideato dal legislatore del 2016 nel prevedere una sostanziale omologazione della disciplina della dirigenza portava ad estendere in via definitiva il modello ministeriale secondo una logica accentratrice presente anche nella proposta di riforma costituzionale. Una omogeneizzazione che era destinata a riflettersi anche sul piano organizzativo.

A parere di chi scrive occorre, invece, acquisire definitivamente la consapevolezza delle diversità esistenti tra le varie amministrazioni e sulla base di ciò chiedersi se non sia opportuno addivenire ad una differenziazione di regolamentazione non tanto tra amministrazioni centrali o locali, quanto tra amministrazioni di servizio alla politica ed amministrazioni erogatrici di servizi alla collettività [41]. Una diversificazione che assume rilievo non solo sul piano organizzativo, ma anche con riferimento alla definizione delle regole che disciplinano il rapport o di lavoro dirigenziale. La dirigenza nel primo caso è al servizio pressoché esclusivo della politica e nel secondo caso, pur dovendo attuare gli indirizzi espressi dagli organi di vertice, chiamata ad esercitare compiti analoghi a quelli che svolge la dirigenza privata nei medesimi settori e, dunque, con una maggiore attenzione al mercato.

Non si tratta certamente di un’idea del tutto nuova in quanto recepisce e sviluppa alcune riflessioni dell’ultimo decennio del secolo scorso, ma che si ritiene meritevole di approfondimento.

Innanzitutto è bene sottolineare come l’idea non sia certamente quella di addivenire ad una privatizzazione dell’ente che eroga il servizio, bensì di rivedere alcune regole che ne disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento, comprese quelle relative al personale, in primis di livello dirigenziale. L’esigenza di rispettare i vincoli e le finalità dettati dalla Costituzione, primi fra tutti quelli dell’art. 97 della Costituzione, da leggere in connessione con l’art. 3 della stessa Carta Costituzionale è indiscussa. e, dunque, il soddisfacimento dell’interesse pubblico e non di un interesse egoistico cui è intrinsecamente connessa la garanzia di una generalizzata possibilità di fruizione del servizio. Un interesse pubblico da perseguire in maniera imparziale, efficiente, efficace ed economica nel rispetto delle molte volte limitate risorse pubbliche. Sul piano della gestione del personale l’eliminazione di alcune rigidità presenti nel settore pubblico potrebbe favorire, se adeguatamente governata da una classe dirigente formata, processi virtuosi.

In secondo luogo, ed in continuità con quanto appena detto, la classificazione tra amministrazioni “politiche” ed amministrazioni “di servizio” non è certamente sem­plice, non potendosi realizzare con un taglio netto. L’esempio corre facilmente alle amministrazioni locali in cui ad un’attività prettamente politica se ne affianca un’al­tra, di pari importanza, di gestione ed erogazione di servizi alla collettività. Tale difficoltà non fa tuttavia venir meno l’opportunità di rimettere nell’agenda un tema fin troppo coperto da polvere stantia.

La possibile obiezione all’ipotizzata riflessione è che in realtà un percorso nel senso indicato è già stato intrapreso, con le aziende municipalizzate ed i consorzi prima e con le aziende speciali poi; e che la riforma delle società partecipate è andata proprio nel senso qui ipotizzato [42].

Senonché non vi è chi non veda come nei fatti tutte le realtà di “imprenditoria pubblica” sopra richiamate non abbiano mai reciso il cordone ombelicale con le loro origini, con l’effetto di creare un sistema ibrido che si colloca a metà strada tra pubblico e privato, il più delle volte recependo i difetti e non i pregi delle due realtà. In ciò “facilitati” da un’autonomia statutaria che permette un sostanziale shopping libero tra le regole ritenute più utili, ma senza la garanzia della conservazione di una omogeneità di disciplina. Il che se certamente può essere valutato positivamente se considerato nella logica di adeguamento alle specificità, ma assume una valenza negativa nel caso di assoluta eterogeneità di regole.

Nondimeno anche la più netta soluzione di esternalizzare servizi pubblici affidandoli alla gestione di soggetti privati non ha dato sempre buoni esiti. I dati di esperienza dimostrano come in molti casi non vi sia stato alcun reale minor costo per la pubblica amministrazione e vi sia stato, invece, l’erogazione di un minor servizio unito ad una potenziale precarizzazione del personale impiegato nell’appalto, il più delle volte a condizioni economiche e normative deteriori rispetto a quelle riconosciute ai pubblici dipendenti.

L’idea che è alla base delle presenti riflessioni non è, quindi, quella di creare soggetti nuovi o di assegnare ad esterni l’esercizio diretto di un’attività, ma di introdurre regole funzionali a garantire una maggiore flessibilità nella organizzazione e nella gestione del servizio da parte della pubblica amministrazione, cui deve essere intrinsecamente connessa una maggiore flessibilità nella organizzazione e nella gestione del personale, con una tensione più marcata al risultato.

Si potrebbe anche pensare all’introduzione di disposizioni volte ad agevolare la ripresa della gestione diretta di alcuni servizi da parte delle pubbliche amministrazioni; una reinternalizzazione idonea a superare le criticità sopra evidenziate e che dovrebbe essere però accompagnata da una sostanziale e non formale applicazione delle regole di flessibilità organizzativa sul piano del rapporto. Più precisamente alla garanzia di stabilità del posto di lavoro data dalla solidità economica dell’ente dovrebbe affiancarsi quella di una maggiore flessibilità gestoria.

In linea generale, ferma l’esigenza di rispettare il vincolo costituzionale dell’ac­cesso per concorso e di riconoscere la tutela reintegratoria nel caso di illegittimo licenziamento, vi dovrebbe essere la formalizzazione dell’esplicita tensione ad una maggiore flessibilità funzionale nel corso del rapporto di lavoro, per quanto concerne sia il tempo di lavoro sia lo svolgimento (anche) di mansioni promiscue e, comunque, diversificate nel corso dell’anno. Una maggiore flessibilità che dovrebbe togliere ogni alibi circa la più volte asserita impossibilità di operare costruttivi confronti con il settore privato. Il risultato del servizio dovrebbe essere utilizzato anche come criterio fondamentale di valutazione della dirigenza la quale non avrebbe più la “giustificazione” di dover gestire il personale con regole diverse rispetto al privato; un risultato del servizio che dovrebbe nel contempo vincolare anche la politica rispettivamente a confermare e rimuovere i dirigenti che abbiano o non abbiano garantito il raggiungimento dei preventivati e realizzabili risultati.

Se sul piano generale l’obiettivo è di creare le condizioni per un miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza del servizio, sul piano specifico della dirigenza lo scopo è di garantirle una effettiva maggiore autonomia d’azione, liberandola dalla morsa di una iperegolazione che, se da un lato ne ha diminuito l’autonomia, dall’al­tro lato non ha impedito l’ingerenza della politica anche nella definizione di alcune determinazioni di dettaglio.

Occorre ora analizzare la disciplina vigente, espressione di un modello astratto congruo e condivisibile, ma che risulta attuato con modalità non sempre coerenti.

7.1. Segue: Criticità della disciplina vigente: a) definizione ed assegnazione degli obiettivi.

La prima riflessione, forse fin troppo scontata, attiene alle criticità riferite alla formulazione ed alla assegnazione degli obiettivi. In merito al primo aspetto, l’at­ti­vità di indirizzo si deve concretizzare nella determinazione di obiettivi che non siano né troppo generici, né troppo dettagliati. Se l’eccessiva genericità genera un’e­vidente difficoltà di definire quale sia la coerente attività attuativa da compiere, con conseguenti effetti diretti sulla stessa possibilità di valutare congruamente l’operato di tutti i dirigenti, l’eccessiva puntualizzazione comporta che la dirigenza divenga una mera esecutrice di indicazioni dettate dagli organi di vertice che, in questo modo, si riappropriano della gestione concreta. La prassi applicativa sconta entrambe le patologie, con obiettivi talvolta declinati come svolgimento utile delle attività del­l’ufficio e, talaltra, con indicazione specifica di alcune particolari missioni di cui sono indicate anche le modalità operative ritenute necessarie per il loro raggiungimento.

La seconda attiene alla tempistica. Ancorché l’art. 19, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, si limiti a prevedere che l’atto di conferimento dell’incarico deve contenere l’in­di­cazione degli “obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto”, è indubbio che gli obiettivi debbano essere assegnati prima dell’inizio dell’attività e che debbano essere annualmente rivisti con tempestività alla luce di quanto previsto dall’atto di indirizzo politico [43]. Si tratta di un aspetto tanto importante, quanto ineffettivo nella prassi. Al ritardo cronico nella definizione dell’atto di indirizzo si aggiunge il ritardo nella successiva declinazione e specificazione degli obiettivi da assegnare alla dirigenza ed a cascata il ritardo nell’assegnazione degli obiettivi a tutti i dipendenti. La conseguenza è di una valutazione riferita ad un arco temporale annuale, ma con obiettivi assegnati ad anno avanzato, con l’effetto di un suo inevitabile indebolimento.

A chi è contestato il mancato raggiungimento degli obiettivi è agevole dimostrare la non coincidenza temporale tra il periodo di riferimento per la valutazione e il periodo in cui ha avuto espressa conoscenza degli obiettivi, potendo addurre a propria giustificazione l’insufficienza dell’arco temporale in concreto a disposizione per il raggiungimento degli obiettivi assegnati. Di qui l’esigenza di introdurre strumenti idonei a garantire una definizione e conseguente assegnazione celere degli obiettivi (ad esempio tramite l’introduzione di vincoli di spesa per le amministrazioni ritardatarie); ma forse anche la possibilità di prevedere, compatibilmente con i tempi della annuale legge di Bilancio, una diversificazione dell’ambito temporale per la valutazione, non più riferita all’anno civile, ma all’anno solare con inizio coincidente con l’assegnazione degli obiettivi o, comunque, posticipata di qualche mese rispetto alla data di approvazione della legge di Bilancio.

7.2. Segue: b) disciplina del conferimento degli incarichi.

La seconda riflessione attiene alla disciplina del conferimento degli incarichi, oggetto di interventi interpretativi e valutativi di segno diverso. La disciplina degli incarichi a termine fu introdotta con la riforma Bassanini del 1998 (unitamente alla contrattualizzazione del rapporto di lavoro della dirigenza generale) quale effetto di un compromesso politico/istituzionale che postulava un definitivo arretramento della politica dalla gestione concreta, ma che aveva quale contropartita il riconoscimento alla stessa di una maggiore flessibilità (e non discrezionalità) nella individuazione dei dirigenti a cui conferire gli incarichi dirigenziali apicali; dirigenti apicali che a loro volta erano tenuti ad assegnare gli incarichi dirigenziali di livello inferiore.

È importante ricordare come il modello delineato nel 1998 che già prevedeva criteri soggettivi ed oggettivi per l’individuazione del dirigente cui conferire l’in­ca­rico (unitamente alla previsione della non applicabilità dell’art. 2103 cod.civ. e, dunque, la possibilità per il dirigente di passare da un incarico più importante ad un incarico meno importante a prescindere da una valutazione negativa) è stato in seguito precisato dalla novella del 2009 (comma 1 dell’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001) con la procedimentalizzazione della fase di conferimento degli incarichi. Si è così previsto l’obbligo per le amministrazioni di rendere conoscibili, anche mediante pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale, il numero e la tipologia dei posti di funzione dirigenziale che si rendono disponibili nella dotazione organica e dei criteri di scelta, nonché ad acquisire le disponibilità dei dirigenti interessati e di valutarle (comma 1-bis, art. 19, D.Lgs. n. 165/2001).

La novella del 2009 introduceva anche un’importante disposizione, che sarà dopo poco tempo cancellata dalla manovra finanziaria dell’estate del 2010, secondo cui qualora l’amministrazione, in assenza di una valutazione negativa, avesse inteso non confermare l’incarico al dirigente gliene avrebbe dovuto dare, con un congruo preavviso, idonea e motivata comunicazione, prospettando i posti disponibili per un nuovo incarico (comma 1 ter dell’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001). Tale disposizione denotava un forte equilibrio e risultava idonea a contemperare l’aspettativa del dirigente prestatore di lavoro alla conferma nell’incarico e la sussistenza di un effettivo interesse pubblico da parte dell’amministrazione alla modifica nelle ipotesi in cui non vi fosse stata una valutazione negativa ed in presenza di ponderate ed effettive esigenze di carattere organizzativo.

Venuta meno la garanzia appena riportata il dibattito si è concentrato sulla definizione dei vincoli esistenti nella individuazione del dirigente cui conferire un incarico e, più precisamente, ci si è posti un duplice quesito: a) se a seguito del­l’acquisizione delle disponibilità a ricoprire i singoli incarichi l’amministrazione fosse o meno tenuta ad attivare una procedura comparativa e b) se l’amministra­zione dovesse conferire l’incarico soltanto ai dirigenti che ne avessero formulato esplicita richiesta o se fosse comunque libera di individuarne altri. Le posizioni espresse erano diverse, soprattutto per quanto concerne la necessità di esperire una procedura comparativa, con una giurisprudenza di Cassazione (pronunciatasi a partire da un anno prima della novella del 2009) [44] che pareva optare per la soluzione positiva. In questa direzione si muoveva anche lo schema di decreto delegato approvato a fine novembre 2016 il quale prevedeva che “gli incarichi dirigenziali sono sempre conferiti mediante procedura comparativa con avviso pubblico e con atto motivato”.

Il ritiro del decreto delegato ha riaperto la questione interpretativa che, come anche da altri più volte rilevato, si collega al problema fondamentale di dover conciliare l’esigenza della distinzione funzionale tra la politica e la dirigenza con quella della fiducia [45]. A parere di chi scrive - e con ciò si ribadisce con alcune riflessioni ulteriori quanto già affermato anche in scritti precedenti - la questione deve essere risolta nel senso di escludere l’attivazione di una procedura comparativa nei rigorosi termini pro­posti da chi l’eleva ad una vera e propria procedura selettiva. Il comma 1-bis del­l’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001 si limita a richiedere all’amministrazione di valutare le disponibilità acquisite per la copertura dell’incarico. Ne deriva un obbligo di evidenziare le ragioni per le quali si ritiene un dirigente idoneo a ricoprire un certo incarico, senza che sia imposta l’attivazione di una rigorosa procedura comparativa, né tantomeno l’esplicitazione delle ragioni per le quali si ritiene un dirigente più idoneo rispetto ad un altro [46]. Occorre dimostrare che in applicazione dei criteri definiti dal comma 1 dell’art. 19, come eventualmente specificati nell’av­vi­so (c.d. interpello) del­l’amministrazione, il prescelto possegga le capacità per svolgere l’incarico avendo riguardo alla sua “professionalità” ed alla tipologia di incarico da ricoprire. Tale soluzione appare, altresì, del tutto coerente con l’unila­teralità riconosciuta all’amministra­zione nella definizione dei contenuti dell’atto di conferimento (oggetto, obiettivi e durata). Si aggiunga che una rigida interpretazione in termini comparativi impedirebbe nei fatti la rotazione tra i vari incarichi. In ragione dell’esperienza acquisita dal dirigente nello svolgimento di un certo incarico il mancato rinnovo - fatte salve le ipotesi di accertata responsabilità dirigenziale - risulterebbe in concreto ammissibile solo in presenza di processi di riorganizzazione. Si propende, dunque, per un’investitura fiduciaria oggettivizzata adottata all’esito della procedura prevista dal comma 1-bis del­l’art. 19, D.Lgs. n. 165/2001 che è del tutto conforme ai principi di imparzialità e trasparenza desumibili dall’art. 97 della Costituzione [47].

In continuità con quanto appena affermato deve essere risolta anche la questione relativa all’eventuale obbligo di attribuzione dell’incarico ai soli dirigenti che abbiano risposto al relativo interpello. Anche in questo caso la risposta mi pare che non possa che essere negativa. In base alla disciplina vigente il dirigente ha diritto ad un incarico (mentre, come visto, il decreto approvato a novembre 2016 lo aveva nella sostanza eliminato), ma non ad un certo incarico; la sua posizione è pretensiva (più precisamente qualificata dalla giurisprudenza di legittimità come di interesse legittimo di diritto privato), con il diritto a partecipare alla procedura indetta dal­l’am­mi­nistrazione, ma non di ottenere l’incarico per cui “concorre” [48]. Tant’è che in presenza di un asserito comportamento illegittimo dell’amministrazione potrà chiedere al giudice la ripetizione della procedura, ovvero limitarsi alla richiesta di risarcimento del danno subito [49]. Non potrà, invece, chiedere l’accertamento del proprio diritto a ricoprire un certo incarico dirigenziale e la condanna dell’amministrazione ad assegnarglielo [50][51]. La giurisprudenza è, infatti, univoca nell’affermare che il giudice ordinario può emettere una pronuncia costitutiva del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato solo ove si tratti di attività vincolata e non discrezionale [52]. Alla luce di ciò la tesi per cui l’amministrazione sarebbe vincolata a conferire l’incarico ad uno dei dirigenti che ne abbiano manifestato la disponibilità e non ad altri appare in contrasto con il quadro normativo appena delineato. A conferma di quanto affermato si aggiungono due ulteriori considerazioni. Innanzitutto all’inter­pello relativo ad una determinata posizione potrebbero rispondere dirigenti tutti “i­ni­donei” a ricoprire quell’incarico, sì da vincolare l’amministrazione ad una scelta in contrasto con l’interesse pubblico. Inoltre se a proporre la domanda fosse un solo dirigente egli avrebbe diritto al conferimento dell’incarico, in contrasto con la sua posizione meramente pretensiva. Si potrebbe così assistere ad una vera e propria “spartizione” degli incarichi nel caso di previo accordo tra i dirigenti dell’ammi­nistrazione che decidessero di predeterminare, suddivindendoseli, gli incarichi rispetto ai quali proporre singolarmente domanda.

Richiamate le questioni riferite alla disciplina del conferimento degli incarichi che appaiono di maggior rilievo occorre chiedersi quali interventi sarebbero auspicabili. La risposta appare più semplice di quanto si possa pensare, atteso che sarebbe sufficiente rivolgere lo sguardo al passato e reintrodurre quella parte del comma 1-ter dell’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001 troppo repentinamente cancellata. Le ragioni che sono state alla base della scelta abrogativa del legislatore appaiono evidenti, riconducibili alla volontà di garantire una maggiore flessibilità alle amministrazioni. Tuttavia quella previsione nel sancire il principio della conservazione del­l’incarico, salve le ipotesi di valutazione negativa o di esigenze organizzative previamente definite dall’amministrazione risultava di garanzia sia per l’interesse personale del dipendente, sia per l’interesse pubblico, depotenziando in nuce artificiose speculazioni interpretative.

8. Segue: la contrattualizzazione del rapporto di lavoro e l’esercizio dei poteri datoriali

Il secondo ambito di attenzione attiene alla contrattualizzazione del rapporto di lavoro dell’intera dirigenza e all’esercizio delle prerogative gestionali con la capacità del privato datore di lavoro

a) La contrattualizzazione del rapporto di lavoro della dirigenza apicale è stata criticata da una parte della dottrina per l’asserito contrasto con i principi costituzionali, primo fra tutti quello di imparzialità [53].

A prescindere dal fatto che la Corte Costituzionale nel breve volgere di pochi anni ha riconosciuto dapprima la costituzionalità della contrattualizzazione della sola dirigenza di base ed in seguito dell’intera dirigenza [54], ritengo che l’estensione delle regole privatistiche al rapporto di lavoro dell’intera dirigenza non comporti i rischi paventati. Più precisamente non concordo con chi ritiene che soltanto lo status pubblicistico sia idoneo a garantire una effettiva autonomia della dirigenza dalla politica funzionale all’effettivo esercizio dei compiti assegnati. In merito occorre ricordare come la staticità della dirigenza era associata anche alla sua sostanziale inamovibilità propria dello statuto pubblicistico e alla mancanza di stimoli verso l’innovazione.

È già emerso che l’asse portante della c.d. privatizzazione è rappresentato dalla cesura tra i profili organizzativi, rimasti nell’egida del diritto pubblico e la disciplina del rapporto di lavoro, dotata di una sua autonomia e demandata al diritto privato [55]. Una demarcazione che si è progressivamente modificata con una sola macro-organizzazione lasciata al diritto pubblico e con la riconduzione di tutto ciò che sta a valle (micro-organizzazione, organizzazione del lavoro e rapporto di lavoro) sotto l’ala del diritto privato. In questo assetto si delinea una distinzione (non configurabile come contrapposizione in quanto conosce indubbi elementi di sintesi) tra l’esi­genza organizzativa finale dell’amministrazione (o detto in altri termini tra l’e­ser­cizio della funzione) e l’interesse dei lavoratori come prestatori di lavoro subordinato. Una situazione che si configura in termini apparentemente peculiari per i dirigenti in quanto anch’essi sono assunti con un contratto individuale, ma nello svolgimento dei loro compiti sono tenuti ad esercitare anche poteri pubblici. Di qui l’in­dubbia tensione tra la genesi contrattuale del rapporto di lavoro, da cui derivano obblighi e diritti sulla base di un atto di autonomia privata, e l’esercizio di poteri pubblicistici con cui si esprime l’agire dell’amministrazione per finalità di interesse pubblico. Ciò non toglie che sul piano del rapporto di lavoro il dirigente sia tenuto a svolgere i compiti assegnati alla stregua di ogni altro lavoratore subordinato nell’a­dempimento del contratto di lavoro. L’esercizio della funzione per il perseguimento dell’interesse pubblico generale si pone su un altro e distinto piano; l’interesse pubblico resta al di fuori della causa tipica del contratto fondata sul sinallagma lavoro / retribuzione e risulta mediato dall’attività e dai risultati e, dunque, dalla capacità manageriale di raggiungere gli obiettivi definiti nell’atto di indirizzo politico.

Ne deriva che sul versante del rapporto di lavoro e, dunque, ai fini della valutazione della prestazione resa, rilevante ai sensi dell’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001 anche in sede di conferimento e di revoca degli incarichi, ciò che assume rilievo è l’adempimento del contratto ed il raggiungimento degli obiettivi assegnati. Secondo il modello vigente la politica non può sindacare direttamente nel merito i singoli atti, ma solo rilevare eventuali violazioni normative.

Pare, dunque, evidente come la natura privatistica del rapporto di lavoro sia idonea a preservare l’autonomia della dirigenza, ed a sua volta l’imparzialità d’azione, non risultando necessario invocare l’applicabilità dello statuto pubblicistico che si configura quale mera garanzia del ruolo in senso statico. In definitiva sono da rigettare tutte le soluzioni che prospettano come possibile un ritorno allo statuto pubblicistico.

b) L’esercizio delle prerogative gestionali con la capacità del privato datore di lavoro si lega a doppio filo con il tema della valutazione delle capacità manageriali del dirigente. Secondo il modello delineato dal legislatore il dirigente ha il potere di organizzare l’ufficio di assegnazione ed il personale ivi impiegato. Si tratta dell’e­sercizio di poteri attribuiti in via originaria al dirigente e non delegati dall’organo politico, sì da potersi prospettare in astratto una completa omologazione rispetto al settore privato.

Senonché il lavoro pubblico confrontato con quello privato presenta una doppia specificità. La prima attiene al ruolo degli organi di indirizzo politico nell’esercizio dei compiti di c.d. macro-organizzazione e, per quel che più interessa in questa sede, nello svolgimento delle funzioni relative alla definizione della dotazione organica e alla connessa redazione del piano di fabbisogno triennale del personale. Si tratta di competenze proprie degli organi di vertice e rispetto alle quali alla dirigenza sono attribuiti meri compiti di proposta [56]. La dirigenza non ha, quindi, il potere di determinare direttamente l’organico ritenuto adeguato per l’attività dell’ufficio.

La seconda concerne l’esercizio concreto dei poteri datoriali, non solo soggetto a regole peculiari (si pensi alle speciali regole dell’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001 per l’attribuzione di mansioni superiori o quanto previsto dall’art. 45 del medesimo decreto delegato in tema di parità di trattamento ed ancor prima il vincolo concorsuale per l’assunzione o il passaggio di categoria), ma in molti casi anche indirizzato con la previa indicazione di comportamenti attesi (si pensi in questo caso all’attivazione dell’azione disciplinare ex art. 55 e ss. del D.Lgs. n. 165/2001). Una specificità che trova la propria giustificazione nell’esigenza di conformarsi ai precetti costituzionali e, segnatamente, ai principi di imparzialità e di buon andamento dettati dall’art. 97 della Carta Costituzionale.

Se il primo aspetto - ovvero le competenze attribuite agli organi di vertice in materia di definizione del fabbisogno di personale - risponde certamente ad una logica di sistema anche in termini di contenimento della spesa pubblica, senza dubbio maggiori perplessità destano gli ulteriori limiti e vincoli posti all’esercizio delle prerogative datoriali.

Se, da un lato, il dirigente esercita alcune rilevanti prerogative datoriali in “libertà vigilata” secondo quanto previsto da dettagliate previsioni normative, dall’altro lato, egli è tenuto a svolgere la propria attività in maniera efficiente, economica ed efficace con una continua tensione al risultato. Il che segna un evidente mutamento di paradigma rispetto ad un passato in cui se l’azione era “legale” era per definizione anche “efficiente”; oggi non è più così, il contesto è significativamente mutato. È indubbio che non può essere vero il contrario, ovvero che la scelta efficiente (economica ed efficace) sia per definizione anche legale. Parimenti il solo rispetto delle regole non è garanzia del raggiungimento degli obiettivi assegnati. Il tutto complicato da un sistema in cui la soluzione organizzativo/gestionale più efficiente non sempre può essere adottata perché se assunta contrasterebbe con precisi vincoli normativi. A titolo di esempio si pensi alla preclusione posta ad un dipendente professionalmente meritevole di poter partecipare ad un procedura concorsuale per una categoria superiore in assenza del prescritto titolo di studio. Se la promozione intuitu personae non sarebbe conforme ai precetti costituzionali per la violazione del principio dell’accesso per concorso di cui al terzo comma dell’art. 97 della Costituzione, la preclusione basata sul necessario possesso di un titolo di studio rappresenta un’indubbia rigidità (la cui genesi, peraltro, è da ricondurre a comportamenti non virtuosi di sostanziale scivolamento verso l’alto di tutto il personale in applicazione di criteri basati sulla sola anzianità di servizio). Ma si pensi ancora alle regole che governano le procedure concorsuali le quali, a prescindere da eventuali comportamenti patologici, non sono oggi strutturate in maniera tale da far emergere le vere attitudini, conoscenze e capacità del singolo. Infine si consideri l’obbligo di addivenire necessariamente a valutazioni differenziate del personale anche ove ciò risulti oggettivamente difficile, con conseguente evidenza di svantaggi gestionali rispetto a possibili vantaggi.

Tuttavia anche in presenza dei richiamati vincoli in larga misura dettati dall’esi­genza di conformarsi a principi costituzionali sussistono ampi ambiti per l’esercizio autonomo delle prerogative dirigenziali. Gli ostacoli paiono essere di due ordini e non di natura strettamente giuridica. Il primo è che a distanza di venticinque anni dall’avvio del processo di “privatizzazione” vi sono ancora forti sacche di resistenza nella stessa dirigenza nel comprendere la reale estensione del potere gestionale assegnato, emergendo molte volte logiche adempitive e non propositive. L’eseguire anziché il proporre viene sentito e vissuto come più sicuro del corretto adempiere. Il secondo ordine di problemi, strettamente legato al primo, e che costituisce la ragione di una certa ritrosia della dirigenza ad esercitare fino in fondo le prerogative datoriali, attiene alla significativa responsabilizzazione cui essa è soggetta e che porta a sanzionare con rigore ogni errore dalla stessa compiuto, a prescindere dal fatto che sia più o meno grave o che sia espressione di attività vincolata o discrezionale. Il che fa si che con riguardo al binomio autonomia/responsabilità si percepisca la seconda e non la prima.

Due esempi possono essere d’aiuto. Il primo attiene all’accertamento in sede giudiziale dell’illegittimità di un atto gestionale in ragione di una differente valutazione di merito circa la sussistenza dei presupposti per la sua adozione. Tale decisione giudiziale l’illegittimità nei fatti assume per il dirigente rilievo non solo ai fini della valutazione della sua performance, ma con ogni probabilità anche sul piano di una possibile responsabilità erariale attese le maglie larghe con cui viene configurata dal giudice contabile la sussistenza della colpa grave. Il secondo concerne il versante delle relazioni sindacali e, in particolare, la sottoscrizione di un contratto integrativo di cui si contesta la legittimità [57]. La questione di solito concerne la definizione dei criteri per la distribuzione della produttività e delle altre indennità o la determinazione delle regole per le progressioni economiche.

È certamente noto il rigore interpretativo della giurisprudenza contabile non sempre pronta ad attribuire il congruo rilievo alle specificità delle relazioni sindacali; ed in particolare a considerare la circostanza che in molti casi i contratti rappresentano l’esito di lunghi e faticosi negoziati volti ad individuare una soluzione di compromesso in applicazione di disposizioni non sempre chiare o che lo divengono solo in ragione di successivi interventi interpretativi. Ravvisare in questi casi quasi sempre comportamenti responsabili degli agenti negoziali pubblici, a fronte della nota sostanziale irresponsabilità giuridica delle organizzazioni sindacali, il cui apporto causale nella definizione di una previsione censurata assume rilievo ai soli fini dell’esercizio del potere di riduzione del danno risarcibile, reca l’evidente rischio di disincentivare qualsivoglia costruttivo negoziato.

Il discorso può essere certamente esteso ai casi nei quali il sindacato giudiziale riguarda una scelta discrezionale assunta nell’esercizio di poteri pubblicistici e che porta a ravvisare una responsabilità del dirigente agente in ragione di una diversa valutazione della situazione concreta [58].

La conseguenza di quanto appena evidenziato è una dirigenza non incentivata ad assumere iniziative gestionali virtuose qualora appaiono innovative ed in discontinuità con l’esistente. Si è così nella sostanza affermato un sistema in cui prevale una rigorosa razionalità manageriale ove l’azione del dirigente è nella sostanza diretta dall’esterno, veicolata secondo logiche gestionali di continuità rispetto al passato, ed in cui il binomio virtuoso autonomia/responsabilità vede compressa la prima ed ampliata la seconda. Il risultato è di una scarsa attenzione all’efficienza e all’effi­ca­cia che rimangono solo sulla carta ed in cui la sola economicità offre, in apparenza, riscontri tangibili. Al fine di superare la situazione che si è venuta a creare sarebbe forse opportuno acquisire la consapevolezza di una certa fisiologicità della possibilità di errore, non necessariamente qualificabile come grave inadempimento e/o violazione di rilievo anche erariale.

In stretta correlazione con quanto fin qui evidenziato deve essere considerato anche l’incremento degli incombenti in materia di trasparenza ed anticorruzione cui sono tenuti i pubblici dipendenti, primi fra tutti i dirigenti. Si tratta di adempimenti che non hanno una valenza burocratica, ma che, tuttavia, tendono ad essere considerati tali, sì da farne perdere di vista il valore aggiunto e la finalità intrinseca. Tale sensazione deriva anche dall’essere chiare le responsabilità nel caso di inerzia, mentre meno chiari appaiono i vantaggi sottesi al puntuale adempimento. L’idea di essere in presenza di un mero aggravio di compiti troverebbe ulteriore conferma nel dover essere adempiuti ad invarianza di spesa, ossia senza l’utilizzo di risorse aggiuntive. L’incremento dei compiti si è affiancata ad una contrazione del personale tale da far cogliere una riaffermazione della prevalenza del principio di legalità e un’at­tenzione alla sola economicità.

È indubbio che si imponga un necessario cambio di rotta funzionale al rafforzamento della spinta manageriale della dirigenza. In questa logica si suggeriscono due riflessioni.

La prima è una sfida nuova che si sviluppa sull’asse trasparenza - allentamento dei vincoli di spesa e, più in generale, verso un ripensamento dell’orientamento per cui il binomio pubblicità e riduzione della spesa rappresentino i parametri per la garanzia dell’imparzialità e del buon andamento. Ferma l’indubbia importanza dei principi dettati in materia di trasparenza è però del pari indubbio che a medio - lungo termine una economicità possa conseguire anche da una spesa iniziale più elevata (che può in ipotesi derivare anche da un incremento di organico). Questa seconda considerazione, per alcuni forse troppo banale, ma non per questo non meritevole di attenzione, riguarda tutti gli ambiti dell’agire della pubblica amministrazione e non solo la gestione del personale. Si deve cioè procedere nel senso di affermare che la “trasparenza”, anche con una modificazione in senso più selettivo, ma più completo, dei dati da pubblicare, possa essere una garanzia di scelte congrue ed economiche nello svolgimento dell’attività amministrativa e di gestione delle risorse umane ed idonea a far emergere i profili di illegittimità. In tale prospettiva è necessaria la modifica delle disposizioni che configurano quale forma di responsabilità dirigenziale la mancata osservanza degli obblighi di pubblicazione, nonché la violazione dei termini previsti in materia di procedimento amministrativo, atteso che detti inadempimenti assumono una valenza intrinsecamente disciplinare.

In diretta connessione vi è l’esigenza di un ripensamento dei parametri della valutazione e delle regole in materia di responsabilità gestionale della dirigenza. Sul piano della valutazione occorre implementare il percorso ripreso dal D.Lgs. n. 74/2017, ovvero porre al centro non solo l’analisi del che cosa è stato fatto, ma anche del come è stato fatto. Ed in questa logica occorre avere ben chiara la differenza esistente tra obiettivi e competenza, la prima rilevante sul piano del risultato, la seconda prevalentemente su quello del rendimento.

9. Riflessioni conclusive

Al termine del percorso ricostruttivo compiuto emerge senza dubbio un quadro ben diverso da quello prefigurato dal riformatore degli anni ’90 del secolo scorso. La dirigenza era stata posto al centro della riforma, quale punta di diamante del rinnovamento delle pubbliche amministrazioni; una dirigenza che prometteva una maggiore competenza e managerialità ed un minor legame con la politica. Lo sviluppo, come emerso anche da questa pagine, è stato ben diverso. La politica non ha perso il timone di comando delle amministrazioni, non limitandosi, il più delle volte, a fornire meri atti di indirizzo, ma entrando nelle singole scelte per alimentare il proprio consenso; una dirigenza, ma più in generale tutti i dipendenti posti in posizione di responsabilità, più attenti al legalismo formale che al risultato, secondo un comportamento che può essere definito di “burocrazia difensiva”. Una dirigenza che quale datore di lavoro non è mai riuscita a connotarsi fino in fondo come tale, emblematico della difficoltà di introdurre una cultura aziendalistica nella pubblica amministrazione, anche per le specificità del sistema di relazioni sindacali ove tra dirigenza ed organizzazioni sindacali non si configura una netta contrapposizione, ma neppure una identità di obiettivi. Ma soprattutto per la difficoltà di introdurre la cultura della programmazione e della valutazione, aspetti senza dubbio portanti, ma rispetto ai quali gli attori tutti hanno manifestato una resistenza passiva.

La dirigenza molte volte è stata utilizzata come il capro espiatorio di difetti ed inefficienza le cui responsabilità ricadevano in prevalenza su altri. È fin troppo evidente che il tema della dirigenza non può essere disgiunto da una riflessione di più ampia portata.

In questo senso le soluzioni possibili paiono due, talmente diverse tra loro, da risultare con tutta evidenza inconciliabili. La prima, minimale, attiene ad un semplice restayling dell’esistente, al fine di superare alcune aporie normative e di rendere effettive le condizioni per l’attuazione delle riforme. E per quanto riguarda nello specifico la dirigenza, alla presenza di idonee garanzie riferite alla fase di conferimento dell’incarico ed a quella della sua cessazione, non se ne affiancano di sufficienti per quanto concerne la fase di svolgimento del rapporto. Il ritardo nella assegnazione degli obiettivi e le carenze dei sistemi di valutazione rappresentano senza dubbio i punti di maggiore criticità per una effettiva garanzia di autonomia della dirigenza.

Oppure, al contrario, la scommessa è molto più radicale e si dirige nel senso di operare una netta distinzione tra le amministrazioni di servizio alla politica (c.d. amministrazioni di puissance) e amministrazioni di servizio alla collettività, come tali connotate da alcune evidenti similitudini con i soggetti privati erogatori dei medesimi servizi. Tuttavia, ed è bene ricordarlo, occorre parlare di similitudine e non di identità attesa la diversa “funzione sociale” degli enti pubblici rispetto agli enti privati. Ciò però non impedisce di acquisire anche nel pubblico alcune regole organizzative e gestionali proprie del privato secondo una logica virtuosa volta a rendere sempre migliori (e non banalmente competitivi) i settori pubblici e privati.

La speranza è che il protagonismo normativo ceda il passo ad analisi ponderate che riescano a vedere al di là della contingenza del momento con l’umiltà di volgere lo sguardo anche al passato per recuperare esperienze ed idee utili per il futuro. Solo in questo modo si potrà aprire una costruttiva stagione nuova di cui si sente la necessità.



[1] Cfr. per una ricostruzione in termini critici del processo che ha portato alla contrattualizzazione del pubblico impiego, v., in particolare, F. Carinci, Una riforma “conclusa”. Fra norma scritta e pras­si applicativa, in F. Carinci-L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, vol. V, Torino, 2004, XLIII ss.

[2] Sui contenuti del d.P.R. n. 748/1972, Colapietro, voce Dirigenti pubblici, in DDPubbl., vol. V, Torino, 1990, 119; Raimondi, voce Dirigenza, in EGT, vol. XI, Roma, 1989.

[3] Sulle novità introdotte dalle legge n. 145/2002 v. Corpaci, Riflessioni sulla dirigenza pubblica alla luce della l. n. 145 del 2002, in questa Rivista, 2002, 859; Colapietro, La «controriforma» del rapporto di lavoro della dirigenza pubblica (l. 15 luglio 2002, n. 145), in NLCC, 2002, p. 639; D’Orta, Gli incarichi dirigenziali nello stato dopo la l. 145/2002, in questa Rivista, 2002, 929.

[4] Sulla riforma Brunetta, senza pretesa di esaustività, v. AA.VV., La terza riforma del lavoro nelle Pubbliche amministrazioni, parti I-II-III, in questa Rivista rispettivamente: 2008, 949 ss.; 2009, 1 ss. e 2009, 469 ss.; L. Zoppoli (a cura di), Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, Napoli, 2009; AA.VV., La riforma “Brunetta” del lavoro pubblico, in GDA, 2010, p. 1 ss.; Persiani (a cura di), La nuova disciplina della dirigenza pubblica, in GI, 2010, I, 2697 ss.; AA.VV., Il pubblico impiego dopo la riforma del 2009, in RGL, 2010, I, 447 ss.; F. Carinci-Mainardi (a cura di), La terza riforma del lavoro pubblico, Milano, 2011; Napoli-Garilli (a cura di), La terza riforma del lavoro pubblico tra aziendalismo e autoritarismo, Padova, 2013.

[5] Sui contenuti della legge delega n. 124/2015 v. AA.VV., La riforma del lavoro pubblico, in RGL, 2015, I, 473 ss.; AA.VV., La riforma della pubblica amministrazione, in GDA, 2015, 621 ss.; Battini, Al servizio della Nazione? Verso un nuovo modello di disciplina della dirigenza e del personale pubblico, Relazione presentata al convegno di Varenna - 23 settembre 2016.

[6] Come evidenziato dalle “Linee guida per il Sistema di misurazione e valutazione della performance dei Ministeri” redatte dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento della Funzione Pubblica. Ufficio per la valutazione della performance del dicembre 2017 la fase di misurazione serve a quantificare i risultati raggiunti dall’amministrazione nel suo complesso, i contributi delle articolazioni organizzative e dei gruppi (performance organizzativa) e i contributi individuali (performance individuali), mentre la valutazione formula un “giudizio” complessivo sulla performance, cercando di comprendere i fattori (interni ed esterni) che possono aver influito positivamente o negativamente sul grado di raggiungimento degli obiettivi medesimi, anche al fine di apprendere per migliorare nell’anno successivo.

[7] Come ha rilevato D’Auria, La tormentata riforma della dirigenza pubblica, in questa Rivista, 2001, 20, l’elemento di specialità del rapporto di lavoro del dirigente pubblico di ruolo è dato dalla convivenza nel corso del rapporto di un contratto di lavoro a tempo indeterminato ed una serie di incarichi a termine.

[8] La giurisprudenza è univoca nel riconoscere natura privatistica all’atto di conferimento dell’incari­co dirigenziale: v., dopo l’affermazione della natura privatistica dell’atto di conferimento da parte di Cass. 20 marzo 2004, n. 5659, in questa Rivista, 2004, 153 ss. (i principi contenuti in tale decisione erano stati anticipati da Corte di Cassazione - Consiglio di Stato, Relazione di sintesi dei lavori della Commissione di studio istituita dai presidenti della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato per l’approfondimento dei problemi di maggiore rilievo in tema di riparto di giurisdizione, in FI, 2004, V, 38), nello stesso senso, tra le molte, Cass., S.U., 9 dicembre 2004, n. 22990, in GC, 2005, I, 1392; Cass., S.U., 5 luglio 2005, n. 14252, in FI, 2006, I, 1487; Cass. 14 aprile 2008, n. 9814, in GC, 2008, I, p. 3046; Cass. 26 novembre 2008, n. 28274, in GC, 2009, I, 2850; Cass. 30 settembre 2009, n. 20979, in GC, 2010, I, 2350; Cass. 30 dicembre 2009, n. 27888; Cass. 12 ottobre 2010, n. 21088, in FI, 2011, I, 804; Cass. 26 settembre 2011, n. 19630, in GC, 2012, I, 1337; Cass. 4 aprile 2012, n. 5369; Cass. 26 marzo 2014, n. 7107; Cass. 24 settembre 2015, n. 18972; Cass. 10 novembre 2017, n. 26694. In senso diverso Cass. pen., sez. VI, 2 aprile 2009, n. 19135.

[9] Così espressamente Gardini, La dirigenza pubblica in cerca di identità. Riflessioni alla luce di una riforma interrotta, in Dpub, 2017, 155.

[10] La Commissione speciale del Consiglio di Stato con il parere 14 ottobre 2016, n. 2113 invitava il Governo ad elaborare precise regole volte ad assicurare, secondo la sintesi fornitane dallo stesso Consiglio: oggettività e trasparenza nelle procedure e nei criteri di scelta del dirigente, così da valorizzare le specifiche professionalità e competenze acquisite nell’ambito dei molteplici settori in cui le pubbliche amministrazioni operano; una durata ragionevole dell’incarico che, evitando incertezze sul regime del rapporto di lavoro, consenta al dirigente di perseguire, con continuità, gli obiettivi posti dall’organo di indirizzo politico, consolidando l’autonomia tecnica propria del dirigente stesso, ed evitando i pericoli di una autoreferenzialità che mal si concilia con la responsabilità dell’autorità politica di fissare obiettivi; modalità di cessazione degli incarichi soltanto a seguito della scadenza del termine di durata degli stessi, ovvero per il rigoroso accertamento della responsabilità dirigenziale. Ma soprattutto - e questa può essere individuata come la maggiore criticità ravvisata - il Consiglio di Stato sottolineava la mancata previsione, per esserne priva la stessa legge delega, di nuovi sistemi di valutazione della dirigenza e di principi per la fissazione degli obiettivi da parte degli organi politici, considerati come due punti in grado di compromettere l’impianto della riforma.

[11] Per un’analitica ricostruzione e commenti dei contenuti dello schema di decreto delegato v. AA.VV., La Dirigenza pubblica nella Riforma Madia, in questa Rivista, 2016, 3 ss.

[12] In ragione dell’unificazione delle due fasce si prevedeva che i contratti collettivi avrebbero attuato la graduale convergenza del trattamento fondamentale di tutti i dirigenti iscritti ai ruoli della dirigenza, utilizzando le conseguenti economie per incrementare il trattamento economico correlato all’incarico.

[13] Il decreto delegato prevedeva, altresì, la possibilità per le amministrazioni di conferire gli incarichi ai dirigenti appartenenti a ciascuno dei tre ruoli; imponeva di definire, per ciascun incarico, i requisiti in termini di competenze ed esperienze professionali; di attivare per l’attribuzione degli incarichi una procedura comparativa con avviso pubblico sulla base di requisiti e criteri definiti dall’Ammi­ni­strazione, in base a criteri generali definiti dalle Commissioni per la dirigenza Statale; di assegnare in ogni caso rilevanza alle attitudini e alle competenze del singolo dirigente, ai precedenti incarichi e alla relativa valutazione, alle specifiche competenze organizzative possedute, nonché alle esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero nel privato o nel settore pubblico, purché attinenti all’in­ca­rico da conferire.

[14] Con riguardo alla responsabilità dirigenziale il decreto delegato prevedeva l’integrazione dell’art. 21 del D.Lgs. n. 165/2001 introducendo ulteriori ipotesi di mancato raggiungimento degli obiettivi.

[15] Corte cost. 25 novembre 2016, n. 251. Tra i molti commenti specifici, senza alcuna pretesa di esaustività, v. Battini Cambiamento amministrativo, cambiamento giurisprudenziale, cambiamento costituzionale. Brevi note sulla sentenza n. 251 del 2016 della Corte costituzionale, in DLM, 2017, 121; Alaimo, La “Riforma Madia” al vaglio della Corte costituzionale. Leale collaborazione e intese possono salvare la riforma della pubblica amministrazione, in DLM, 2017, p. 145; B.G. Mattarella, Delega legislativa e principio di leale collaborazione, in GDA, 2017, 179; G. D’Auria, Sull’incostitu­zionalità di alcune deleghe legislative ‘ex’ l. 124/15 per la riforma della pubblica amministrazione, in FI, 2017, I, 451; Amoroso, Legge di delega e principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, in FI, 2017, I, 471; Bifulco, L’onda lunga della sentenza 251/2016 della Corte costituzionale, in www.federalismi.it, 2017, n. 3; Balboni, La Corte richiede e tutela la leale collaborazione tra Stato e Regioni ... e l’intendenza seguirà, in www.forumcostituzionale.it, 2017; Sterpa, Sentenza n. 251/2016: può la Corte costituzionale ampliare il contenuto necessario della legge di delega ex art. 76 Cost.?, in federalismi.it, 2017, n. 10; Agosta, Nel segno della continuità (più che della vera e propria svolta) l’a­pertura alla leale collaborazione tra Stato e Regioni della sent. n. 251/2016 sulla delega in materia di riorganizzazione della pubblica amministrazione, in www.forumcostituzionale.it, 2017; D’Amico, Il seguito della sentenza. n. 251/2016 della Corte costituzionale fra “suggerimenti”, “correzioni” e nuove impugnative, in GDA, 2017, 287; Martire, Brevi note alla sentenza n. 251 del 2016 della Corte Costituzionale, in Dpub, 2017, 195 ss.

[16] La Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2, della legge 7 agosto 2015, n. 124, nella parte in cui prevede che i decreti legislativi attuativi siano adottati previa acquisizione del parere reso in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni.

[17] Analogamente è stato lasciato scadere il termine di delega per il decreto delegato di riforma dei servizi pubblici locali, mentre per i tre decreti già approvati (D.Lgs. n. 116/2016 in materia di licenziamento disciplinare su cui Mainardi, Il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza in servizio, in GDA, 2016, 585 ss.; Corso, Sostanza ed apparenza nel contrasto all’assenteismo fraudolento nei luoghi di lavoro (D.Lgs 20 giugno 2016, n. 116), in RIDL, 2017, I, 77 ss.; D.Lgs. n. 171/2016 in materia di dirigenza sanitaria su cui Pioggia, Le nomine dei vertici della sanità, in GDA, 2016, 733 ss.; D.Lgs. n. 175/2016 relativo alle società a partecipazione pubblica) la scelta - in seguito avallata anche dal Consiglio di Stato (v. Commissione Speciale del Consiglio di Stato 17 gennaio 2017, n. 83) è stata quella di procedere acquisendo l’intesa con la Conferenza Unificata e i pareri delle competenti Commissioni parlamentari.

[18] I punti qualificanti di tale intesa sono così sintetizzabili: a) un nuovo sistema di relazioni sindacali che impegna il governo a promuovere un intervento legislativo a favore della contrattazione al fine di ripristinare un giusto equilibrio tra legge e contratto; b) la definizione in sede contrattuale di criteri e regole su valutazione e valorizzazione professionale del personale di tutte le pubbliche amministrazioni; c) un aumento stipendiale non inferiore a 85 euro medi mensili nel triennio 2016-2018; d) la previsione di specifiche disposizioni finalizzate a ampliare i margini di autonomia della contrattazione integrativa; e) il rinnovo dei contratti a termine in scadenza e introduzione di apposite norme per superare il lavoro precario disciplinato dalla legge di riforma della pubblica amministrazione; f) l’estensione del welfare integrativo.

[19] Con riferimento al D.Lgs. n. 116/2016 è stato adottato il D.Lgs. n. 118/2017 (le previsioni sono inserite nel corpo dell’art. 55-quater del D.Lgs. n. 165/2001); con riferimento al D.Lgs. n. 171/2016 è stato emanato il D.Lgs. n. 126/2017, su cui Monaco, La dirigenza sanitaria: il “correttivo” rende effettiva la riforma, GDA, 2017, 699 ss. Con riguardo alla dirigenza sanitaria deve essere considerata anche la legge 8 marzo 2017, n. 24 recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” che contiene anche alcune disposizioni direttamente incidenti sul rapporto di lavoro.

[20] Per un commento complessivo delle novità introdotte dal D.Lgs. n. 74/2017 v. Ruffini, Il sistema di misurazione e valutazione delle performance. Le modifiche al d.lgs. n. 150/2009, in Bianco-Bo­sca­ti-Ruffini, La riforma del pubblico impiego e della valutazione, Rimini, 2017, 145 ss.; v. anche D’Al­terio, Il lungo cammino della valutazione nelle pubbliche amministrazioni, in GDA, 2017, 570.

[21] Il comma 5-bis aggiunge prevede che la valutazione negativa rilevi anche ai fini “dell’irrogazione del licenziamento disciplinare ai sensi dell’articolo 55-quater, comma 1, lettera f-quinquies)”. Tale norma si riferisce all’“insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio, resa a tali specifici fini ai sensi dell’articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2009”. Si condivide la considerazione critica di chi si interroga quanto i sistemi di valutazione a carattere premiale possano essere utili anche a fini disciplinari (così Ruffini, Il sistema di misurazione e valutazione delle performance. Le modifiche al d.lgs. n. 150/2009, cit., 151), cui deve aggiungersi la difficoltà di coniugare istituti (scarso rendimento e valutazione negativa della performance) che non hanno ad oggetto profili del tutto omogenei tra loro.

[22] Così anche Ruffini, Il sistema di misurazione e valutazione delle performance. Le modifiche al d.lgs. n. 150/2009, cit., 150 il quale si chiede se obiettivi ed indicatori superficiali rappresentino un mancato rispetto della norma.

[23] L’art. 16, comma 1, lett. b) attribuisce ai dirigenti generali l’esercizio del c.d. indirizzo sub-primario [così D’Orta, Sub artt. 16-17, in NLCC, 1999, 1148, e Talamo, Le funzioni, le competenze, i poteri e le attribuzioni della dirigenza pubblica, in F. Carinci-L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Diritto del lavoro. Commentario diretto da F. Carinci, vol. V., Torino, 2004, 1127] prevedendo che essi curano l’attuazione dei piani, programmi e direttive generali definite dal Ministro ed attribuiscono ai dirigenti gli incarichi e la responsabilità di specifici progetti e gestioni, definendo gli obiettivi che i dirigenti devono perseguire e attribuendo loro le conseguenti risorse umane, finanziarie e materiali.

[24] Non è stato, invece, modificato il secondo comma dell’art. 9 secondo cui la misurazione e la valutazione svolte dai dirigenti sulla performance individuale del personale sono effettuate sulla base del sistema di misurazione e di valutazione della performance di cui all’articolo 7 e collegate al raggiungimento di specifici obiettivi di gruppo o individuali, nonché alla qualità del contributo assicurato alla performance dell’unità organizzativa di appartenenza, alle competenze dimostrate ed ai comportamenti professionali e organizzativi.

[25] Dal D.L. n. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014 è scaturito il d.P.R. n. 105/2016 che regola il ruolo del Dipartimento della Funzione Pubblica nel coordinamento del sistema della perfomance, in precedenza assegnato alla Civit e poi assunto dall’Anac.

[26] Secondo quanto prevedono gli artt. 7, comma 2, lett. a) e 14, comma 4, lett. e), D.Lgs. n. 150/2009 agli organismi indipendenti di valutazione compete la proposta di valutazione annuale dei di­rigenti; mentre nulla si dice per quanto concerne i dirigenti di base. In merito la delibera Civit n. 89/2010 ha affermato che ai dirigenti di livello generale compete la misurazione e la valutazione della performance individuale dei dirigenti di livello non generale e del personale responsabile di una unità organizzativa in posizione di autonomia e responsabilità.

[27] La disposizione poi prosegue prevedendo che la contrattazione collettiva “fissa criteri idonei a garantire che alla significativa differenziazione dei giudizi di cui all’articolo 9, comma 1, lettera d), corrisponda un’effettiva diversificazione dei trattamenti economici correlati” che, da un lato, segna il superamento delle griglie fissate dal previgente art. 19 e, dall’altro lato, sottolinea la necessità di una differenziazione retributiva attribuendo la relativa competenza alla fonte negoziale. Il secondo comma prevede poi che “Per i dirigenti, il criterio di attribuzione dei premi di cui al comma 1 è applicato con riferimento alla retribuzione di risultato”.

[28] Il contratto collettivo del comparto Funzioni Centrali periodo 2016-2018 sottoscritto in via definitiva il 12 febbraio 2018 si limita a prevedere le destinazioni delle risorse disponibili per la contrattazione integrativa, disponendo che la contrattazione integrativa destina ai “premi e trattamenti economici correlati alla performance organizzativa”, ai “premi e trattamenti economici correlati alla performance individuale” e alle “indennità correlate alle condizioni di lavoro” (obiettive situazioni di disagio, rischio, turnazioni, particolari o gravose articolazione dell’orario di lavoro, reperibilità) la parte prevalente delle risorse variabili del fondo e. specificamente alla perfomance individuale almeno il 30% di tali risorse; ed aggiunge che una quota non inferiore al 20% delle risorse destinate ai premi e ai trattamenti economici correlati alla perfomance organizzativa ed individuale deve essere riservata alla contrattazione di sede (cfr. art. 77, commi 3 e 4).

[29] Commissione speciale del Consiglio di Stato 21 aprile 2017, n. 917.

[30] In merito alla struttura della retribuzione del dirigente pubblico, v. Zilio Grandi, Il trattamento economico dei dirigenti tra riduzione della spesa e aumento della produttività delle pubbliche amministrazioni, in QDLRI, 2009, 31, 209 ss.; sia consentito rinviare anche a Boscati, Responsabilità dirigenziale, trattamento economico, in F. Carinci- Mainardi (a cura di), La terza riforma del lavoro pubblico, Milano, 2011, 246 ss.

[31] Per una rassegna dei contenuti del D.Lgs. n. 75/2017, v. Magri, Il lavoro pubblico tra sviluppo ed eclissi della “privatizzazione”, in GDA, 2017, 581.

[32] Per un’analisi approfondita delle modifiche introdotte dalla legge Brunetta in materia di forme di partecipazione sindacale v. Talamo, La riforma del sistema di relazioni sindacali nel lavoro pubblico, in GDA, 2010, 14 s.; Garilli-Bellavista, Riregolazione legale e decontrattualizzazione: la neoibridazione normativa del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in questa Rivista, 2010, 1 ss.; Corpaci, Regime giuridico e fonti di disciplina dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in RGL, 2010, I, 467 ss., sp. 476 s.

[33] Restano escluse dalla contrattazione collettiva: l’organizzazione degli uffici; le materie oggetto di partecipazione sindacale; le materie afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli artt. 5, comma 2, 16 e 17, D.Lgs. n. 165/2001; il conferimento e la revoca degli incarichi; le materie di cui all’articolo 2, comma 1, lett. c), legge n. 421/1992; la contrattazione collettiva è, invece, consentita nei limiti prevista dalle norme di legge nelle materie relative alle sanzioni disciplinari; alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio; della mobilità (rispetto alla disciplina previgente è espunto il riferimento alle progressioni economiche).

[34] Si vedano in questo numero per più approfondite riflessioni i saggi di Sandro Mainardi e Maurizio Ricci.

[35] In merito il contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del comparto Funzioni centrali per il periodo 2016-2018 all’art. 8 prevede per una serie di materie demandate alla contrattazione integrativa (non di contenuto strettamente economico) che “qualora, decorsi trenta giorni dall’inizio delle trattative, eventualmente prorogabili fino ad un massimo di ulteriori trenta giorni, non si sia raggiunto l’accordo, le parti riassumono le rispettive prerogative e libertà di iniziativa e decisione”.

[36] In merito il contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del comparto Funzioni centrali per il periodo 2016-2018 all’art. 3 dopo aver affermato che “la partecipazione è finalizzata ad instaurare forme costruttive di dialogo tra le parti, su atti e decisioni di valenza generale delle amministrazioni, in materia di organizzazione o aventi riflessi sul rapporto di lavoro ovvero a garantire adeguati diritti di informazione sugli stessi”, prevede che essa si articoli nella informazione, nel confronto e negli organismi paritetici di partecipazione (poi disciplinato in uno specifico articolo come “Organismo paritetico per l’innovazione”). In particolare il confronto, istituto nominalmente nuovo rispetto alle già conosciute forme di consultazione, esame congiunto e concertazione, è definito come “la modalità attraverso la quale si instaura un dialogo approfondito sulle materie rimesse a tale livello di relazione, al fine di consentire ai soggetti sindacali ... di esprimere valutazioni esaustive e di partecipare costruttivamente alla definizione delle misure che l’amministrazione intende adottare”.

[37] Con riguardo alla disciplina dettata dalla Riforma Brunetta, v. Mainardi-Lima, Il procedimento disciplinare e i rapporti con il procedimento penale, in F. Carinci-Mainardi (a cura di), La terza riforma del lavoro pubblico, Milano, 2011, 493 ss.; B.G. Mattarella, La responsabilità disciplinare, in GDA, 2010, 34 ss.; Borgogelli, La responsabilità disciplinare del dipendente pubblico, in L. Zoppoli (a cura di), Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, Napoli, 2009, 423; Mainardi, Profili della responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici, in RGL, 2010, I, sp. 623 ss.; Tenore, Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego dopo la riforma Brunetta, Milano, 2010; Lostorto, Il nuovo procedimento disciplinare, in Tiraboschi- Verbaro (a cura di), La nuova riforma del lavoro pubblico, Milano, 2010, 483 s.; Voza, Fondamento e fonti del potere disciplinare nel lavoro pubblico, in questa Rivista, 2011, 663; e successivamente con riferimento alla disciplina introdotta dalla Riforma Madia v. Tenore, Studio sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego, Milano, 2017 e sia consentito anche Boscati, Potere disciplinare in Bianco-Boscati-Ruffini, La riforma del pubblico impiego e della valutazione, cit., 79 ss.

[38] In merito, da ultimo, v. per tutti, M. Martone, La riforma della riforma. Il licenziamento illegittimo e la reintegrazione del pubblico dipendente tra contrasti dottrinali, incertezze giurisprudenziali e modifiche legislative, in ADL, 2017, 366 ss. e sempre M. Martone, Ancora sulla reintegrazione nel pubblico impiego a seguito della riforma madia, in ADL, 2017, 655 ss.

[39] Il nuovo comma 2-bis dell’art. 63 prevede ancora che “Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità il giudice può rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato”.

[40] V. Corte cost., 25 luglio 1996, n. 313 (in RIDL, 1997, II, 36, con nota di Gragnoli, Imparzialità del dipendente pubblico e privatizzazione del rapporto) ove si è affermato che “l’appli­cabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile comporta non già che la pubblica amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma semplicemente che la valutazione dell’idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo - assistite da un’ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio -, a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso”.

[41] Consiglio di Stato, sez. II, n. 1661/2003, ha affermato che, ai sensi dell’art. 4, D.Lgs. n. 165/2001, “rimangono attratte nella sfera dell’organo di governo politico le attività che involgono l’esercizio della c.d. puissance publique, per tale intendendosi non tutte le attività di imperio, ma solo quelle inerenti ai fondamentali interessi dello Stato-apparato e dello Stato-ordinamento, nonché quelle di discrezionalità politica, per tale intendendosi quelle libere nella valutazione degli interessi da soddisfare e tutelare e nelle relative determinazioni finalistiche o strumentali”.

[42] Sul tema anche per la ricostruzione storica v. Borgogelli, Modelli organizzativi e tutele dei lavoratori nei servizi di interesse pubblico, testo disponibile su www.aidlass.it; v. anche Giaconi, Il lavoro nella pubblica amministrazione partecipata da privati, in GDLRI, 2017, 523 ss.

[43] In merito v. criticamente Santucci, La valutazione dei dirigenti, in questa Rivista, 2016, sp. 86 ss.

[44] V. Cass. 14 aprile 2008, n. 9814 ove si è affermato che l’amministrazione è tenuta ad applicare i criteri dettati dal comma 1 dell’art. 19 anche per il tramite delle clausole di correttezza e buona fede, riferibili all’attività di diritto privato alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., sì da desumere l’esistenza di una necessaria procedimentalizzazione dell’esercizio del potere di conferimento dell’incarico, ravvisando un obbligo per l’amministrazione di procedere a valutazioni anche comparative, di consentire forme adeguate di partecipazione dei dirigenti alla procedura, di esternare le ragioni giustificatrici delle scelte.

[45] Così espressamente Gardini, La dirigenza pubblica in cerca di identità. Riflessioni alla luce di una riforma interrotta, in DP, 2017, 162.

[46] In termini anche Mezzacapo, Dirigenza pubblica e tecniche di tutela, Napoli, 2010, 131 s. e 257; D’Auria, Il nuovo sistema delle fonti: legge e contratto collettivo, Stato e autonomie territoriali, in GDA, 2010, 11.

[47] In merito alla necessità di una procedura comparativa la giurisprudenza di Cassazione successiva a Cass. 14 aprile 2008, n. 9814 (su cui retro nota 44) si esprime in termini ambivalenti. Infatti se alcune pronunce paiono porre al centro la comparazione (Cass. 10 novembre 2017, n. 26694 “Tali norme ... obbligano la pubblica amministrazione a valutazioni comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte”), altre si e­sprimono in termini senza dubbio meno netti con la semplice aggiunta della congiunzione “anche” che depotenzia senza ombra di dubbio la portata della valutazione comparativa (Cass. 24 settembre 2015, n. 18972: “tali norme obbligano la P.A. a valutazioni anche comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte”; ma già Cass. 14 aprile 2015, n. 7495; Cass. 12 ottobre 2010, n. 21088.

[48] Cfr. Cass. 22 febbraio 2017, n. 4621 secondo cui alla qualifica dirigenziale corrisponde solo l’at­ti­tudine professionale all’assunzione di incarichi dirigenziali; Cass. 20 giugno 2016, n. 12678 ove si afferma che la pubblica amministrazione non può lasciare immotivatamente il dirigente pubblico senza incarichi dirigenziali.

[49] Cass. 23 settembre 2013, n. 21700; Cass. 14 aprile 2015, n. 7495; Cass. 24 settembre 2015, n. 180972; Cass. 10 novembre 2017, n. 26694.

[50] Cfr. Cass. 26 novembre 2008, n. 28274, in GC, 2009, I, p. 2850.

[51] Cfr., tra le altre, Cass. 3 novembre 2006, n. 23549, in FI, 2007, I, 1806 secondo cui il giudice ordinario può emettere una pronuncia costitutiva del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato solo ove si tratti di attività vincolata e non discrezionale.

[52] Cfr. Cass. 3 novembre 2006, n. 23549; Cass. 14 settembre 2005, n. 18198.

[53]  Rusciano, “Contro la privatizzazione dell’alta dirigenza pubblica”, in DLM, 2005, 621 ss.; Bordogna, Per una maggiore autonomia dell’alta dirigenza pubblica: una proposta, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT - 92/2009, sp. 7 ss.

[54] Corte cost., 25 luglio 1996, n. 313, cit., avallò la scelta del legislatore della duplicazione delle fonti regolatrici del rapporto, non ritenendola in contrasto con le regole di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa; in seguito Corte cost. 30 gennaio 2002, n. 11 (in questa Rivista, 2002, 293) affermò che “la privatizzazione del rapporto di impiego pubblico (intesa quale applicazione della disciplina giuslavoristica di diritto privato) non rappresenta di per sé un pregiudizio per l’impar­zialità del dipendente pubblico, posto che per questi (dirigente o no) non vi è - come accade per i magistrati - una garanzia costituzionale di autonomia da attuarsi necessariamente con legge attraverso uno stato giuridico particolare che assicuri, ad es., stabilità ed inamovibilità”, per cui rientra nella discrezionalità del legislatore disegnare l’ambito di estensione di tale privatizzazione, con il limite del rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione e della non irragionevolezza della disciplina differenziata.

[55] Per alcuni si è trattato di un trasloco della disciplina del lavoro prestato in posizione di subordinazione verso le pubbliche amministrazioni dall’area del diritto pubblico a quella del diritto privato (Liso, La privatizzazione dei rapporti di lavoro, in Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Commentario diretto da F. Carinci, Milano, 1995, 84); per altri di un matrimonio di interesse, ove pubblico e privato continuano a convivere nella disciplina dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni (D’Antona, La neolingua del pubblico impiego riformato, in LD, 1996, 251).

[56] In merito v. Garilli, Dirigenza pubblica e poteri datoriali, in questa Rivista, 2016, 17.

[57] In merito condivisibilmente Talamo, Relazioni collettive e dirigenza pubblica: prove di legislazione al test della consulta (ed ancora alla ricerca di un assetto ragionevole, in questa Rivista, 2016, 309 il quale rileva la sussistenza di un’evidente anomalia allorquando il dirigente si presenti quale soggetto componente la delegazione di parte pubblica in quanto “si determina un conflitto di interessi neanche tanto potenziale, in quanto il dirigente-attore negoziale finisce con il contrattare condizioni normative che gli si applicheranno direttamente, con l’aggravante che le stesse trattative che lo riguardano si svolgono perlopiù in confronto con le stesse organizzazioni sindacali che costituiscono la sua controparte in sede di contrattazione integrativa per i dipendenti non dirigenti”.

[58] In merito D’Orta, 25 anni di norme che hanno paralizzato la pubblica amministrazione. Riconosciamo gli errori e proviamo a rilanciare il nostro paese, in questa Rivista, 2016, 785 parla di “negazione della ‘discrezionalità amministrativa’, da intendere come ragionata capacità di valutazione e scelta delle amministrazioni a fronte delle mutevoli situazioni che si verificano della realtà, messa all’indice quale che fosse un male in sé.